LA JOINT VENTURE : UN'OPPORTUNITA' STRATEGICA
PER LE PICCOLO-MEDIE IMPRESE
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Strategie cooperative e costi transazionali nel 'turbulent environment 
 
                               INDICE
 
                         CAP.I. - INTRODUZIONE
 
1. Che cosa è una joint venture
2. Equity e non-equity joint ventures; corporated e contractual ventures;  ventures verticali e orizzontali
3. Autonomia dei joint-venturers
4. Sfruttare le sinergie
5. Quadro generale della ricerca
 
                 CAP.II. - Il 'TURBULENT ENVIRONMENT'
                    E LE  STRATEGIECOOPERATIVE
 
1. Lo scenario: competizione dinamica fra oligopoli.
2. Gli accordi di cooperazione ('AC') in generale. Le joint ventures e la teoria dei giochi
3. Strategie cooperative alternative (licensing, venture capital, internal venture, nurturing)
4. Le joint ventures nella strategia competitiva flessibile
5. a) Lo sfruttamento delle 'sinergie'
6. b) La 'flessibilità organizzativa' 
7.c) L'aumento della capacità d'investimento; il fattore 'rischio'
8. d) Le joint ventures come modalità di accesso a risorse o mercati altrimenti irraggiungibili
9.Le joint venturesnella teoria dei costi transazionali
10.  Fattori di ritardo e di debolezza nelle joint ventures
 
CAP.III.  -  LA JOINT VENTURE: UN'OPPORTUNITA' STRATEGICA LE PICCOLO-MEDIE IMPRESE ('PMI')
 
1.  Le PMI nella Cee
2.  Validità strategica delle 'reti' di PMI nei mercati 'turbolenti'  
3.  Allearsi con i grandi
4.  Legislazione anti-trust e le joint ventures fra le PMI
5.  I 'costi fissi' per costituire una joint venture: un handicap per le MPI
6.  Costi di negoziazione
7.  Costi legati alla conduzione della joint venture
8.  Costi di valutazione in itinere
9.  Politiche di marchio
 
CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA
 

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Giugno 1990
 
 
CAP. I - INTRODUZIONE
 
 
1.  Che cosa è
 una joint venture
 
 
Una joint venture è  un modello, piuttosto recente, di cooperazione fra imprese.
In prima approssimazione si pu dire che si tratta di un'alleanza fra due o pi imprese in cui ognuna, mantenendo la propria autonomia e indipendenza dall'altra (sia giuridica che economica), accetta di unire una parte delle proprie risorse (capitale, management, know-how, reti di distribuzione ecc.) alle risorse dell'impresa alleata, che chiameremo 'partner', per la realizzazione in comune di un progetto economico o di un'opera di notevoli dimensioni (tipicamente: un appalto internazionale).
Broadley (1982) ha definito la joint venture come un'impresa risultante da un accordo fra due o pi parti per produrre o commercializzare merci, servizi o know-how, in maniera sostanzialmente autonoma dalle organizzazioni genitrici.
 
Evidentemente, la molla che spinge un'azienda a collaborare con un'altra l'impossibilità di realizzare obiettivi commerciali onerosi senza l'aiuto di un partner; una struttura aziendale, infatti, pur efficiente in un mercato nazionale o comunque ristretto, pu essere assolutamente inefficace in mercati in cui la necessit di ingenti risorse finanziarie oppure di adeguati canali di distribuzione, o adeguate conoscenze tecniche, costituiscono una pi che convincente barriera all'entrata per tutte quelle aziende che non dispongano di tali risorse. Di qui l'utilit della cooperazione.
Le joint ventures (per brevit, d'ora in poi, semplicemente "jv") sono nate, come forma organizzativa commerciale, alla fine del secolo scorso negli USA, per la costruzione delle prime ferrovie continentali; negli anni 50-60, ne sono state costituite di famose per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Medio-Oriente, dove l'utilità di jvs è da collegarsi con la necessit di collaborare con le imprese arabe in loco, le quali apportavano la forza lavoro e il capitale. Pi recentemente, e soprattutto nei ruggenti anni '80, le jvs hanno trovato un buon brodo di coltura nei settori delle telecomunicazioni, delle reti di banche dati, dell'elettronica, della produzione cinematografica.
Come si pu notare, la forma organizzativa della jv ha trovato modo di esprimersi al meglio proprio nei settori pi esposti a vincoli derivanti dalla creazione di standard tecnologici, dalla necessit di ingenti risorse finanziarie, o dalla necessit di coordinare gli sforzi per poter penetrare o resistere in mercati dalle caratteristiche di globalit.
2. 'Equity' e 'non-equity' jvs; 'corporated' e 'contractual jvs'; jvs 'verticali' e 'orizzontali'
 
 
Nella letteratura sulle jvs, vi è una distinzione fondamentale  fra 'equity jvs' e 'non-equity jvs'.
Le 'equity jvs' consistono in alleanze in cui l'apporto dei partners  essenzialmente un investimento diretto di capitale; abbiamo equity jvs ogni volta che due soggetti conferiscono date risorse in una realt imprenditoriale indipendente e traggono un profitto dall'attivit di tale soggetto, oppure quando un'impresa acquista una parte di un'altra. 'Non equity jvs' sono alleanze contrattuali, consistenti in un'ampia variet di tipologie di accordi, come gli accordi di licenza, di distribuzione, di fornitura, assistenza tecnica, management (Hennart, 1988).
La forma giuridica naturale delle equity jvs è  quella societaria, con la creazione di un vero e proprio soggetto giuridico nuovo:  quella che la letteratura internazionale chiama 'corporated jvs' (da 'corporation', societ di capitali), da distinguersi dalla 'contractual jv', che consiste in un semplice legame di natura contrattuale, senza la costituzione di un terzo soggetto societario. Il lettore ha gi intuito che le contractual jvs tendono a coincidere con la forma delle non-equity jvs.
A seconda dei mercati in cui le imprese si trovano ad agire, pu essere conveniente un'integrazione commerciale nella direzione fornitore/produttore/distributore, cioè una jv 'verticale': per esempio per rompere un oligopolio a livello di fornitori, oppure per garantirsi uno sbocco adeguato sui mercati. Altre volte invece
 pi utile un'integrazione orizzontale, cioè  fra imprese che insistono sullo stesso business, e desiderano aumentare la propria quota di mercato a scapito dei concorrenti; altri casi  tipici  di jv orizzontali si hanno quando due aziende decidono di mettersi assieme per realizzare studi congiunti di R&S, o per mettere in comune determinate fasi della lavorazione, razionalizzando la produzione.
 
 
3.  Autonomia dei joint-venturers
 
 
Bisogna sottolineare l'autonomia dei due partners negli accordi di jv, poichè si tratta di un aspetto tipico e differenziante le jvs sia dalle normali acquisizioni d'imprese che dai semplici legami contrattuali continuativi come gli accordi di collaborazione, anche se questi ultimi non esulano completamente dal presente studio. 
Nel caso di 'corporated jvs', con la creazione di un soggetto giuridico terzo, l'autonomia è  legata al fatto che i due partners continuano a svolgere la loro attivit individualmente, salvo quella parte che sia messa in comune nella jv. Nel caso di 'contractual jv', il congiungimento degli sforzi commerciali e manageriali potrebbe far pensare all'assunzione di una responsabilit solidale nell'adempimento delle obbligazioni contratte con i terzi: ma è   un 'proprium' della jv la suddivisione 'pro quota' della responsabilit: ognuno risponde per la parte di opera che ha posto in essere direttamente. Questo vale soprattutto negli appalti internazionali, dove tipicamente si sono sviluppate le jvs (1).
Tuttavia, la mancanza di una soggettivit giuridica unica, nelle 'contractual jvs', rende necessaria l'individuazione di una societ mandataria che rappresenti il gruppo nei rapporti con i terzi (2  Storicamente, le jvs hanno avuto la loro più tipica espressione nell'esecuzione di grandi progetti internazionali bilaterali (dighe, strade, ecc.) nei paesi in via di sviluppo; il partner occidentale porta il management e il know-how, mentre il paese ospitante procura l'impresa locale che metta a disposizione la manodopera (solitamente a costi molto pi bassi della manodopera occidentale).
Per i paesi socialisti, la jv si è  spesso rivelata l'unico mezzo consentito dalle norme interne per fare affluire risorse finanziarie dall'estero).
 
 
4.Sfruttare le sinergie
 
 
La parola d'ordine per chiunque voglia creare una jv, è  'sfruttare le sinergie': ammenochè  si voglia creare una jv solo per aumentare il capitale a disposizione, ma in questo caso una jv maschera una mera partecipazione azionaria come nel fenomeno del venture capital, quando non consiste meramente in un'acquisizione d'impresa: che è  fenomeno diverso da quello che andiamo affrontando affrontando.
Sfruttare le sinergie significa disporsi ad incrementare in modo non sommatorio, ma bens moltiplicatorio, la propria efficienza aziendale grazie all'apporto del partner: e l'incremento dovrebbe essere reciproco (almeno nella normalit dei casi). Soprattutto nei settori dell'innovazione tecnologica, il coordinamento della ricerca e la condivisione di un patrimonio esperienziale e umano, è  particolarmente efficace nella creazione di nuove occasioni di scoperta e di avanzamento tecnologico (Formica 1986). 3) Sugli aspetti giuridici e tipologici del contratto di jv, vd Masera C.,JV e co-financing, cap.XV.
 
