Il ruolo delle fonti comunitarie e CEDU nel diritto penale odierno
L’importanza dei rapporti tra ordinamenti sovranazionali ed ordinamenti interni aderenti presenta una portata dirompente in tutti i settori e le branche del diritto. La cessione parziale di sovranità da parte degli Stati aderenti alla comunità internazionale, all’Unione europea ed all’ordinamento convenzionale della CEDU, presentano problemi di non poco rilievo in relazione alla portata ed all’incidenza nel sistema delle fonti interne di tali sistemi sovranazionali. L’adesione degli Stati membri all’ordinamento comunitario e all’ordinamento convenzionale determinano inevitabilmente una sovrapposizione di ruoli sul piano della creazione delle fattispecie normative ed una evidente invasione dei principi e delle regole propri dei sistemi sovranazionali all’interno degli ordinamenti degli Stati membri. I rapporti tra ordinamenti sovranazionali ed ordinamenti interni sono ben evidenziati oltretutto nel dialogo tra Corti in relazione a determinate questioni giuridiche che interessano l’intero ordinamento complessivamente inteso, non solo nazionale, ma l’intera comunità internazionale mondiale. Vi sono infatti settori particolarmente sensibili dei sistemi giuridici degli Stati membri che sono stati sottoposti a più riprese al vaglio delle Corti sovranazionali, ossia della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
I rapporti tra fonti sovranazionali e diritto interno si apprezzano particolarmente se si considera come oggetto di studio ed ipotesi di lavoro le limitazioni della potestà penale delle istituzioni comunitarie e convenzionali. Da sempre, il rapporto tra diritto sovranazionale e diritto nazionale ha avuto un epilogo acceso in relazione alle possibili incidenze e condizionamenti degli ordinamenti sovranazionali sul sistema penale nazionale degli Stati membri. In particolare, nei rapporti tra le fonti sovranazionali ed il diritto penale italiano, la dottrina e la giurisprudenza nazionali si sono a più riprese interrogate in ordine alla potenziale invasione ed intrusione degli ordinamenti sovranazionali sulla potestà legislativa penale italiana, cosi consacrata a chiare lettere dall’art. 25, comma secondo, Costituzione. Se è vero infatti che l’unica fonte del diritto penale italiano può essere soltanto la legge, nella veste di legge ordinaria del Parlamento e di decreto legislativo del Governo su delega del Parlamento ovvero di Decreto legge convertito in legge dalle Camere, allora non dovrebbe darsi spazio e ruolo alcuno alle fonti del diritto sovranazionale.
La disposizione costituzionale di cui all’art. 25, comma 2 ha un senso in materia penale dal momento che a causa degli interessi sensibili e della tutela dei beni giuridici propri dell’ordinamento penale in una determinata epoca storica soltanto il legislatore nazionale, nella duplice veste di Parlamento e di Governo, può essere pienamente a conoscenza delle esigenze di repressione penale di determinate condotte ovvero della necessità di punire più severamente alcune fattispecie di reato già introdotte nel sistema nazionale. Il legislatore nazionale per definizione è dotato della piena rappresentatività dei cittadini italiani. Soltanto l’ordinamento italiano può conoscere con certezza quali condotte punire e reprimere attraverso la sanzione penale che costituisce l’extrema ratio del diritto penale in ossequio al principio fondamentale di necessità/sussidiarietà dell’intervento penale. La potestà legislativa penale italiana, di regola, per come è stata concepita dai padri costituenti non potrebbe trovare compressione alcuna da parte di fonti esterne, benché queste ultime si pongano in un rapporto di supremazia gerarchica nella scala delle fonti del diritto interno rispetto alla stessa Costituzione ed alle leggi costituzionali. La questione, come ben si comprende, non è affatto di agevole soluzione, anche perché la riserva di legge nazionale in materia penale deve fare i conti con altrettanti, e forse più importanti, principi costituzionali, quali senza dubbio il dogma consacrato nell’art. 10 Cost., ai sensi del quale “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Tale principio denota un riconoscimento della incidenza delle fonti superiori sovranazionali sul sistema giuridico interno ed è elevato addirittura a rango di principio fondamentale della Costituzione, intangibile in quanto tale. Il principio del riconoscimento dell’incidenza delle fonti sovranazionali all’interno dell’ordinamento italiano è corroborato anche dall’art. 11 Cost., il quale ammette che l’Italia in quanto aderente agli ordinamenti sovranazionali ammette alle limitazioni parziali di sovranità. La cessione di una quota di sovranità da parte dello Stato italiano in favore della comunità internazionale fa comprendere immediatamente il rapporto tra fonti sovranazionali e fonti nazionali. Da ultimo, importanza fondamentale è riconosciuta all’art. 117, comma primo, Cost., modificato per effetto della riforma costituzionale del titolo quinto della Costituzione introdotta con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, ai sensi del quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” La disposizione costituzionale riveste un ruolo fondamentale per comprendere appieno l’incidenza delle fonti normative sovranazionali sul sistema interno, soprattutto sul diritto penale italiano.
