Il decreto legislativo 231/2001, nel prevedere la responsabilità degli enti, intende fare riferimento a soggetti giuridici singolarmente considerati.

La normativa in esame non dispone nulla in ordine alla disciplina dei gruppi di società, nonostante il fenomeno dei gruppi abbia assunto notevoli dimensioni sia a livello nazionale che internazionale.

E’ opportuno fare una breve premessa sul concetto di gruppo.

Va evidenziato in primo luogo che il gruppo non ha una rilevanza giuridica come soggetto autonomo. Esso, infatti, si caratterizza essenzialmente per il collegamento economico-funzionale intercorrente tra società diverse che svolgono in maniera coordinata l’attività imprenditoriale.

Formalmente, quindi, le società del gruppo sono entità distinte e giuridicamente autonome sia sul piano organizzativo che patrimoniale.

Negli ultimi anni, tuttavia, è stata riconosciuta rilevanza giuridica ai gruppi, prima in ambito europeo ed internazionale e poi anche nel nostro ordinamento.

In particolare la riforma di diritto societario del 2001 ha introdotto un’articolata disciplina del gruppo societario (artt. 2497 cod. civ. e segg.), in base alla quale si configura un gruppo societario quando vi sia un’attività direzione o coordinamento esercitata da una società nei confronti di altra o di altre società.

L’appartenenza ad un gruppo implica per le società che vi fanno parte degli obblighi e delle responsabilità, quali ad esempio l’obbligo di redigere il bilancio consolidato al ricorrere di determinate condizioni.

Con l’entrata in vigore della riforma del diritto societario si è posto il problema della possibile applicazione ai gruppi societari della normativa contenuta nel D.lg. 231/01.

L'estensione della disciplina riguardante la responsabilità amministrativa degli enti al gruppo o alla capogruppo pone una serie di problematiche giuridiche, riguardanti innanzitutto la compatibilità di tale estensione con la lettera e con la ratio della normativa in esame.

Come è noto, la configurazione della responsabilità dell'ente presuppone da un lato che la persona fisica, autore del reato presupposto, rivesta una determinata posizione nella struttura dell’ente (precisamente deve trattarsi di un apice o di un sottoposto ex art. 5 lettere a e b del decreto 231) e che tale persona fisica abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente; dall'altro lato, presuppone la cd. “colpa di organizzazione”, ovvero il difetto genetico o funzionale di un modello organizzativo di prevenzione.

Il riferimento ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente costituisce «l'espressione normativa del rapporto di immedesimazione organica» (cfr. relazione governativa del D.lg. 231/01), introdotto per assicurare il rispetto del principio costituzionale della responsabilità penale personale, inteso nella sua accezione minima di divieto di responsabilità per fatto altrui.

Nell’ipotesi del gruppo si può verificare che il reato presupposto venga posto in essere da persone fisiche appartenenti all'organizzazione di una società controllata, ma nell'interesse della controllante, o viceversa.

In tali casi, l’applicazione dei criteri di imputazione previsti dal D.lg. 231 porterebbe ad escludere la responsabilità della holding in quanto gli autori del reato non rivestono all’interno di quest’ultima alcuna delle posizioni qualificate previste dall’art. 5 del D.lg. 231. D’altra parte si dovrebbe escludere anche la responsabilità della controllata ai sensi dell’art. 5, comma 2 del D.lg. 231, essendo stato il reato commesso nell’interesse della holding e quindi di un soggetto terzo.

La giurisprudenza e la dottrina, tuttavia, hanno cercato di arrivare ad una affermazione di responsabilità del gruppo o della società capogruppo attraverso diverse strade.

Una prima tesi muove dalla premessa che il gruppo può essere considerato un soggetto giuridico unico, nonostante la distinta personalità giuridica che contraddistingue le società che vi fanno parte.

La soggettività unitaria del gruppo deriverebbe dal fatto che le società che lo compongono operano sotto la direzione unitaria ed il coordinamento di un’unica società capogruppo.

In questa ottica, pertanto, il reato eventualmente commesso nell’ambito di una delle controllate sarebbe inevitabilmente finalizzato al conseguimento di in un interesse o vantaggio per il gruppo complessivamente considerato o quanto meno per la holding, ad esempio in termini di conservazione o incremento del valore della partecipazione azionaria nella controllata.

Il gruppo, quindi, sarebbe portatore di un interesse unitario (cd. “interesse di gruppo”) che prescinde dalle particolari posizioni delle società che vi fanno parte. Conseguentemente esso può ritenersi destinatario diretto del D.lg. 231 in quanto rivestirebbe la qualifica di ente privo di personalità giuridica, ai sensi dell’art. 1, secondo comma del decreto in esame.

In proposito si richiama l'ordinanza del Tribunale di Milano del 20 dicembre 2004, che affronta una vicenda di corruzione aggravata nell'ambito dell'aggiudicazione degli appalti.