 
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5.  Quadro generale della ricerca
 
 
 Per comodità del lettore, è  bene anticipare qui i contenuti del presente studio.
Cercherò di dimostrare tre distinte tesi, in collegamento logico l'una con l'altra.
 
 
a) La strategia delle alleanze fra imprese
 di estrema attualità, in quanto la turbolenza dell'ambiente economico e in particolare la crescente globalizzazione dei mercati, esercita una duplice pressione verso le aziende: da una parte, le costringe a reperire una maggior quantit di risorse, in particolare di capitale e di know-how; dall'altra, proprio l'instabilit dei mercati, l'accorciamento dei cicli vitali dei prodotti, e soprattutto l'emergere dell'innovazione tecnologica come un fattore chiave nel successo dell'impresa, costringono le imprese a continui mutamenti di rotta, e a riorganizzare continuamente la produzione sulla base delle mutate circostanze commerciali. In una parola, le imprese devono essere 'flessibili'.
Una jv si costituisce molto pi rapidamente di quanto non si possa operare un'incorporazione, una fusione; occorrono meno cautele, in quanto una jv è un matrimonio pro tempore, in regime di separazione dei beni, meno compromettente di un matrimonio canonico come una societ di società; anche in fase di divorzio, una jv registra meno traumi, se non altro perchè  la separazione è  prevista sin dall'inizio.
Una jv, poichè assorbe solo una parte delle risorse dei partner, pu permettersi altres di sbagliare, per esempio nel tentativo di creare un nuovo mercato, innovativo e ancora insicuro ('jv-sonda') (sulle strategie delle jvs, si veda il cap.1).
 
             CAPITOLO II - IL 'TURBOLENT ENVIRONMENT'
                     E LA STRATEGIE COOPERATIVE
 
 
1. Lo scenario: competizione dinamica fra oligopoli
 
La cooperazione 'paga' di più quando si è in presenza di scenari economici a globalizzazione spinta, ed è per questo che conviene analizzare le caratteristiche dei mercati in questo particolare momento storico.
 
Lo scenario internazionale è quello di un ambiente economico estremamente tumultuoso, con un certo numero di nuovi settori che sono in rapida evoluzione; i mercati maturi cedono il passo a mercati di nuova conquista, in cui la turbolenza è assicurata anche dall'assestamento degli standard tecnologici.
In uno scenario simile, a rapido ricambio tecnologico, a breve ciclo vitale del prodotto, a intensa creazione di nuovi businesses, si moltiplicano le opportunità di lanciare nuovi prodotti o servizi, e anche i rischi di finire in 'vicoli ciechi' del mercato, o anche di finire 'fuori mercato'.
In altre parole, lo scenario è altamente 'turbolento', e dunque ad alto rischio. E' proprio il rischio, tuttavia, che favorisce la globalizzazione dei mercati. Vediamo come.
 
  In tanti settori dell'economia non conviene affatto sostenere le spese di creazione, lancio e distribuzione di un prodotto, se poi non si è in grado di raggiungere un certo volume di vendite.
Inoltre per conquistare una quota di mercato è necessario mantenere un'alta qualità tecnologica, e ciò implica notevoli sforzi di R&S.
Questi fattori stimolano le imprese a sostenere notevolissimi costi fissi di produzione (automazione, spese di marketing ecc.) per conquistare una quota di mercato soddisfacente.
Ora, è evidente che ad alti costi fissi, corrisponde l'utilità di poterli ammortizzare mediante alti volumi di vendite. Questo spinge a giocare più sull'ampliamento delle vendite che non sulla riduzione dei costi variabili mediante i tagli di personale, ecc. (Omahe K., dic.1989).
A questo punto bisogna considerare, però, che i mercati non sono a crescita illimitata, sono anzi per lo più saturi, e pertanto, ad un alto volume di prodotti venduti deve corrispondere, oltrechè naturalmente una buona qualità unita a un prezzo equo, anche una buona capacità di penetrazione e diffusione nei mercati: questo sforzo si traduce in un propellente verso l'integrazione fra imprese per la penetrazione simultanea in più mercati, cioè verso la globalizzazione.
Senonchè, è molto meno costoso e più rapido allearsi con un'altra impresa, utilizzandola come 'pied-a-terre' per la conquista di un nuovo mercato, che non costituire ex novo una propria filiale; senza contare che chi è già vivo e operante in un dato mercato ha già immagazzinato un patrimonio di conoscenze, esperienze e legami commerciali tale da mettere il nuovo arrivato in notevole difficoltà. Di qui l'utilità di stabilire alleanze fra imprese, più che mettersi in perenne competizione (Omahe K., dic. 1989).
 
Altri fattori che spingono verso la globalizzazione dei mercati, secondo Kenichi Omahe, sono quelli che lui chiama la 'californizzazione dei bisogni', l'identità delle fonti di informazioni sui prodotti e la 'dispersione della tecnologia'.
 
Viviamo in mercati 'customer-oriented', cioè dove è essenziale l'intervento del marketing e della pubblicità. Il consumatore non è legato in alcun modo alla provenieza geografica del prodotto, e pertanto "non gli interessa che un paio di scarpe da tennis 'inglesi' della Reebok (ora azienda di capitale americano) siano state fatte in Corea, o un paio di scarpe da tennis tedesche dell'Adidas in Taiwan, o un paio di sci francesi della Rossignol in Spagna" (Omahe K.,p.40). Tutti vogliono i prodotti migliori disponibili ai prezzi più bassi possibili: "ciascuno, in un certo senso, vuole vivere e fare i suoi acquisti in California."
 Questo significa che al consumatore non interessa più nulla che un prodotto di marca anche famosa sia commercializzato o anche fabbricato da un'altra impresa: in questo senso gli accordi commerciali non sono per niente limitati da un senso di 'fedeltà alla marca' o all'impresa che ha creato il prodotto.
 
Inoltre sempre di più la massa dei consumatori e dei managers dispongono di stocks di informazioni standardizzate, e provenienti dalle medesime fonti (riviste specializzate, fiere, banche dati elettroniche ecc.).
 
 
Nessuna società è in grado di mantenere tutte le tecnologie del settore al proprio interno: è inevitabile ricorrere ad alleanze per assicurarsi l'accesso a un know-how altrimenti troppo costoso.
D'altra parte nessuno è in grado di tenere tutte le tecnologie chiave al di fuori della portata dei concorrenti di tutto il mondo (Omahe K., dic.1989): sono poche le tecnologie brevettabili, ed è sempre più difficile che si riesca a mantenere il segreto su conoscenze utili, che possono venire 'rubate' o comunque copiate in un breve lasso di tempo. Ecco perchè conviene sviluppare solo quelle tecnologie in cui si ha un vantaggio competitivo, e reperire le altre accordandosi con qualche concorrente disponibile.
Inoltre, se ognuno mantenesse per sè le proprie acquisizioni tecnologiche, difficilmente riuscirebbe a sfruttarle appieno al proprio interno: sarebbero tecnologie sottoutilizzate.
Il fenomeno della 'dispersione della tecnologia' è proprio legato al fatto che ogni impresa tende a spargere attorno a sè le proprie tecnologie, attirando verso di sè quelle degli altri, secondo strategie cooperative diverse, e dando luogo così a prodotti arricchiti di apporti diversi.
 
Le strategie cooperative che analizzeremo nei paragrafi 2-8 tendono appunto a sfruttare al meglio le caratteristiche dei mercati globali. In fondo, si tratta sempre di condivisione dei costi fissi: volta effettuato un investimento ponderoso, tantovale sfruttarlo anche a vantaggio del concorrente, almeno se questo può servire per creare un'alleanza vantaggiosa per entrambi (sul rischio delle strategie cooperative, vedi paragrafo successivo).
 
Alcuni autori parlano di 'competizione dinamica fra oligopoli' per designare la situazione finora descritta in cui l'esigenza di forti investimenti fissi e l'integrazione delle tecnologie producono la polarizzazione dell'economia attorno a un numero limitato di grosse imprese, aventi caratteristice di globalità.
La globalizzazione dei mercati è coerente fra l'altro con il sistema valutario internazionale a tassi 'flessibili', sistema che causa notevoli fluttuazioni sui cambi e di conseguenza fa aumentare il rischio del ricorso agli strumenti finanziari, e quindi il costo dell'investimento. Da ciò consegue ulteriormente il vantaggio di allearsi con altre imprese per distribuire il rischio.
 
Vi è chi ha sottolineato, peraltro, come il fenomeno dell''internalizzazione' per accorpamento dei soggetti economici e per crescita dimensionale (gigantismo), tipico degli anni '50-'60, è oggi superato da fenomeni inversi di una nuova 'esternalizzazione', anche se è eccessivo parlare di un 'ritorno al mercato' (Vaccà 1986). L'esternalizzazione iniziata negli anni '70 si realizza attraverso il decentramento produttivo, l'imprenditorialità diffusa e locale, la divisionalizzazione delle grandi imprese, la disintegrazione verticale dei cicli.
 
Fra gli altri fattori legati alla turbolenza dei mercati, che stimolano la polarizzazione delle imprese (sia con la fusione, che con accordi di cooperazione), ricorderemo l'accorciamento medio dei cicli vitali dei prodotti, e la necessità, per il personale delle imprese, di apprendere rapidamente (cfr Turati 1988).
 
Come si inserisce la cooperazione, fondata su accordi contrattuali o sulle partecipazioni nel capitale, nei mercati turbolenti e globalizzati ? Lo vedremo nel prossimo paragrafo.
 
 
b) Val la pena di verificare la funzionalit della forma organizzativa della jv in riferimento alle medie e piccole imprese. I pesci piccoli sono quelli che pi hanno da temere dalla globalizzazione dei mercati, e dal momento che, si legge da più parti, 'piccolo non è  più bello', resta da vedere se non sia conveniente combinare i vantaggi della flessibilit tipico delle piccole imprese, con i vantaggi del coordinamento commerciale propri dell'integrazione economica fra aziende: ma non fondendo i 'pesci piccoli' in entit pi grandi, bens attraverso 'reti di accordi' e attraverso jvs (un'ape è  molto delicata, ma dicono che uno sciame pu essere più pericoloso di un orso).
 
 
c) L'ostacolo principale alla creazione di jv fra imprese di medie dimensioni è  dato dai costi transazionali che intervengono in fase di ideazione, trattativa e formazione dell'accordo; nonchè  dai costi negoziali tipici della fase gestionale e operativa del rapporto (perdita di tempo, misure cautelative, valutazione della consistenza patrimoniale del partner, difficolt nel management congiunto).
In sintesi, poichè tali costi sono costi fissi, pesano in misura maggiore sul capitale delle piccole imprese che non su quello delle grandi. Questo spiegherebbe, almeno in parte, la quasi totale assenza di accordi di jv fra imprese di limitate dimensioni.
 