La Costituzione riconosce espressamente che lo Stato italiano, in forza della cessione parziale di sovranità in favore degli ordinamenti sovranazionali, dovrà conformarsi e limitare la propria potestà legislativa, esclusiva e concorrente con le Regioni, ai dicta imposti dai sistemi normativi internazionali. L’importanza della disposizione costituzionale si comprenderà appieno soltanto quando si analizzeranno i rapporti tra ordinamento convenzionale della Cedu e sistema delle fonti italiano, rapporti analizzati in modo magistrale dalle storiche sentenze gemelle della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, in materia di determinazione dell’indennizzo in caso di espropriazione per pubblica utilità. Si proceda con ordine. È necessario analizzare dapprima i rapporti tra fonti comunitarie e fonti del diritto penale italiano. L’adesione dell’Italia alla comunità europea ha portato a diverse conseguenze sul piano pratico, soprattutto in tema di potestà legislativa penale. In letteratura infatti ci si è domandati se l’adesione dell’Italia al sistema comunitario potesse aver comportato una cessione parziale non solo della sovranità dello Stato italiano ma anche di una quota di potestà legislativa penale. In altri termini e sotto altra angolazione, la questione riguardava la possibile potestà legislativa penale delle istituzioni comunitarie. L’ordinamento comunitario, com’è noto, può imporre agli Stati membri aderenti obblighi legislativi in determinate materie attraverso l’emanazione di atti normativi self executing, quali i regolamenti europei, ora codificati dall’art. 288 TFUE, i quali, a causa della loro portata precettiva diretta ed immediata e la loro efficacia erga omnes a tutti gli Stati membri dell’Unione europea, possono vincolare direttamente ed immediatamente gli Stati destinatari in relazione al loro contenuto, senza necessità di trasposizione della fonte regolamentare nell’ordinamento nazionale. Le istituzioni comunitarie possono anche adottare direttive europee, le quali, a differenza dei regolamenti, di regola non rivestono una portata precettiva diretta ed immediata all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale degli Stati membri, richiedendo invece un preciso atto legislativo nazionale di recepimento e di adattamento del contenuto della direttiva. La direttiva europea può essere anche dettagliata e precisa, ed in questo caso avrà una portata effettuale analoga ai regolamenti europei, trovando infatti recepimento diretto ed immediato all’interno del sistema ordinamentale nazionale, senza alcun atto di trasposizione interno.
Ai sensi dell’art. 288 TFUE, disposizione del Trattato che regola il sistema delle fonti europee e la relativa portata effettuale negli ordinamenti degli Stati membri, la differenza tra regolamenti e direttive si incentra sul piano della portata estensiva. Mentre i regolamenti europei infatti hanno una portata erga omnes, ossia sono rivolti a tutti gli Stati membri aderenti in via generale ed astratta, le direttiva europee, al contrario, benché dotate di efficacia precettiva diretta ed immediata se dettagliate, hanno una portata effettuale soltanto circoscritta e limitata agli Stati membri che ne sono diretti destinatari. Portata meno incidente in materia di fonti del diritto comunitario presentano le decisioni, le raccomandazioni ed i pareri. Tutte queste fonti sono descritte puntualmente dall’art. 288 TFUE, ai sensi del quale “Per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolto per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questa. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti.” Come si può evincere dalla disposizione regolatrice delle fonti europee, le raccomandazioni ed i pareri non hanno portata precettiva e quindi non sono vincolanti per gli Stati membri che ne sono destinatari. Si tratta di atti normativi di solf law. Viene allora da domandarsi se in materia penale l’Unione europea possa in qualche modo vincolare e condizionare i legislatori nazionali degli Stati membri ed introdurre veri e propri obblighi di criminalizzazione che saranno poi adempiuti dai legislatori statuali attraverso la creazione ex novo di fattispecie legislative penali di rango comunitario. È vero che la primazia del diritto comunitario sul diritto interno condiziona a più riprese le scelte politiche del legislatore intero, ma è anche vero che la potestà legislativa penale deve essere rispettosa pienamente della democraticità dei cittadini rappresentati dalle istituzioni legislative.