Preliminarmente il Giudice per le indagini preliminari effettua una distinzione fra holding pura ed holding mista.

La prima è intesa come quella società che si limita a detenere partecipazioni in altre società senza svolgere alcuna attività di produzione o di scambio, mentre la seconda è intesa come quella società che, oltre a detenere partecipazioni, esercita anche un’attività industriale direttamente e/o indirettamente attraverso l'esercizio in concreto di poteri di direzione e coordinamento.

Secondo questa prima tesi, quindi, sarebbe sufficiente, al fine dell’affermazione di responsabilità della capogruppo, che quest’ultima abbia esercitato un potere di direzione e coordinamento in relazione all'attività nel cui ambito è stato commesso il reato. Siffatto potere, infatti, sarebbe l’indice dell’esercizio da parte della holding dell'attività d'impresa in cui è stato commesso il reato, sia pure in modo mediato ed indiretto attraverso le società controllate.

Tale orientamento si espone ad una serie di critiche.

In primo luogo non si può affermare che il gruppo sia un soggetto giuridico unitario in ragione dell’unità di impresa e del collegamento economico e funzionale tra le società. Ciò, infatti, contrasta con il principio della autonomia giuridica delle società del gruppo che, come sopra accennato, restano soggetti fra loro distinti.

L’art. 1, secondo comma del D.lg. 231, inoltre, laddove fa riferimento agli enti privi di personalità giuridica, deve essere interpretato nel senso di voler ricomprendere quei soggetti che, pur non avendo la personalità giuridica, potrebbero tuttavia conseguirla.

Si evidenzia per altro che l’ “interesse di gruppo”, a cui tale orientamento si riferisce, ha un contenuto indistinto e generico, e non può pertanto assurgere a criterio di imputazione ai fini del D.lg. 231. Nella disciplina in esame, infatti, l’unico interesse rilevante è quello immediato e diretto dell’ente nel cui ambito è stato perpetrato il reato presupposto.

L'esercizio del potere di direzione e coordinamento, inoltre, non presuppone necessariamente un rapporto di immedesimazione organica fra chi commette il reato e la società chiamata a rispondere. E’ sempre necessario verificare caso per caso se il reato presupposto sia stato commesso effettivamente nell'interesse della società capogruppo.

Secondo un altro orientamento potrebbe ravvisarsi una responsabilità ex D.lg. 231 del gruppo o della capogruppo attraverso il ricorso alla figura dell’amministratore di fatto.

La holding, infatti, potrebbe rivestire nei confronti della controllata il ruolo di “amministratore di fatto” qualora  i propri esponenti esercitino la gestione su ingerendosi nelle sue scelte decisionali.

Tale ricostruzione è in astratto condivisibile poichè non contrasta con i principi del  D.lg. 231.

In concreto, tuttavia, è ben difficile che essa possa trovare applicazione.

Tale orientamento, infatti, presuppone che la holding eserciti sulla controllata un dominio così penetrante da potersi considerare come l’unico soggetto giuridico a cui imputare le conseguenze dei reati eventualmente commessi nell’ambito delle controllate. In altre parole deve trattarsi di gruppo apparente.

Nella generalità dei casi, invero, la controllata mantiene sempre una propria autonomia nella gestione dell’impresa. Non ricorrerebbero, pertanto, i presupposti dell’ “amministrazione di fatto” ossia l’esercizio continuativo e significativo da parte della holding dei poteri di gestione e controllo.

Si richiama, infine, un terzo orientamento secondo il quale la holding potrebbe essere chiamata a rispondere dei reati della controllata ex art. 40, comma 2 c.p.

Ciò in quanto la holding sarebbe titolare di una posizione di garanzia, incombendo su di essa un obbligo di vigilanza sull’operato delle controllate.

Tale tesi presenta diversi punti deboli.

Come sopra già esposto, non bisogna dimenticare che all’interno del gruppo le società mantengono una personalità giuridica distinta ed una propria autonomia operativa, sebbene la capogruppo eserciti su di esse un’influenza dominante. Gli organi amministrativi della holding, certamente, non hanno dal punto di vista giuridico l’obbligo di impedire i reati delle controllate né tanto meno hanno i poteri impeditivi necessari affinchè possa realmente configurarsi in capo ad essi una posizione di garanzia in grado di generare una responsabilità ai sensi dell’art. 40, comma 2 c.p.

La controllante potrà essere chiamata a rispondere solo qualora un suo vertice o un suo sottoposto sia concorso ex art. 110 c.p. nel reato presupposto, commesso nell’ambito della controllata da soggetti qualificati, nell’interesse o a vantaggio della controllante. In tal caso l’estensione della responsabilità alla holding non è altro che il frutto dell’ordinaria applicazione dei criteri di imputazione, oggettivi e soggettivi, previsti dal D.lg. 231.  Soltanto in questo modo è possibile, de lege condita, configurare la responsabilità della holding ex D.lg. 231.