2. Gli accordi di cooperazione ('AC') in generale.
Le joint ventures e la teoria dei giochi
 
 
E' evidente nel contesto internazionale il ruolo crescente svolto dagli accordi commerciali e di cooperazione in genere ('AC').
Avendo a che fare con mercati globali, le imprese scoprono che val la pena costituire alleanze per unire risorse e far fronte all'agguerrita concorrenza.
 
Uno studioso (Richardson, 1972) ha individuato quattro tipologie principali di AC:
_ gli accordi commerciali a lungo termine;
_ i subappalti;
_ gli accordi di scambio e di trasferimento delle tecnologie;
_ gli accordi di cooperazione produttiva e commerciale.
 
Secondo un'altra classificazione, (proposta da Balcet e Viesti, 1986, p.44), si può raggruppare gli AC in base alle diverse strategie sottostanti:
_ strategie di espansione orizzontale, in cui gli accordi tendono a creare le condizioni per l'entrata in nuovi mercati territoriali, o per il consolidamento di quote di mercato già ottenute;
_ strategie di espansione verticale: integrazione o collaborazione a 'monte', cioè con i fornitori, e integrazione o collaborazione 'a valle', cioè con le aziende clienti;
_ Strategie di diversificazione del prodotto, che consistono prevalentemente in accordi di licenza di brevetto, forniture di lunga durata, sub-appalto.
 
Gli obiettivi degli AC consistono essenzialmente nel raggiungimento di 'economie di scala' e nello scambio di conoscenze e tecnologie, esperienza organizzativa ecc.
 
Un utile approccio agli AC ci è dato dall'analisi dei 'costi transazionali', sviluppata da Coase e Williamson (Balcet e Viesti 1986).
 Gli accordi fra imprese si pongono come forma intermedia fra l'internalizzazione delle funzioni (cioè lo sviluppo al proprio interno di nuove produzioni o servizi) e il ricorso al mercato esterno (cioè il ricorso alle normali transazioni di mercato, fra cui l'acquisizione di altre imprese e l'investimento diretto mediante partecipazioni in altre imprese). Più è costoso, in termini di negoziazione, il ricorso ai comuni strumenti transattivi, ad esempio la ricerca dei distributori, degli agenti, l'acquisizione di conoscenze e know-how, la strutturazione dei canali di vendita, l'accesso agli strumenti pubblcicitari, la negoziazione del contratto, la conoscenza e il superamento dei vincoli amministrativi, e più diviene conveniente il coordinamento delle attività all'interno dell'impresa.
"I costi transazionali sono maggiori quanto più il know-how è specifico e non può essere facilmente codificato, quantopiù vi è bisogno di contatti personali e collaborazione di gruppo, quanto più vi è incertezza sui possibili benefici; anche la frequenza delle transazioni (...) rendono rischioso o poco conveniente l'uso del mercato" (Balcet e Viesti 1986).
D'altra parte, anche l'internalizzazione richiede dei costi che possono rendere inefficiente il coordinamento all'interno dell'azienda, soprattutto quando la struttura imprenditoriale è già pesante o incapace di modellarsi in maniera flessibile su nuove funzioni.
Secondo un altro studioso della 'transaction cost analysis', Teece (1986; in Balcet e Viesti 1986), il vantaggio relativo del ricorso agli strumenti transattivi di mercato, dell'organizzazione gerarchica internalizzata, e degli AC, è dato dai valori di alcuni parametri significativi: la frequenza delle transazioni, l'ammontare degli investimenti destinati a dare effetto alle transazioni, il grado di incertezza e di imperfezione delle informazioni, il grado di complessità, appropriabilità e non codificabilità del know- how trasferito (su quest'ultimo fattore, vedi cap.III).
La cosa interessante di questi studi è la formula che sintetizza l'analisi dei costi transazionali: gli AC possono rappresentare l'opzione ottimale per l'impresa sia quando l'impresa deve affrontare costi elevati di uso del mercato, sia quando sono alti i costi di coordinamento interno: appunto perche rappresentano una forma intermedia fra la competizione diretta nel mercato, e l'internalizzazione.
Questa conclusione ci servirà come filo conduttore del capitolo III, per verificare il fatto che le piccolo-medie imprese, partono svantaggiate nel processo di integrazione, sia per l'alto costo d'uso del mercato, sia per le difficoltà di una espansione funzionale interna; ma mentre quest'ultima è legata a fattori oggettivi (finanziari e tecnologici), il costo d'uso del mercato è più legato a fattori conoscitivi (normativi e di marketing) e strettamente negoziali: pertanto lo svantaggio è più forte nel senso dell'internalizzazione che non nel senso dell'utilizzo delle alleanze.
 
Fra i fattori che rendono competitivi gli AC vi sono:
_ i processi di razionalizzazione nelle produzioni a basso tasso di crescita della domanda; il tentativo di ridurre i costi, porta ad analizzare gli AC come uno strumento che consente di realizzare maggiori economie di scala e vantaggi sui costi, con la suddivisione degli investimenti, dei costi di ricerca, di marketing ecc;
_ le produzioni ad alto tasso innovativo, per la ripartizione degli oneri e dei rischi legati alla ricerca per l'acquisizione di know-how;
_ la caratteristica diffusione orizzontale delle nuove tecnologie informatiche, che permette la loro applicazione ad una gamma molto ampia di produzioni: questa caratteristica può creare i presupposti per AC intersettoriali fra imprese produttrici e utilizzatrici; si può aggiungere la cooperazione in chiave di 'new style of jvs' (Roberts, 1988), cioè la cooperazione fra una grossa impresa impegnata in un mercato a bassa crescita e una piccola impresa di alta tecnologia: dalla collaborazione nascono interessanti processi di 'learning' (cfr cap.III.3).
_ la necessità di ridurre i rischi d'impresa mediante la diversificazione, merceologica e territoriale.
 
La cooperazione tuttavia implica una certa propensione al rischio da parte dell'operatore. Il 'paradosso del prigioniero' può servire a mostrare il dilemma che si pone quando esiste l'opportunità della cooperazione (rapporto di coordinamento) in alternativa alla possibilità della competizione (rapporto di dominanza). Emerge come il massimo utile per l'impresa potrebbe essere dato, astrattamente, da un atteggiamento aggressivo e opportunista a fronte di un atteggiamento cooperativo del partner; ma se il partner reagisce specularmente a tale atteggiamento, si realizza il massimo danno per entrambi. Se infine, entrambi i partner assumono un comportamento collaborativo, è allora che si realizza l'ottimo globale, con vantaggio reciproco, anche se non rappresenta l'ottimo individuale. Le strategie cooperative puntano evidentemente all'ottimo reciproco, mentre si degradano in una lotta sfavorevole ad entrambe, se anche solo uno degli operatori punta all'ottimo individuale.
Come vedremo, il paradosso del prigioniero si realizza particolarmente nella cooperazione tecnologica.
 
Nei prossimi paragrafi esamineremo dapprima alcune particolari forme cooperative, e poi le peculiarità della cooperazione mediante jvs.
 
 
 
3.  Strategie cooperative alternative   
 
 
Ogni valutazione di convenienza di una jv deve considerare anche le strategie cooperative alternative; e ogni decisione deve considerare lo scenario entro cui ci si muove.
 A parte l'acquisizione di imprese, una possibile alternativa è l''internal venture', consistente nella creazione di nuove imprese all'interno dell'impresa-madre; le imprese-figlie, inizialmente allevate come in incubatrice, usufruiscono delle risorse dell'impresa-madre, e servono a diversificare la produzione senza appesantire l'organizzazione-madre (1) Un classico esempio di diversificazione produttiva tramite l'internal venture, che ha incontrato pieno successo, è dato dalla '3 M'.
Il grosso difetto rispetto all'acquisizione di imprese è dato ovviamente dai tempi: ci vogliono anni per sviluppare ex novo delle imprese, mentre bastano pochi mesi o settimane per condurre a termine un'operazione di acquisto (2) Sull' internal venture, il venture capital e il nurturing, vedi in sintesi Roberts E. & Berry C., Entering new businesses..., pp.60-61. Quest'ultima, d'altronde, mettendo a disposizione di altri il proprio brevetto, può lucrare sul pagamento delle royalties dovute dal licenziatario in percentuale sul volume delle vendite. Se tali royalties sono appetibili, il concedente non ha bisogno di costituire una jv).
 
Il 'venture capital', ovvero l'investimento azionario di minoranza in altra impresa, spesso di piccole dimensioni ma ad alta intensità di know-how, è una strategia utile per tenere aperta la cosiddetta 'window on technology'; si tratta di una strategia flessibile e per certi versi 'anti-rischio' come la jv: anche qui, infatti, l'azienda partecipante non è coinvolta con tutte le sue risorse, e questo è molto vantaggioso per quelle aziende che vogliano avventurarsi in settori nuovi e rischiosi, ma al contempo non si fidano del tutto, o preferiscono attendere tempi più propizi.
Il 'nurturing' è una forma cooperativa leggermente più coinvolgente del venture capital; oltre all'apporto di capitale, si verifica qui un apporto di assistenza manageriale.
 