Dal momento che la sanzione penale presenta una incidenza sulla libertà personale del cittadino che violi il precetto normativo in essa descritto, è assolutamente necessario che la fattispecie incriminatrice che vieti un determinato comportamento ovvero imponga un’azione precisa provenga esclusivamente da un legislatore dotato di piena rappresentatività democratica dei cittadini. Soltanto in questo modo il sacrificio della libertà di azione dei cittadini a fronte di precetti penali chiari, precisi e determinati sarà compensato. Il legislatore nazionale è ben consapevole dei problemi dei cittadini che rappresenta ed è inevitabilmente più vicino alle esigenze di repressione penale della comunità nazionale più di quanto non lo siano le istituzioni legislative comunitarie. Il diritto comunitario, com’è noto, deve fare spesso i conti con il deficit di democraticità provocato dalle istituzioni legislative europee, Parlamento europeo e Consiglio. Tali istituzioni sovranazionali sono dotati di una rappresentatività soltanto mediata e sfumata dei cittadini di ogni singolo Stato membro, rappresentati questi a loro volta dai rappresentati degli Stati membri che compongono questi organi. Ne discende un chiaro deficit di rappresentatività di ogni singolo cittadino di ciascuno Stato aderente all’Unione europea. Questo problema si traduce inevitabilmente in una carenza di potestà legislativa penale, quantomeno diretta, in capo agli organi europei. Le istituzioni legislative europee infatti a causa della lontananza dai problemi della collettività dei cittadini nazionali di ogni Stato membro non sanno con assoluta certezza quali siano le esigenze di repressione penale e quale politica criminale adottare. La potestà legislativa penale dell’Unione europea non può essere diretta ed immediata.
L’Unione europea non può infatti adottare con atti normativi self executing quali regolamenti e direttive dettagliate obblighi di penalizzazione di determinate condotte ritenute da questa degne di tutela penale. Gli interessi giuridici delle istituzioni comunitarie in materia penale spesso non coincidono ed anzi collidono con quelli degli Stati membri destinatari dei precetti comunitari. Si ritiene allora che l’ordinamento comunitario possa adottare senza dubbio atti normativi di soft law in materie penale, attraverso i quali le istituzioni sovranazionali si limitano a consigliare gli organi di legislazione interna circa la possibilità di reprimere penalmente determinate condotte. A causa del carattere non vincolante di raccomandazioni e pareri, così come espressamente disposto dall’art. 288, ultimo comma, TFUE, spetterà poi ai singoli ordinamenti nazionali decidere se punire quelle determinate condotte attraverso sanzione penale, ovvero soltanto sul piano extrapenale, oppure non punirle affatto. Il TFUE si occupa dei rapporti tra ordinamento europeo e diritto penale interno degli Stati aderenti agli artt. 82 e seguenti in materia di cooperazione giudiziaria penale. Sulla cooperazione in materia penale fondamentale è l’art. 83 del Trattato in forza del quale il Parlamento europeo ed il Consiglio possono adottare attraverso una procedura legislativa ordinaria norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni. Tali sfere di criminalità riguardano: la lotta al terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata. Come si può evincere dalla disposizione in questione, le istituzioni legislative dell’ordinamento europeo possono adottare per mezzo di direttiva comunitaria norme minime in relazione ai reati di interesse comune a tutti gli Stati membri, che assurgono in conseguenza della potenziale gravità al rango di reato transazionale. L’Unione europea non impone agli Stati destinatari di introdurre ex novo fattispecie penali. In altri termini, l’ordinamento sovranazionale comunitario non costruisce fattispecie penali complete di precetto e di sanzione per poi obbligare gli Stati ad introdurre e recepire plasticamente il contenuto delle direttive nei rispettivi ordinamenti nazionali. Rientra nelle competenze legislative europee in materia penale la definizione degli aspetti minimi dei reati che offendono interessi giuridici comuni a tutti gli Stati della Comunità europea. L’obiettivo della cooperazione in materia penale è quello di creare una legislazione europea e nazionale di ogni singolo Stato aderente che sia il più possibile omogenea ed uniforme, in sostanza un vero e proprio diritto penale comune. Tale obiettivo è esplicitamente dichiarato dall’art. 83 TFUE, il quale, al secondo comma, prevede che attraverso la cooperazione giudiziaria in materia penale si potrà raggiungere il ravvicinamento, ossia l’uniformità, delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale e tale omogeneità si rivela di fondamentale importanza per garantire l’attuazione di una efficace politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione. Attraverso lo strumento normativo delle direttive comunitarie, le istituzioni europee possono adottare norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni. La direttiva in questione non sarà dotata di portata effettuale self executing, alla stessa stregua dei regolamenti. Si comprende dunque che la potestà legislativa in materia penale non è stata compressa e compromessa a causa dell’adesione dell’Italia all’ordinamento comunitario. La direttiva in materia penale lascia liberi infatti gli Stati membri destinatari di scegliere e selezionare i mezzi e le modalità per darvi attuazione. L’incidenza delle fonti comunitarie sul sistema del diritto penale italiano si apprezza ancor di più se si studia il fenomeno sotto l’angolazione del dialogo tra Corti.
Ai fini della completezza della trattazione è necessario indagare i rapporti tra giudice nazionale italiano e giudice comunitario in relazione all’interpretazione ed alla portata applicativa delle fonti europee nel diritto nazionale. Com’è noto, le fonti comunitarie rivestono una posizione di supremazia gerarchica nel sistema delle fonti del diritto interno, essendo di rango superiore alla stessa Costituzione ed alle leggi costituzionali. La primazia del diritto comunitario sul diritto nazionale è stata ribadita definitivamente dalla Corte costituzionale. La Corte in tale vicenda ha ribadito un principio che sarebbe stato poi recepito definitivamente all’interno del sistema nazionale delle fonti del diritto. Il diritto europeo riveste una posizione di superiorità gerarchica rispetto al diritto interno e, come tale, si pone al di sopra della Costituzione e delle leggi costituzionali. I rapporti tra diritto comunitario e diritto penale italiano si fanno più interessanti se si studia il ruolo del giudice nazionale il quale sia stato chiamato a pronunciarsi su una disposizione penale nazionale che sembra porsi in conflitto con il diritto comunitario. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria e nazionale hanno più volte ribadito che sussiste un dovere in capo al giudice nazionale di interpretare le disposizioni normative interne in conformità con il diritto comunitario, dato il ruolo di primazia di questo ordinamento nel sistema delle fonti interne.
Nel caso in cui la disposizione normativa, anche se penale, si ponga in conflitto con una fonte del diritto comunitario, il giudice nazionale ha il dovere di risolvere il conflitto solo potenziale ed astratto soltanto sul piano squisitamente esegetico ed interpretativo. Vi è dunque una prima fase nella quale l’organo di giustizia nazionale deve cercare di “salvare” la norma penale nazionale interpretandola in modo da adattarla alle prescrizioni delle fonti comunitarie. Se il conflitto è soltanto potenziale ed è risolto dal giudice sul piano meramente interpretativo, nulla quaestio. Il problema sorge invece laddove il conflitto tra fonte comunitaria e fonte interna da potenziale diventi concreto ed effettivo. In tal caso, l’interpretazione adeguatrice non ha funzionato. Il giudice nazionale allora, se i risultati dell’interpretazione comunitariamente conforme non sono positivi, potrà (se giudice di merito) o dovrà (se giudice di legittimità ovvero costituzionale) investire la Corte di giustizia dell’Unione europea per il tramite del ricorso in via pregiudiziale, disciplinato dagli artt. 267 e seguenti del TFUE. Se la Corte di giustizia accoglie il ricorso in via pregiudiziale e dunque ravvisi il conflitto concreto ed effettivo tra norma comunitaria e norma penale interna, il giudice nazionale sarà tenuto a disapplicarla in relazione alla vicenda concreta e non già a sollevare questione di legittimità costituzionale per possibile contrasto con il parametro interposto di costituzionalità ex art. 117, primo comma, Cost. Lo strumento della disapplicazione della disposizione incriminatrice nazionale che contrasta con la fonte comunitaria non consente di espungere definitivamente dall’ordinamento nazionale la norma. La fattispecie incriminatrice che si ponga in conflitto con la fonte sovranazionale sarà privata di portata effettuale con riferimento alla fattispecie concreta sottoposta alla cognizione del giudice penale/nazionale. L’obbligo del giudice nazionale di adottare l’interpretazione comunitariamente conforme della norma interna è stato a più riprese consacrato dalla Corte di giustizia comunitaria e ribadito nella nota sentenza Pupino, con la quale il giudice comunitario nel riconoscere il ruolo di primazia delle fonti europee rispetto al diritto penale nazionale ha imposto al giudice interno di interpretare le disposizioni nazionali in conformità al diritto comunitario qualunque sia la fonte europea, non soltanto atti europei di primo pilastro, ma anche atti di secondo e terzo pilastro. L’incidenza degli ordinamenti sovranazionali sul diritto penale interno si mostra ancor più penetrante se si analizza il difficile rapporto tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il diritto penale italiano. Le difficoltà dei rapporti tra l’ordinamento convenzionale ed il sistema penale italiano nascono principalmente a causa di una diversa concezione degli istituti di diritto penale sostanziale e processuale nei rispettivi ordinamenti. L’ordinamento della CEDU predilige, come l’ordinamento comunitario, le categorie giuridiche sostanziali rispetto a quelle meramente formali.