Le politiche di 'licensing' (licenze di marchio, di brevetto per invenzione industriale ('patent'), di brevetto per modello industriale) hanno il vantaggio, per l'azienda licenziataria, di evitare i rischi e i costi della creazione, dello sviluppo, e della commercializzazione del prodotto: tali costi infatti sono già stati sostenuti dall'impresa concedente.
 
 
 
 
 
 
 
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 3) Tutto dipende dalla situazione di forza contrattuale delle parti e dalla necessità di acquisire il brevetto: Harrigan, JV, p.68.
 
Immaginiamo tuttavia una situazione in cui un'azienda sia detentrice di una valida tecnologia, la quale, per qualche ragione, non sia brevettabile (nel diritto italiano, ciò può dipendere dal fatto che la tecnologia non è ancora suscettibile di applicazione industriale, oppure è scaduto il termine di tutela, oppure l'innovazione non investe la tecnologia in sè, ma solo il modo di utilizzarla). In questo caso, l'impresa detentrice non può trarre profitto dalla licenza, in quanto il fruitore, una volta conosciuta la tecnologia, potrebbe legittimamente rifiutarsi di pagare le royalties, e comunque potrebbe divulgarla a terzi. In alternativa il concedente potrebbe tenersi la tecnologia per sè, e coprirla  con il segreto industriale: tuttavia, nella maggior parte dei casi questo non conviene, in quanto la tecnologia rimarrebbe sottoutilizzata e non sfruttata appieno dal titolare.
Con una jv, al contrario, l'azienda che possiede la tecnologia priva di tutela può continuare a sfruttarla in regime di quasi monopolio. In più, potrà utilizzare tale risorsa come merce di scambio per costituire un'alleanza a sè favorevole con il partner (in pratica, come contraccambio dell'apporto tecnologico, il partner sarà disposto a un maggior apporto di capitale, o di altre risorse). Il partner, dal canto suo, avrà tutto l'interesse a mantenere il segreto sull'invenzione. In questo modo l'azienda innovativa avrebbe creato un vantaggio competitivo rispetto a tutti i concorrenti, escludendosi ovviamente il joint-venturer.
 
 
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4. Le joint ventures nella strategia competitiva
 
 
Dopo aver considerato distintamente i vantaggi e le caratteristiche di approcci strategici fondati sugli accordi di cooperazione in generale (para.2), e su particolari tecniche come il licensing e l'internal venture, in questo paragrafo descriveremo i fattori strategici che possono rendere utili le strategie di jv.
Nel para.10 vedremo le debolezze e i lati negativi delle jvs; qui ne affronteremo i vantaggi.
 
La jv rapresenta un mezzo per attuare dei cambiamenti nelle posizioni strategiche delle aziende, oppure per difendere le proprie posizioni strategiche attuali da forze troppo forti per poter essere contrastate da una sola azienda (Harrigan, 1988, p.161)
Rappresenta quindi un mezzo di cambiamento nel mercato, quindi un fattore di turbolenza, particolarmente duttile, come si è già visto nel cap.I.4, in situazioni di mercato che richiedono tempi di risposta molto veloci.
 
L'imprenditore che voglia aumentare la propria significatività nel mercato mediante una jv, deve chiedersi: quali sono quelle fasi del processo di produzione e/o di commercializzazione in cui l'alleanza con una certa azienda potrebbe fruttarmi un vantaggio maggiore del costo della cooperazione ? Evidentemente, alla base di questa scelta, come di ogni scelta imprenditoriale razionale, vi deve essere un calcolo di previsione economica, per le entrate attese e le uscite previste. Tuttavia, come si vedrà nel cap.III.8, nel calcolo di convenienza della jv devono entrare considerazioni più ampie che non la mera considerazione di un ritorno finanziario nel breve periodo.
 
In sintesi, anticipando i contenuti dei paragrafi 5-8, diremo che i vantaggi di una strategia di jv rispetto a una strategia 'monistica' (o di internalizzazione) possono essere classificati in tre ordini: 
a) sfruttamento di 'sinergie';
b) flessibilità organizzativa;
c) aumento della capacità di investimento.
d) accesso a risorse e opportunità altrimenti irraggiungibili.
 
 
5. Lo sfruttamento delle 'sinergie'
 
 
Sinergie sono quelle potenzialità immanenti in un'impresa, che possono essere sprigionate grazie all'apporto reciproco di risorse, che vengono scambiate fra due imprese. Il vantaggio per ognuna non è dato semplicemente dalla somma delle risorse proprie e delle risorse scambiate con il partner, ma si ha un effetto moltiplicativo che rende appetibile lo scambio: altrimenti saremmo di fronte a un 'gioco a somma zero', nel quale al vantaggio dell'uno corrisponde un uguale svantaggio dell'altro.
Un'azienda che possieda un marchio prestigioso ma una scarsa capacità produttiva, può per esempio fruttuosamente allearsi con un'azienda più grande sfruttando la sua migliore capacità di penetrazione nei mercati; nel contempo il partner più grosso, senza dover effettuare investimenti ulteriori, può trarre vanaggio dalla rinomanza già acquisita dal marchio dell'impresa alleata.
 
Ma le sinergie più evidenti si ottengono nel settore dello scambio tecnologico, soprattutto in quei settori in cui sussiste un elevato grado di complementarietà fra le tecnologie.
Scambio tecnologico non è solo quello istituzionale e codificato che si attua con la licenza di brevetto, o con un accordo di ricerca congiunta (che pure può ben sussistere in una jv), ma anche quello meno appariscente ma più quotidiano e perciò stesso più consistente che si verifica con il continuo contatto fra i partner: parliamo appunto di benefici 'di contatto', di know-how che circola liberamente senza possibilità, e necessità, di formali licenze.
Quando il personale di due imprese distinte lavorano nella stessa jv, infatti, inevitabilmente è portato a scambiarsi informazioni utili per il buon andamento della comune attività. Ciò deriva dal fatto che i due partner non sono più concorrenti, e ognuno ha interesse che anche l'altro possa beneficiare al meglio della collaborazione (infatti un partner debole e arretrato può diventare un fardello anche per l'altro, anzichè un vantaggio). Come rileva Harrigan, tuttavia, buona parte dell'insuccesso delle jvs è dovuto proprio alla scarsa disponibilità dei partner a fare ridondare sull'altro i benefici di contatto, in quanto ognuno continua a ragionare secondo il trito brocardo 'mors tua vita mea'.
 
Fra i benefici di contatto possiamo annoverare:
_ lo scambio di personale tecnico;
_ la scambio spontaneo di informazioni;
_ il miglioramento della comunicazione endoaziendale;
_ il miglioramento delle tecniche gestionali, amministrative, contabili e di comunicazione derivanti dalla messa in comune dell'esperienza maturata da ogni partner;
_ l'attivazione di processi di 'learning', cioè di un apprendimento spontaneo che si affina ogni giorno e che è il risultato  della familiarizzazione con il personale del partner: è insomma un 'travaso di esperienze';
_ l'addestramento congiunto del personale, con risparmio di costi e un impulso allo spirito di gruppo.
 
I benefici di contatto rientrano fra i cd. 'intangible complementary assets', cioè le risorse immateriali che fanno parte del patrimonio dell'azienda; la loro caratteristica è il fatto di essere difficilmente valutabili, e di essere tuttavia di importanza strategica.
Ogni impresa è alla ricerca di questi 'complementary assets'. Naturalmente deve scegliere fra lo sviluppo al proprio interno (internalizzazione) oppure l'uso del mercato, cioè l'acquisto della tecnologia. L'internalizzazione comporta dei problemi facilmente intuibili legati alla scarsità della risorsa interna. Diviene spontaneo il ricorso al mercato; ma quando la risorsa complementare è costituita da un know-how tecnologico complesso, non traducibile semplicemente in un brevetto, esistono costi precisi di un ricorso a una transazione di mercato: costi di ricerca di informazioni sulla controparte, costi di trasferimento del know-how, costi di rilevazione e controllo delle prestazioni, costi connessi alla difficile valutazione economica del bene scambiato, rischi di comportamenti opportunistici della controparte (Camagni 1988).
In questi casi è evidente che una jv, come qualsiasi altra forma di cooperazione con un concorrente, minimizza sia i costi di produzione che di coordinamento e di transazione.
 