Nondimeno fanno parte del sistema convenzionale CEDU Stati che presentano difformità tra loro. Alcuni ordinamenti nazionali aderenti infatti prediligono un sistema di common law, all’interno del quale la giurisprudenza assolve ad un ruolo creativo del diritto; altri Stati, tra i quali l’Italia, hanno adottato un sistema giuridico di civil law, impostato sulla positivizzazione e codificazione, all’interno del quale la giurisprudenza delle Corti nazionali non svolge alcun ruolo creativo del diritto ed i relativi precedenti giudiziari, benché adottati dalla massima composizione del Consesso giudiziario, non sono in alcun modo vincolanti per gli altri giudici nazionali chiamati a pronunciarsi su casi concreti simili ovvero analoghi a quello in relazione al quale si è formato il precedente giurisprudenziale. In sostanza, mentre negli ordinamenti giuridici di common law vige lo stare decisis, ossia la vincolatività dei precedenti delle Corti supreme, al contrario, nei sistemi di civil law, il precedente non vincola in alcun modo i giudici , a nulla rilevando che lo stesso provenga da un giudice particolarmente autorevole, si pensi alle nostre Sezioni unite della Corte di cassazione ovvero all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. La profonda divergenza tra gli ordinamenti di civil law e di common law degli Stati aderenti alla CEDU crea senza dubbio un problema di uniformità di vedute del diritto e degli istituti giuridici. Un esempio su tutti è il differente modo di intendere la legalità nella CEDU e nell’ordinamento nazionale italiano, caso oggetto della celeberrima sentenza Scoppola contro Italia del 2009 e ribadito in altre pronunce simili della Corte EDU. L’adesione dell’Italia alla Convezione EDU pone quindi problemi seri attinenti all’incidenza delle fonti convenzionali rispetto al sistema nazionale italiano ed ai rapporti tra queste ed il diritto penale interno. Viene da domandarsi in primo luogo se i rapporti tra fonti convenzionali e diritto penale italiano debbano essere analizzati allo stesso modo dei rapporti tra fonti comunitarie e diritto interno. La domanda riceve una risposta senza dubbio negativa, data la diversità tra gli ordinamenti comunitario e convenzionale. La prima differenza di fondo concerne la divergente collocazione sistematica delle fonti europee e convenzionali nel sistema italiano. Mentre le fonti del diritto comunitario si pongono su un gradino superiore rispetto alla Costituzione ed alle leggi costituzionali, diversamente il diritto convenzionale della CEDU occupa un ruolo subordinato rispetto alla Costituzione ed alle leggi costituzionali. Il diritto CEDU infatti si colloca sistematicamente in una posizione paracostituzionale, ossia subordinato alla legge fondamentale dello Stato italiano e sovraordinato al tempo stesso rispetto alle leggi ordinarie. Da questa differente collocazione delle fonti convenzionali della CEDU nel sistema delle fonti del diritto interno rispetto al diritto comunitario ne discende un corollario evidente riguardante il conflitto che si potrebbe creare tra fonte CEDU e diritto interno. In particolare, il giudice nazionale si trova in grande difficoltà laddove riscontri un potenziale conflitto tra una norma convenzionale della CEDU ed una fonte interna, quale una fattispecie incriminatrice nazionale. In questo caso, la giurisprudenza costituzionale ha adottato una linea guida di grande ausilio per l’interprete chiamato a risolvere la non agevole questione giuridica sottoposta alla sua cognizione. La Corte costituzionale ha assolto sul punto un ruolo fondamentale con le storiche sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007 adottate non in materia penale, ma relativamente alla questione della determinazione dell’indennizzo in favore del privato destinatario dell’espropriazione per pubblica utilità. Il giudice delle Leggi ha tracciato coordinate fondamentali che consentono di ricostruire i rapporti tra Convenzione EDU e sistema delle fonti nazionale. In primo luogo, alla stessa stregua dei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, il giudice nazionale il quale ravvisi un potenziale conflitto tra norma convenzionale e norma interna è tenuto ad interpretare la disposizione italiana in modo conforme alla Convenzione europea. Tale esegesi normativa prende il norme di interpretazione convenzionalmente conforme o orientata. Se il conflitto tra fonte convenzionale e norma penale interna si risolve in questi termini, nulla quaestio. Diversamente, problemi di non agevole soluzione si pongono nel caso in cui l’interpretazione convenzionalmente orientata non funzioni e la norma penale risulti così contrastante in modo concreto con la norma convenzionale.
In altri termini, se il conflitto tra norma convenzionale e norma interna da potenziale ed astratto si tramuti in effettivo e concreto, il giudice nazionale non potrà disapplicare la disposizione interna ma sarà tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale per contrasto con il parametro interposto di legittimità costituzionale di cui all’art. 117, comma primo, Cost.. Alla luce del fondamentale orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte costituzionale con le celebri sentenze gemelle, le norme convenzionali della CEDU transiterebbero in via indiretta nel precetto posto dall’art. 117 Cost. Le fonti convenzionali contenute nella CEDU transitano nel parametro interposto di legittimità costituzionale di cui all’art. 117, comma primo, Cost.. Ne discende che se la norma interna contrasta concretamente, senza che l’interpretazione convenzionale abbia avuto successo, con la CEDU, il giudice nazionale sarà tenuto a sollevare la pregiudiziale di legittimità costituzionale ed investire così il giudice delle leggi della questione di costituzionalità. Se accolta, la Corte pronuncerà la sentenza di illegittimità costituzionale con la quale espungerà da sistema nazionale la disposizione normativa italiana che si ponga in conflitto con il parametro interposto di legittimità costituzionale. Si tratta di una differenza fondamentale rispetto al diritto comunitario. Il contrasto tra diritto comunitario e diritto interno infatti sarà risolto dalla Corte di giustizia UE sul piano del rinvio pregiudiziale. Ne discende pertanto che il giudice nazionale, in caso di accoglimento della pregiudiziale comunitaria, sarà tenuto a disapplicare la norma interna che confligga con le fonti europee. La disapplicazione non è ammessa invece se la disposizione nazionale contrasta con la CEDU. In tal caso, per effetto del parametro interposto di legittimità costituzionale ex art. 117, primo comma, Cost., il giudice nazionale non disapplica la fattispecie nazionale ma solleverà questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale. La divergenza tra ordinamento comunitario ed ordinamento convenzionale è marcata e netta. Nel primo caso, il contrasto tra diritto comunitario e diritto italiano sarà sanzionato sul piano della mera disapplicazione. Nel secondo caso, vi sarà una sentenza di illegittimità costituzionale, in caso di non manifesta infondatezza della questione, che espungerà con effetti retroattivi ex tunc la norma interna dall’ordinamento.
L’adesione dell’Italia all’ordinamento convenzionale della CEDU ha posto ulteriori questioni problematiche inerenti al diverso modo di concepire gli istituti penalistici nei due ordinamenti. Come già accennato, infatti, la Convenzione EDU predilige le categorie elastiche e sostanziali dei concetti giuridici, ed in questo senso essa si pone maggiormente in linea con i sistemi normativi di common law. Il caso emblematico è stato affrontato dalla Corte EDU nella nota vicenda Scoppola contro Italia del 2009. Sul punto, la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo era stata chiamata ad interpretare il concetto di legalità ed adottò una nozione ampia ed elastica del principio. Il principio di legalità, ad avviso dell’orientamento giurisprudenziale della Corte EDU, deve essere inteso in senso materiale. L’esegesi elastica della Corte trae linfa della nozione di legalità di cui all’art. 7 CEDU. Il concetto di “diritto” adoperato nell’art. 7 CEDU deve essere inteso in senso estensivo, comprendente non soltanto il diritto di fonte legislativo/parlamentare, ma anche quello di matrice pretoria/giurisprudenziale. L’orientamento adottato dalla Corte EDU nel caso Scoppola mal si concilia con il sistema penale italiano, sistema di civil law. Nell’ordinamento penale italiano la giurisprudenza, per quanto autorevole essa sia, non può mai assurgere a fonte creatrice del diritto penale, perché un simile ruolo si tradurrebbe inevitabilmente in una ingerenza nella potestà legislativa ed in una violazione inevitabile del principio di separazione dei poteri. Nel diritto penale italiano la giurisprudenza non può in alcun modo creare ovvero modificare le fattispecie normative penali introdotte dal legislatore, perché ciò è imposto tassativamente dall’art. 25, secondo comma, Cost.. Il ruolo di incidenza della CEDU sul diritto penale interno trova come contrappeso il principio di riserva di legge statale esclusiva. Il principio in questione espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost. è il frutto della separazione dei poteri e rappresenta in quanto tale il nocciolo duro del sistema delle fonti del diritto penale italiano.