Una variabile fondamentale è quella che Camagni chiama il 'regime di appropriabilità del know-how'. Poichè certi ritrovati tecnici sono suscettibili di brevettazione e quindi sono  utilizzabili in regime di monopolio legale, mentre altre conoscenze, tecniche e gestionali, o sono protette dal segreto, oppure cadono nella disponibilità di chiunque voglia utilizzarle, ne risulta che esistono diversi gradi di appropriabilità di una tecnologia: da quello minimo legato alla brevettabilità, che assicura il totale controllo della tecnologia, a quello massimo che si verifica per le tecniche organizzative, gestionali, di marketing ecc., per le quali si verifica una diffusione immediata e a costi bassi o nulli.
Quindi, quando un'impresa detiene un 'intangible asset' brevettabile, potrebbe non avere interesse a condividerlo in una jv: infatti il brevetto consente al titolare di fare commercio del proprio know-how, fissando un prezzo a suo piacimento. Quando invece un'azienda, pur dotata di un alto tenore di conoscenze e tecnologie, non è in grado di assicurarle con un brevetto, come nel caso di un generico bagaglio di esperienze, rimane esposta all'alternativa fra:
a) cercare di mantenere il segreto, con il rischio però che un bel giorno venga portato alla conoscenza comune (vedi anche i fenomeni di imitazione), e senza la possibilità di sfruttare pienamente il know-how (per limiti interni); si tratta sostanzialmente di uno spreco;
b) rendere partecipi del proprio 'asset' altre imprese, richiedendo delle royalties in controprestazione: rimane il rischio, però che l'impresa licenziataria, una volta impadronitasi dei processi innovativi che le interessano, si rifiuti di pagare. 
In questi casi, il ricorso a una strategia 'intermedia' fra il ricorso al mercato e l'internalizzazione, come può essere una jv, può soddisfare al meglio l'esigenza di sfruttare la risorsa conoscitiva: l'azienda A mette a disposizione dell'azienda B il proprio patrimonio di know-how, in tal modo mantenendo un duopolio che va a vantaggio comune; in cambio, l'azienda B mette a disposizione i propri canali distributivi, oppure i propri capitali, o la propria conoscenza del mercato, riverberando così dei vantaggi sull'azienda A. In tal modo sono superati anche gran parte dei costi transazionali, poichè, legandosi in un'impresa comune, le due aziende non hanno bisogno di contrattare ogni singola operazione, fissando ogni volta un prezzo d'altronde difficile da determinarsi, ma forfettizzano i rispettivi vantaggi nella convinzione che la salute del partner è la salute propria ( Sulla teoria dei costi transazionali, vedi Hennart 1988; tale argomento viene organicamente affrontato nel para.9 di questo capitolo).
Tuttavia, proprio nel settore che stiamo esaminando, cioè quello del trasferimento di tecnologie, è più evidente una contraddizione di base che rende non sempre facile il 'matrimonio' nella jv. Si tratta ancora una volta del paradosso del prigioniero. Come lo descrive esattamente Camagni, è una situazione in cui il massimo dell'efficienza (e quindi di speranza di profitti) sta nella massima integrazione fra le strutture dei partner (in modo da massimizzare le sinergie e le esternalità provenienti dagli 'intangible assets'), ma proprio la massima integrazione fra le strutture è la situazione maggiormente soggetta ai rischi di comportamenti opportunistici (per esempio un partner insincero potrebbe ottener utili informazioni prima di rompere il rapporto, ottenendo così un vantaggio competitivo). E' evidente l'analogia con il paradosso del prigioniero: il massimo vantaggio di A risiede nel comportamento opportunistico a danno dell'altro; ma se entrambi i contraenti, diffidando della lealtà dell'altro, vogliono sfruttare la situazione a proprio vantaggio, ecco che ne deriva un sicuro danno per entrambi; nel gioco, la somma positiva si ha solo se entrambi i contraenti decidono di cooperare senza voler acquisire un vantaggio sull'altro. Per farlo, occorre molta fiducia nel partner, proprio perchè l'atteggiamento collaborativo di uno dei contraenti fa nascere nell'altro la tentazione di sfruttare la situazione.
 
 
 
4.2. Flessibilità organizzativa
 
 
La jv si presenta come una forma organizzativa 'flessibile', cioè capace di modellarsi duttilmente sulle emergenze dei mercati. Mentre in passato forme organizzative di tal genere venivano viste come dei modi surrettizi per creare una 'rendita monopolistica', oggi una jv è motivata soprattutto dalla maggiore efficienza di strutture imprenditoriali articolate, flessibili e interattive (Zanfei e Coda 1989).
 
In un situazione di mercati in espansione (come quello, nell'ultimo decennio, dell'informatica e delle telecomunicazioni), la jv è la risposta più rapida all'esigenza di aumentare la capacità produttiva, trovare canali di distribuzione e di assistenza post-vendita adeguati, ecc.
In settori particolarmente avanzati, come quello dell'hardware, oltre alla necessità di grossi investimenti nella ricerca, emerge l'importanza strategica della velocità con cui si risponde agli impulsi del mercato; chi avanza per primo in un certo business di nuova creazione, ha il vantaggio di scegliere gli standard tecnologici che in prosieguo entreranno nell'uso comune: chi viene dopo, infatti, ha convenienza a elaborare un hardware che sia 'compatibile' con quelli già esistenti (ammenochè sia tanto potente da riuscire a imporre i propri standard tecnologici). Più in generale, si può dire che la 'scelta del momento opportuno' ha una rilevanza strategica. Oltre che al vantaggio della scelta degli standard tecnologici, chi effettua per primo degli investimenti in un dato settore, acquisisce generalmente un vantaggio di 'leader', soprattutto in mercati embrionali; chi anticipa le tendenze, inoltre, ha l'ulteriore vantaggio di effettuare per primo la scelta sui partner, e di conseguenza può scegliere il partner migliore e più affidabile (Harrigan, 1988, 171).
 
Sempre in situazione di ambienti a domanda in rapida ascesa, la jv è uno strumento utile per prevenire un'eventuale integrazione sfavorevole all'azienda, da parte di propri fornitori o propri clienti che siano nelle condizioni di creare sbocchi di vendita o unità produttive proprie, evitando così di dover contrattare con il vecchio contraente.
Un fenomeno del genere è avvenuto per esempio nel caso dei programmatori di software, che hanno unito le loro forze alle aziende produttrici di hardware per poter offrire servizi di 'database' (Harrigan, 1988, 32).
 
Un altro elemento di flessibilità è dato dal fatto che una jv può costituire una valida alternativa all'acquisizione di imprese, in situazione di mercati ristagnanti: in un'alleanza di periodo, due aziende possono accorpare e razionalizzare una parte delle proprie attività, all'occorrenza riducendo la capacità produttiva, e attendendo tempi di crescita della domanda. Tramite il consolidamento e l'accorpamento delle strutture si può eliminare la capacità in eccesso e prevenire il rischio del fallimento (Harrigan 1988, 32).
Nello stesso ordine di idee, una jv può costituire un'utile passaggio intermedio prima di arrivare a una fusione fra imprese. Per rimanere nella metafora già utilizzata, si può dire che una jv può servire come periodo di 'fidanzamento', o 'test-period', prima di addivenire a un matrimonio vero e proprio, che comporta sia l'assunzione di responsabilità più gravose, sia una certa perdita di autonomia e indipendenza.
In uno scenario economico a domanda 'matura', si rivelano particolarmente utili le jvs cd. 'orizzontali', cioè in cui si ha una funzionalizzazione in senso territoriale: l'azienda A produce e vende nel territorio W, l'azienda B produce e vende nel territorio Y (Harrigan, 1988, 143).
  
In definitiva, la jv si pone come 'camera di decompressione' in mercati turbolenti, in crescita e sgonfiamento rapido: in fase di cresciita, consente l'allargamento della capacità produttiva e quindi lo sfruttamento di condizioni temporanee favorevoli; in fase di contrazione, consente il riaccorpamento veloce delle imprese, la razionalizzazione delle strutture, e di conseguenza può salvare situazioni critiche. In ogni caso, è più indolore il divorzio fra i due partner di una jv piuttosto che una drastica operazione di disinvestimento, o peggio, di fallimento.
La duttilità tipica delle jv è ben evidente se si considerano certi meccanismi contrattuali osservabili nella generalità dei contratti di jv da me esaminati, come la 'put option' o la 'call option, ma di questo parleremo nel cap.III.7).
 
 
 
MANCA CAPITOLO 2.7: AUMENTO DELLA CAPACITà DI INVESTIMENTO
 
8.  La jv come modalità di accesso a risorse o mercati altrimenti irraggiungibili
 
 
La scarsità delle risorse interne alle imprese, le spinge a cercare all'esterno, mediante accordi di cooperazione o jvs, quelle ricchezze che da sole non riuscirebbero mai a conseguire.
Non a caso le jv sono nate proprio come alleanza di un'azienda nazionale con un'azienda extranazionale, per la conquista del mercato estero.
Tutt'ora, se si analizzano i contratti di jv o di acquisizione di imprese, si noterà che in gran parte sono una modalità di accesso ai mercati esteri. In questo caso le motivazioni all'alleanza possono essere molteplici: il tentativo di entrare nel nuovo mercato forti dell'esperienza già accumulata in quello stato dal partner; la possibilità di usare canali distributivi già funzionanti e ben 'lubrificati'; la possibilità di mettere assieme il proprio know-how e il proprio personale qualificato con la manovalanza locale, per una considerazione di risparmio sul costo del lavoro (tale motivazione è presente particolarmente negli accordi con i governi dei PVS). E' anche significativo notare che la jv è l'unica forma giuridica ammessa in certi paesi socialisti, come la Jugoslavia, per gli investimenti dall'estero (infatti, l'impresa straniera per operare e sviluppare profitti deve subire il controllo e il condizionamento del governo: si salva in tal modo il dirigismo tipico di quei paesi). Non da ultimo, vi è chi osserva che l'alleanza con un'impresa locale può allontanare certe reazioni xenofobe che si avrebbero con un accesso diretto.
Una menzione a parte merita il vantaggio che si può conseguire con questi 'ibridismi internazionali', derivante dalla conoscenza, da parte del partner, degli ostacoli burocratici, valutari, normativi, regolamentari, nel mercato estero.
 
Anche una politica di differenziazione produttiva può essere realizzata mediante una jv. E' sempre minore il costo dell'acquisizione di capacità produttive con un accordo di cooperazione, piuttosto che lo sviluppo al proprio interno.
Oltre a ciò, una jv può essere un valido modo per acquisire processi di lavorazione nuovi e nuove tecnologie, per avvantaggiarsi dell'altrui personale particolarmente qualificato, per accedere a un impianto manifatturiero efficiente (che magari rimarrebbe altrimenti sottoutilizzato), per avvantaggiarsi del potere attrattivo esercitato da un marchio celebre altrui (come nelle politice di 'licensing').
La jv si pone insomma come uno strumento che aumenta il tasso di successo delle imprese esportatrici, e come uno strumento di concorrenza globale.
 