Per impedire che l’adesione dell’Italia non soltanto alla CEDU ma anche agli altri ordinamenti sovranazionali si possa inevitabilmente tradurre in uno stravolgimento dei principi fondamentali del sistema italiano delle fonti del diritto, principi che rappresentano il substrato immodificabile dell’ordinamento giuridico nazionale ossia la costituzione materiale, opera la nota teoria dei controlimiti. Sulla base di questa teoria, l’adesione dell’ordinamento italiano agli ordinamenti sovranazionali trova un limite nel divieto dei secondi di costringere l’Italia a violare diritti fondamentali o principi immodificabili che caratterizzano lo zoccolo duro del sistema delle fonti interno. Il concetto di legalità materiale ex art. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, non può essere recepito dal legislatore penale italiano perché violativo della teoria dei controlimiti, ponendosi a sua volta in attrito evidente con il principio di riserva di legge statale in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.. La sentenza Scoppola contro Italia del 2009 deve apprezzarsi sotto un altro punto di vista. La giurisprudenza della CEDU enuncia i caratteri propri delle disposizioni normative negli ordinamenti nazionali degli Stati aderenti alla Convenzione. In particolare, le norme devono essere caratterizzate dai requisiti di prevedibilità ed accessibilità. I requisiti così enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo devono essere presenti in tutti i precetti normativi, in particolar modo in quelli penali. Il destinatario delle disposizioni penali infatti deve conoscere in anticipo quali saranno le potenziali conseguenze giuridiche delle proprie scelte di azione. Tale conoscenza anticipata si avrà soltanto laddove le disposizioni penali nazionali degli Stati saranno rispettose dei requisiti di prevedibilità ed accessibilità. La prevedibilità consiste nella consapevolezza da parte del destinatario del precetto normativo delle potenziali conseguenze penali delle proprie scelte di condotta che si pongano in contrasto con la norma. L’accessibilità attiene invece al linguaggio ed alla tecnica di costruzione normativa delle fattispecie penali. Il precetto sarà dotato del crisma dell’accessibilità soltanto se permeato da una certa chiarezza e precisione nella descrizione delle condotte penalmente sanzionate. Il dictum giudiziale perseguito dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola ed attinente alla nozione di legalità materiale è stato ripreso da successiva pronunce giurisprudenziali della CEDU del 2011 e del 2012, i cosiddetti “fratelli minori di Scoppola”, in relazione all’interpretazione della natura giuridica della confisca.
La Corte europea di Strasburgo adotta, ancora una volta, una nozione elastica ed allargata di legalità penale. La sanzione della confisca, ad avviso della CEDU, deve essere considerata come sanzione penale e non già amministrativa, a nulla rilevando il nomen iuris adottato dal legislatore nazionale, dizione normativa che crea una sorta di “truffa delle etichette” , generando più confusione che altro. A tale esegesi normativa sulla natura giuridica della confisca come sanzione penale e non amministrativa la Corte EDU perviene attraverso una interpretazione allargata del principio di legalità, inteso in senso materiale. La portata dirompente dell’incidenza dell’ordinamento CEDU sul diritto italiano si apprezza anche sul piano processuale penale. La questione riguardava la potenziale illegittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva come ipotesi di abolitio criminis il revirement giurisprudenziale adottato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in relazione alla possibile irrilevanza penale di determinate condotte. In sostanza, ad avviso dei giudici nazionali rimettenti il mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale adottato dalle Sezioni unite della cassazione con il quale il giudice supremo di legittimità riconosce la abolizione di una fattispecie di reato assolverebbe alla medesima funzione dell’abolitio criminis con efficacia travolgente del giudicato penale, realizzata attraverso la legge e la sentenza di illegittimità costituzionale della Corte costituzionale. In sostanza, si reputava illegittimo l’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevedesse tra i casi di revoca della sentenza per abolizione del reato in executivis il revirement giurisprudenziale adottato dalle Sezioni unite. La questione di legittimità costituzionale venne rigettata dalla Corte costituzionale per violazione della nota teoria dei controlimiti. Ad avviso della Corte, infatti, la giurisprudenza nell’ordinamento giuridico italiano non può in alcun modo assurgere a fonte del diritto. La nozione di legalità materiale ex art. 7 CEDU non può essere recepita nel sistema interno, perché il principio fondamentale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. impone al legislatore nazionale il ruolo esclusivo di creatore del diritto penale.