 
9.  Le joint ventures nella teoria dei costi transazionali
 
 
Abbiamo visto finora una serie di vantaggi che le jvs possono procurare a imprese che desiderino allargare la propria presenza nel mercato, o con politiche di diversificazione, o con politiche di espansione geografica e tecnologica, o con politiche di razionalizzazione dei costi.
Tuttavia è ben evidente che solo un ristretto numero di imprese sceglie la strada della jv; che cosa dunque spinge un operatore economico a preferire un'alleanza a un normale vincolo negoziale come può essere un accordo di distribuzione? E quali fattori lo inducono a prediligere una jv a una più ovvia acquisizione? Perchè insomma, dati i vantaggi delle economie di scala e dell'internalizzazione, un operatore dovrebbe accontentarsi di accorpare solo una parte delle due società, creando un'equity jv, anzichè che acquisire la totalità dell'altrui azienda ?
Una risposta convincente a queste domande ci proviene dalla teoria dei costi transazionali; l'applicazione più lucida, in relazione alle jvs, l'ho trovata in Hennart (1988).
 
Hennart osserva che le jvs sono state trattate sin dai primi studi come delle intese sostanzialmente dirette a ridurre l'intensità della concorrenza; le principali motivazioni alla realizzazione di equity jvs sono state, nell'analisi degli studiosi, principalmente le seguenti:
a) trarre vantaggio dalle economie di scala e dalla diversificazione del rischio;
b) superare le barriere all'entratata nei nuovi mercati;
c) condividere 'complementary bits of knowledge';
d) evitare reazioni 'xenofobe' nel tentativo di penetrare in mercati esteri.
Ma queste motivazioni, benchè necessarie, non sono sufficienti a spiegare il perchè, fra le diverse strategie disponibili, un'impresa prescelga la jv.
Infatti:
a) le economie di scala sono ottenibili anche meglio mediante il 'nurturing', l'acquisizione totale, i consorzi;
b) La penetrazione nei mercati esteri può realizzarsi anche semplicemente mediante accordi di distribuzione e di licenza;
c) si può condividere le risorse tecnologiche anche mediante licenze di brevetto, eventualmente 'incrociando' le licenze;
d) il 'rischio politico' di incappare in reazioni xenofobe, può essere ridotto vincolando imprese locali con accordi di licenza, di franchising ecc.
 
Perchè, allora, in taluni casi si preferisce la strategia intermedia della jv piuttosto che lo strumento più elastico della contrattazione o quello più aggressivo dell'internalizzazione ?
La risposta è da ricercarsi nella presenza di inefficienze nei mercati intermedi che fanno lievitare i costi del ricorso alla contrattazione di mercato, cioè i costi delle transazioni con soggetti terzi. Tali inefficienze sono riscontrabili, nell'analisi di Hennart, in alcune situazioni particolari: nella negoziazione fra produttori di materie grezze e produttori di semilavorati; nel travaso di conoscenze; nella distribuzione, qualora vi siano 'strozzature' di mercato; nel credito alle imprese nate da poco, ma qui il discorso vale anche, più in generale, per le piccole imprese, e perciò tratteremo questo argomento nel cap.III.6.
 
Vediamo distintamente queste situazioni.
 
Quando il mercato dei fornitori di una materia prima è costituito di economie di scala, e nello stesso tempo gli utilizzatori sono legati, per vincolo tecnologico, a una sola fonte, il mercato è imperfetto, e nasce l'utilità, per gli utilizzatori, di allearsi e costituire una 'backward jv', cioè una jv integrata verticalmente a monte. Un caso è quello della produzione di bauxite, che esige un'economia di scala; ogni utilizzatore, cioè la raffineria di alluminio, può usare solo un particolare tipo di bauxite grezza, pertanto sarebbe costretto a legarsi con il fornitore mediante contratti di lunga durata: in tal modo potrebbe vincolare l'impresa estrattrice a rifornirlo per la durata prevista del proprio impianto. Tuttavia, visto il diverso potere contrattuale, il fornitore potrebbe, dopo un certo tempo, assumere comportamenti opportunistici, confidando nel fatto che l'acquirente non può rivolgersi ad altri fornitori; si verificherebbe insomma un rilevante squilibrio nel rapporto contrattuale.
In una situazione come questa, una jv fra un pool di raffinerie consente alle stesse di uscire dall'impasse.
Analogamente, nella componentistica, quando un fornitore produce componenti standardizzati, che dunque non richiedono particolari capacità tecnologiche o servizi post-vendita, ci troviamo di fronte a una situazione di 'spot market', in cui cioè la transazioni avvengono in modo efficiente senza che qualcuno possa assumere una posizione di vantaggio negoziale;
se invece guardiamo al mercato di componenti speciali, o richiedenti particolari servizi di assistenza, l'acquirente sarà sempre esposto ai comportamenti opportunistici del fornitore;  il quale, per così dire, ha il coltello dalla parte del manico. In questo caso, diviene vantaggiosa l'integrazione a monte, da parte degli utilizzatori.
Se però il componente, oltre ad essere fabbricato da una sola azienda, è anche specifico per un solo utilizzatore, in questo caso il vantaggio di assicurarsi un legame duraturo è reciproco, per il fabbricante e per l'acquirente. Anche in questo caso, tuttavia, un legame meramente contrattuale è sempre suscettibile di comportamenti opportunistici; ecco allora la situazione ottimale della jv.
 
Vediamo ora come si pone l'analisi dei costi transazionali con il tema del trasferimento di tecnologie, e perchè le jvs possano rappresentare una valida strategia per abbassare tali costi. Le tecnologie codificabili in un brevetto, possono essere abbastanza liberamente sfruttabili mediante accordi di licenza; tuttavia, ciò che importa di più ai manager di una data azienda, è la 'tacit knowledge', cioè la conoscenza dei mercati locali e dei vincoli burocratici, la conoscenza che deriva dall'avere accumulato un'esperienza 'in loco' la capacità di organizzare  una data produzione, e anche l'esperienza nella commercializzazione di una data invenzione industriale, cioè il marketing specifico.
Ma mentre le conoscenze 'codificate' hanno un prezzo di mercato dato dalle 'royalties', e pertanto non vi sono alti costi transazionali, il trasferimento della 'tacit knowledge' implica dure difficoltà.
Prima di tutto, Hennart annovera la situazione di incertezza di colui che acquista il know-how: egli non può conoscere a priori tutte le caratteristiche della tecnologia e tutte le potenzialità. Ciò è dovuto al fatto che, trattandosi di tecnologia non legalmente tutelata, e anzi facilmente appropriabile, chi la vuole negoziare deve dischiuderla abbastanza per renderla appetibile, ma nello stesso tempo tenerla abbastanza celata da non consentire al potenziale acquirente di impossessarsene gratuitamente, dopo aver rotto le trattative.
Per di più, molte di queste tecnologie 'evanescenti' non si prestano molto a essere descritte nelle clausole contrattuali.
Infine, come valutare il valore di tali conoscenze ? E che interesse avrà, il venditore, a dare un'assistenza post- vendita al cliente ?
Per tutte queste ragioni, il trasferimento di conoscenze 'tacite' è meno costoso se effettuato in base al principio dei vasi comunicanti, cioè mediante il coordinamento in una 'equity' jv, dove non si pone più il problema di centellinare a spizzichi e bocconi le informazioni utili all'altro venturer.
 
Da non sottovalutare neppure i costi transazionali nel caso di imperfezione della distribuzione.
Quando per installare un'unità di distribuzione occorrono investimenti notevoli, di solito si riduce il numero dei distributori. Si amplia cioè il potere contrattuale dei pochi disponibili, con possibilità di 'barganing stalemates', cioè stalli da trattativa.
Specularmente, quando sussiste una rete diffusa di distributori, che abbiano sostenuto ingenti spese di avviamento , sono questi ultimi a trovarsi esposti alla possibilità che il fornitore si avvalga della propria posizione di forza per tenere a bacchetta i propri contraenti. E sappiamo che contratti di lunga durata, pur concepiti allo scopo di evitare comportamenti ooportunistici, sono soggetti a essere infranti volentieri dalla parte che vi abbia un qualche interesse.
Anche in questi casi, l'integrazione verticale può essere la soluzione ottimale per minimizzare i costi legati alle transazioni di mercato (Hennart 1988).
Nel cap.III.5-9, esamineremo in che modo e a quali condizioni le MPI possono abbassare i costi transazionali mediante la stipulazione di contratti di jvs.
 
 
 
10.   Fattori di ritardo e di debolezza nelle joint ventures
 
Fra i fattori che ritardano l'evoluzione verso una struttura imprenditoriale cooperativa, abbiamo, secondo il Chandler (Harrigan, 1988 vii):
a) la mancanza di un mercato unico europeo;
b) il ruolo predominante delle banche nel finanziamento delle imprese: le imprese non sono indotte a sopperire alle necessità finanziarie con mezzi propri, quando l'accesso al credito risulta conveniente;
c) la mancanza di una forte struttura organizzativa;
d) l'assenza di un'efficiente legislazione antimopolistica; sicchè molto spesso risulta più vantaggiosa la pura e semplice acquisizione di società, invece delle strategie ce salvaguardano l'individualità dell'impresa (mentre scrivo si sta discutendo in Parlamento sull'introduzione di una normativa anti-trust in Italia, non sappiamo ancora con quali effetti reali);
e) la presenza di politiche protezionistiche che disincentivano gli sbocchi commerciali all'estero;
f) la diffusa preferenza per la committenza statale e locale piuttosto che il ricorso ad aziende lontane.
 
Se l'esperienza storica delle jvs è stata storicamente inferiore alle potenzialità, ciò è dovuto al fatto che non è facile gestire bene un progetto a due. Le aziende tendono a rifiutare un ruolo passivo; si adattano difficilmente a processi decisionali collegiali. Alle prime difficoltà, fra gli azionisti subentra un clima di ostilità verso l'altro venturer, si creano tensioni (Harrigan, 1988 15-18).
 Non si tiene nel dovuto conto, insomma, il fatto che, come in un buon matrimonio, non basta affatto trascorrere una buona luna di miele: bisogna anche essere disposti a rinunciare a qualcosa e a impostare un rapporto duraturo.
 
Inoltre, quando la jv è strutturalmente asimmetrica per il peso preponderante di un partner, si assiste più facilmente al suo insuccesso, perchè, se contano i fattori psicologici, a nessuno piace recitare la parte del gregario; inoltre si è sempre pronti ad addebitare agli altri ciò che di negativo sfugge alla nostra comprensione.
Una jv è anche una struttura, e come ogni struttura comporta delle spese di gestione e capacità manageriale, cioè risorse. A volte può non valere la pena tenere in piedi un altro carrozzone per ottenere certi benefici, quando le capacità organizzative dei partner sono scarse.
 
Una situazione in cui le strategie di jv possono non convenire affatto, è quella che si presenta nei settori 'people intensive', cioè in cui è preponderante l'elemento umano. Infatti l'elemento umano è facilmente appropriabile (anche se lo 'storno dei dipendenti' può essere colpito come atto di concorrenza sleale), e inoltre in tale situazione non esistono economie di scala (infatti, il costo marginale del lavoro umano è costante).
 
 
CAP.III.  LA JOINT VENTURE: UN'OPPORTUNITA' STRATEGICA PER LE PICCOLO-MEDIE IMPRESE ('PMI')
 
 
 
In questo capitolo esamineremo le prospettive che hanno le piccolo-medie imprese ('PMI') in uno scenario economico internazionale contrassegnato dalla competizione dinamica fra oligopoli, (quindi fra giganti di fronte ai quali i piccoli tendono a soccombere), alla luce delle strategie di joint venture. Come già anticipato nel cap.I.5, vedremo come le joint venture possono essere una strategia di 'survival' per le PMI, o meglio, di competizione alla pari.
Vediamo dapprima che cosa intendiamo per PMI, e che consistenza abbiano nei paesi Cee.
 
 
 
1.  Le PMI nella Cee
 
 
In ambito Cee le PMI hanno un peso maggiore di quanto non si creda: Basti pensare che esse assorbono i 2/3 dell'occupazione complessiva ((1) Questo dato e i successivi sono comparsi in un dossier del 'Sole-24Ore' del 7/6/90,
'Microprotagonisti', sulle PMI).
Per l'ordinamento comunitario, sono da considerarsi PMI quelle imprese che rispondono alle seguenti caratteristiche:
a) hanno meno di 500 dipendenti;
b) hanno un capitale netto inferiore ai 75 milioni di Ecu;
c) non sono controllate per oltre il 33% da una grande impresa.
Sono 'piccolissime', invece, le imprese che abbiano meno di 10 dipendenti. Sebbene 'piccolissime', sono le più importanti nell'economia Cee, in quanto rappresentano numericamente il 90% di tutte le imprese, e impegnano più di 1/4 dell'occupazione totale: il loro peso, fra l'altro, si fa sentire soprattutto nel terziario.
 
Che la Cee, prendendo atto di tale struttura imprenditoriale, coltivi una particolare attenzione per il mondo delle PMI, è dimostrato dal fatto che uno dei settori in cui le istituzioni comunitarie si sono mosse di più è proprio il sostegno alla cooperazione fra le PMI.
Non ha tardato infatti a manifestarsi la preoccupazione che per le PMI fosse particolarmente difficile reperire ed elaborare l'enorme massa di informazioni che la creazione del mercato interno comporta. Ne sono nati progetti di divulgazione di informazioni utili per svolgere affari nella Cee, nonchè utili strumenti ce favorissero la cooperazione fra le imprese Cee, quali il 'BC-Net' e l''Europartenariato'.
 
 
 
 
2.  Validità strategica delle 'reti' di PMI nei mercati 'turbolenti'
 
 
Abbiamo detto che l'ambiente economico 'turbolento' richiede alle imprese flessibilità e capacità di conformarsi in tempi rapidi alle repentine variazioni quantitative della domanda, alla mutevolezza dei gusti del pubblico, alla variabilità della struttura produttiva.
In questo senso, le organizzazioni imprenditoriali di piccole dimensioni sono avvantaggiate perchè presentano una migliore capacità di adeguarsi.
D'altra parte, la globalizzazione dei mercati e gli alti costi fissi d'investimento sono circostanze che penalizzano pesantemente le PMI, che più difficilmente sanno far fronte alle economie di scala.
Per riuscire ad ottenere una competitività sufficiente, le PMI hanno inventato l''impresa-rete', cioè una costellazione di imprese che, mediante vincoli di natura contrattuale o semplicemente convenzionale, si alleano le une alle altre ottenendo di agire nel mercato unidirezionalmente, come fossero un'unica impresa; si tratta insomma di un'unificazione imprenditoriale, accompagnata però dall'autonomia giuridica e patrimoniale (cfr. Harrigan 1988, 5-6).
Esempi di tali 'ragnatele' (che possono senz'altro, all'occorrenza, prendere la forma della jv) sono i fenomeni di 'franchising', in cui si attuano forme collaborative, soprattutto a livello di immagine e merchandising, nonchè le costellazioni di imprese, o 'filiere', dei distretti territoriali monoproduttivi, come il tessile di Prato, l'arredamento della Brianza, le calzature di Vigevano, gli scarponi del Bellunese; in tutti questi casi si forma, al disopra della 'rete', un 'centro nevralgico', dato dallo stesso coordinamento impresso dai componenti, che diviene il vero 'motore' della nuova impresa (Demattè 1990).
La 'diaspora dell'impresa' in una moltitudine di soggetti di minori dimensioni, più flessibili e meno burocratizzati, è ravvisabile anche nel fenomeno del decentramento produttivo mediante il sub-appalto a 'terzisti', e in quello, già citato (Roberts & Berry 1988), del 'nurturing', che non è altro che un'espansione decentrata ((1) Un esempio lampante di 'nurturing' di successo è l''impero' '3M'.
Secondo alcuni, l'interazione spontanea che si realizza nelle reti d'imprese, è fonte di un'accelarazione dei tempi di apprendimento del personale (Corno Fabio, cit. in Harrigan 1988, xii).
 
 
 
 
Queste reti di imprese paiono spesso contraddire le teorie sulle economie di scala e sulle curve di esperienza (Demattè); creandosi e disfandosi, ricomponendosi secondo logiche di concorrenza/cooperazione, stimolando la mobilità delle risorse (es: un dipendente può licenziarsi sapendo di trovare un altro posto in un'impresa vicina), queste reti hanno della grossa impresa l'efficacia, e delle piccole l'efficienza e la flessibilità. Mediante la costituzione di jvs, le PMI possono ottenere l'accesso a capitali superiori per sviluppare ritrovati industriali il cui ritorno economico sia a tempi lunghi, come nel caso dei medicinali (Harrigan 1988,24).
Inoltre, aziende secondarie, detentrici di risorse tecnologiche obsolete, possono integrare le loro tecnologie per ottenere una più alta razionalità produttiva.
 
Un'alternativa  per le piccole aziende e per le ditte individuali, all'alleanza alla pari, è data dalla vendita dell'azienda dall'impresa piccola a quella più grande, con il conteporaneo passaggio del titolare dell'impresa venduta fra le file degli amministratori della società acquirente, o anche nell'assetto proprietario.
 
L''impresa rete' è vista anche, da taluni studiosi, come uno strumento di 'socializzazione del capitale' (Gordon 1988). Secondo Gordon in una situazione di competizione fra oligopoli, la transazione 'di mercato' non esiste più. Per superare la barriera alle transazioni esterne, le imprese si organizzano sempre più attraverso forme di coordinamento che non passano attraverso il mercato. Così, mediante alleanze o decentramento della struttura societaria, si permette la formazione di aggregati di microimprese che possono sopravvivere (2) Gordon peraltro ha in mente un ambiente imprenditoriale abbastanza particolare, quale l'aggregato di piccole aziende costituenti il nerbo della 'Silicon Valley'.
 
Nel prossimo paragrafo esamineremo le alleanze fra PMI e grandi imprese. Qui val la pena di notare che, se è vero che la maggior parte degli accordi di jvs avviene fra grandi imprese, è anche vero che chi può trarre la maggior utilità dalle alleanze sono le PMI: solo con le alleanze possono infatti acquisire quel grado di incisività nel mercato tale da renderle competitive.
 
 
 
3.  Allearsi con i grandi
 
 
Spesso le grandi aziende hanno abbastanza potere contrattuale da creare costellazioni di imprese, tramite una pluralità di accordi unilaterali, ponendosi al centro in qualità di leader: le imprese satelliti, slegate l'una dall'altra, rimangono in relazione esclusiva e privilegiata con la leader (un fenomeno caratteristico in tal senso è il 'franchising'). In casi come questi, è evidente una situazione asimmetrica. Nell'analisi di Harrigan (1988, 19), le asimmetrie di potere e di funzioni sono uno dei principali fattori di insuccesso delle jvs, mentre quando i partner partecipano a pari titolo nell'amministrazione, nelle responsabilità e nell'utile le alleanze risultano più feconde; è vero infatti che motivazione e frustrazione sono due frutti che crescono l'uno sull'albero dell'uguaglianza, l'altro su quello della sudditanza.
 
Comunque, se può servire a tranquilizzare chi conduce una MPI, non è neanche vero che ogni jv fra un piccolo e un grande debba andare ad esclusivo vantaggio del secondo. Anzi, soprattutto nel caso di jvs orizzontali, è possibile che nello scambio reciproco di conoscenze vengano avvantaggiati i partners più piccoli. Ciò è di immediata comprensione se si pensa che la maggior parte del know-how di un'azienda è costituito di tecniche di facile appropriazione (come le tecniche di marketing, merchandising, ecc (Harrigan 1988, 47).
 Magari il venturer maggiore potrebbe non essere propenso a svendere le sue conoscenze, ma accetterà di farlo se il partner minore può consentirgli di accedere a uno sbocco commerciale altrimenti difficilmente conquistabile.
 