Non mancano tuttavia nell’ordinamento nazionale riscontri giurisprudenziali di segno opposto a tale indirizzo ermeneutico. A causa dell’imprecisione del legislatore nazionale nella costruzione dei precetti giuridici, soprattutto se adottati in materia penale dove vigono i dogmi della tassatività, determinatezza e precisione (corollari del principio di legalità in senso sostanziale ex art. 1 c.p.) sono frequenti i casi di giurisprudenza normativa, che si riscontrano laddove il legislatore faccia impiego nella costruzione dei precetti giuridici di clausole generali, concetti giuridici indeterminati ed elastici, fonti senza dubbio di incertezza e violativi dei declamati canoni di prevedibilità ed accessibilità delle norme giuridiche. I contributi fondamentali apportati dalla giurisprudenza della CEDU al sistema delle fonti del diritto penale italiano hanno riguardato, di recente, istituti classici del diritto penale italiano, reinterpretati e rivisitati dalla giurisprudenza della CEDU. Si possono menzionare al riguardo le sentenze Kokkinakis contro Grecia e, sulla stessa lunghezza d’onda, la sentenza Contrada contro Italia del 2015. Proprio quest’ultima sentenza merita un approfondimento a conclusione del ruolo delle fonti sovranazionali nel diritto penale interno. Sia la sentenza Kokkinakis che la Contrada sono state oggetto di attenzione da parte della CEDU in relazione alla portata della legalità materiale ed ai necessari requisiti di prevedibilità ed accessibilità delle disposizioni penali. La sentenza Contrada contro Italia del 2015 è di fondamentale rilevanza dal momento che la Corte EDU si è scontrata con un istituto di matrice pretoria nel nostro ordinamento penale quale è il concorso eventuale o esterno nel reato associativo. Giova ribadire al riguardo che il concorso esterno nell’associazione mafiosa o terroristica non ha mai ricevuto avallo normativo nel sistema penale italiano, essendo stato il prodotto di un lungo e faticoso percorso dottrinale e giurisprudenziale. Per anni infatti la dottrina penalistica e la giurisprudenza di legittimità italiana rifiutavano il riconoscimento di un simile contributo concorsuale e causale nel reato associativo da parte di un soggetto materialmente estraneo all’associazione delinquenziale, il quale però concorreva alla stessa stregua dell’affiliato alla medesima. I dubbi sono stati superati in una prima tappa dalla storica sentenza Demitry delle Sezioni unite della cassazione del 1994, la quale riconobbe per la prima volta la figura in questione. Il problema che si è creato in termini di certezza del diritto penale e, quindi di riflesso, relativamente ai requisiti di accessibilità e prevedibilità delle norme, attiene al disinteresse mostrato dal legislatore nel positivizzare la figura penalistica, rimasta sempre nell’ombra delle aule di tribunale. L’imputato Contrada all’epoca della commissione dei fatti, secondo il ragionamento svolto dalla Corte EDU, non era a conoscenza e non poteva di certo esserlo della rilevanza penale del concorso esterno o eventuale nel reato associativo, soprattutto perché vi era un vero e proprio caos in letteratura ed in giurisprudenza sul punto, ed anche perché l’istituto in questione risultava spogliato di un addentellato normativo. Per queste ragioni, risultavano violate da parte del legislatore italiano i requisiti di prevedibilità ed accessibilità delle fattispecie penali, dal momento che il Contrada non poteva in alcun modo avere piena conoscenza ed intelligibilità della rilevanza penale della condotta tenuta. Per questi motivi, la Corte EDU condannava lo Stato italiano al risarcimento dal danno in favore dell’imputato. La Corte di Strasburgo ribadiva inoltre che la rilevanza penalistica del concorso eventuale nel delitto associativo, benché non positivizzato ancora nel sistema penale seppur riconosciuto espressamente dalla Corte costituzionale nel 2015 sulla parziale declaratoria di incostituzionalità dell’art 275 c.p.p., è stato ammesso dalla giurisprudenza di legittimità soltanto a partire dalla sentenza Demitry del 1994, di molti anni posteriore rispetto al temus commissi delicti del Contrada. Sulla base di tali considerazioni si può evincere come il sistema penale italiano sia anfibio per certi aspetti. Esso infatti risente delle categorie sostanziali adottate dall’ordinamento comunitario e convenzionale della CEDU, influsso che culmina in modo evidente nel dialogo tra Corti. L’influenza e la sistemazione nel sistema delle fonti del diritto interno delle fonti comunitarie e CEDU non possono però in alcun modo bypassare il nocciolo duro dei controlimiti che caratterizzano il substrato materiale ed immodificabile dell’ordinamento giuridico italiano e rappresentano la quota di sovranità incedibile agli ordinamenti giuridici sovranazionali.