Un fenomeno significativo, a dimostrazione del fatto che si possono avere matrimoni ben combinati fra una piccola e una grande impresa, è costituito da quelle che uno studioso ha chiamato 'new style jvs' (Hlavacek, citato in Roberts & Berry 1988). Si tratta di jvs, usualmente non consacrate da formalità legali, fra una piccola azienda ad alta intensità di tecnologia, e una grossa impresa che mette in comune la propria capacità di marketing o altri servizi legati alla commercializzazione di un prodotto.
'Queste jvs, che stanno crescendo d'importanza, sono frequentemente realizzate attraverso l''uso creativo del venture capital' (Hlavacek).
 
Come si è visto a proposito dei 'benefici di contatto', le alleanze fra imprese sono solitamente funzionali al miglioramento delle 'curve di apprendimento' e delle 'curve di esperienza' (Harrigan 1988, 76); ciò significa che la capacità di sfruttare i vantaggi delle strategie cooperative cresce con l'utilizzo stesso (cfr. il principio 'learning by doing'). Ne discende che, nell'alleanza con una grande impresa, l'azienda più giovane e più piccola può essere quella che trae i maggiori benefici dal contatto con chi ha sviluppato una notevole risorsa esperienziale.
Nello stesso tempo, le PMI possono essere altamente vantaggiose per il partner più grosso, che può risentire di pesantezze strutturali. Imprese multinazionali come Olivetti o General Motors hanno ricavato enormemente da una ragnatela di accordi con imprese-laboratorio, capaci di sfornare più idee di un'intera struttura di ricerca interna (Turati, 1988). Inoltre, organizzazioni più piccole e flessibili sono caratterizzate da un più alto grado di delega, da una maggior rilevanza delle relazioni 'orizzontali' e 'diagonali' rispetto a quelle gerarchiche: in una parola, da processi decisionali più rapidi (Turati, 1988). Ciò può risultare di stimolo per aziende sofferenti di gigantismo burocratico.
 
Se si tiene conto, infine, delle possibilità di apprendimento che si spalancano durante la vita di una jv, bisogna concludere che le MPI trovano nelle jvs una splendida opportunità di impadronirsi delle tecniche di marketing, di creazione di reti distributive, di management, che altrimenti non potrebbero mai ottenere: e poichè una grande impresa ha più 'porte d'accesso' ai propri uffici e ai propri laboratori di quanti non ne abbia una piccola, si capisce come sia più difficile, per il partner grande, celare all'altro le proprie metodologie, che non il contrario. Questo fatto è un'ulteriore conferma della vantaggiosità delle jvs per le PMI; soprattutto nel caso che l'apporto di tecnologia da parte della PMI sia brevettabile, mentre non lo siano le conoscenze, solitamente 'market-oriented', dell'impresa più grande (cfr Hamel, Doz e Prahalad, 1989).
 
MANCA CAPITOLO 3.4: LEGISLAZIONE ANTI TRUST
 
 
5.  I 'costi fissi' per costituire e gestire una PMI: un handicap per le PMI
 
 
Siamo arrivati a un punto critico della presente ricerca.
Abbiamo visto nei precedenti paragrafi che la forma organizzativa della jv è un'opzione significativa per quelle PMI che vogliano allearsi ed annullare almeno in parte il vantaggio competitivo delle grandi imprese, conservando al contempo una certa agilità.
Bisogna allora domandarsi: come mai, ad onta dei vantaggi descritti, le PMI tendono a non ricorrere alle strategie cooperativistich, e alle jvs in particolare ?
 Nei prossimi paragrafi tenterò appunto di delineare una spiegazione plausibile della scarsa propensione all'alleanza strategica proprio in quegli operatori che trarrebbero il maggior vantaggio relativo. Anticipandone i contenuti, diremo che le PMI partono svantaggiate per il fatto che l'adozione di tali strategie implica un elevato livello di conoscenze e capacità manageriali; le quali, costituendo dei 'costi fissi' d'impresa, tendono a porsi come un ostacolo per quelle imprese, come appunto le PMI, che non sono in grado di far fronte all'onere, finanziario e non, richiesto.
 Qui vorrei far notare che la stessa Comunità Europea si è fatta carico di questa carenza strutturale, inventando alcuni strumenti concepiti proprio per diminuire i costi di creazione e gestione di alleanze, abbassando così la soglia critica dimensionale sotto la quale le alleanze divengono profittevoli. Fra questi strumenti merita menzione il progetto 'Brite - Euram', elaborato per facilitare le alleanze fra imprese per l'innovazione tecnologica. I vincitori annuali degli appalti possono usufruire, grazie al 'Brite - Euram', di risorse finanziarie comunitarie per la realizzazione dei progetti 'in joint'(1).
 
 
 
 
5.  I 'costi fissi' per costituire e gestire una PMI: un handicap per le PMI
 
 
Siamo arrivati a un punto critico della presente ricerca.
Abbiamo visto nei precedenti paragrafi che la forma organizzativa della jv è un'opzione significativa per quelle PMI che vogliano allearsi ed annullare almeno in parte il vantaggio competitivo delle grandi imprese, conservando al contempo una certa agilità.
Bisogna allora domandarsi: come mai, ad onta dei vantaggi descritti, le PMI tendono a non ricorrere alle strategie cooperativistich, e alle jvs in particolare ?
 Nei prossimi paragrafi tenterò appunto di delineare una spiegazione plausibile della scarsa propensione all'alleanza strategica proprio in quegli operatori che trarrebbero il maggior vantaggio relativo. Anticipandone i contenuti, diremo che le PMI partono svantaggiate per il fatto che l'adozione di tali strategie implica un elevato livello di conoscenze e capacità manageriali; le quali, costituendo dei 'costi fissi' d'impresa, tendono a porsi come un ostacolo per quelle imprese, come appunto le PMI, che non sono in grado di far fronte all'onere, finanziario e non, richiesto.
 Qui vorrei far notare che la stessa Comunità Europea si è fatta carico di questa carenza strutturale, inventando alcuni strumenti concepiti proprio per diminuire i costi di creazione e gestione di alleanze, abbassando così la soglia critica dimensionale sotto la quale le alleanze divengono profittevoli. Fra questi strumenti merita menzione il progetto 'Brite - Euram', elaborato per facilitare le alleanze fra imprese per l'innovazione tecnologica. I vincitori annuali degli appalti possono usufruire, grazie al 'Brite - Euram', di risorse finanziarie comunitarie per la realizzazione dei progetti 'in joint'(1(1) L'Italia ha finora goduto delle elargizioni del 'Brite' nella modestissima misura dell'1%. Le PMI della Cee hanno rappresentato solo il 20% dei partecipanti (fonte: Il Sole- 24Ore 31/5/90, "Con 'Brite' Progetti in Joint").
 
 
6.  Costi di negoziazione
 
 
Quando si vuole realizzare una jv e guidarla fra i marosi dell'agone commerciale, non solo bisogna fare un calcolo di compatibilità economico-finanziaria, ma occorre anche valutare se le risorse interne siano tali da permettere una gestione efficace della jv; occorre per esempio valutare se si sarà in grado di sopportare i costi necessari per acquisire la competenza legale e tecnica per rendere la jv effettivamente funzionante.
Gli investimenti in conoscenze e capacità negoziali, gestionali e strategiche necessarie per costituire una jv e trarne profitto, rappresenta per l'impresa un costo fisso da cui non si può prescindere.
Se questo è vero, come si tenterà di dimostrare in questo paragrafo e nei seguenti, allora la necessaria conclusione sarà che le PMI sono svantaggiate, nel ricorso alle jvs, per il fatto, fra l'altro, che i costi fissi legati alla negoziazione dei rapporti rappresentano una barriera più per le imprese di minori dimensioni, che non per le grandi imprese.
Assistiamo al paradosso per cui, proprio quella strategia che dovrebbe rimettere le PMI in coondizione di parità con le imprese più grandi, si rivela, all'atto pratico, discriminatoria proprio verso le stesse PMI. Per fare un esempio, ben poche PMI dispongono, al proprio interno, di un ufficio legale che possa concepire e dar corpo a un progetto di jv, e l'imprenditore medio è troppo indaffarato nel management ordinario per preoccuparsi di virtuosismi strategici.
Non è un caso che quando un giornale economico italiano si è trovato a parlare delle jvs nazionali ((1) Il Sole-Ore 5/7/90), ha titolato significativamente "Joint, non è un gioco per tutti _ Alleanze vincenti spesso fra grandi", citando poi solo esempi di recentissime mega-alleanze (non sempre vincenti) come Stet-Italtel ed AT&T, o Ansalo-Finmeccanica e Abb.
 
I costi, fissi o variabili, legati ai negoziati necessari per creare una jv, si distribuiscono nelle seguenti componenti:
a) reperimento di conoscenze specifiche teoriche e legali;
b) reperimento di informazioni sul partner;
c) sviluppo di capacità negoziali.
 
a) Reperimento di conoscenze
Se il partner è straniero, a quali norme è sottoposto ? Come costituire una jv all'estero ? Quali i vincoli legali, burocratici, fiscali e tecnologici ? A quale legge nazionale è sottoposto il contratto ? Se la società sarà un'equity jv all'estero, come saranno regolati i poteri degli azionisti ?
L'apprendimento di queste informazioni rappresenta un costo fisso.
 
 b) Reperimento di informazioni sul partner
E' un partner serio ? A quali rischi patrimoniali mi espongo alleandomi con costui ? Che tenuta reale hanno i suoi 'assets', e soprattutto quelli intengibili ? Sarà meglio analizzare il futuro partner, o meglio sottoporlo a revisione contabile; se c'è già stata una revisione, sottoporlo a una controrelazione contabile: in questi casi la prudenza non è mai molta (ma è costosa: le parcelle degli 'auditors' possono essere scoraggianti per i piccoli imprenditori). In un caso da me analizzato, l'iniziale contrattazione per l'acquisto di un ramo d'azienda (a cui sarebbe seguita una conduzione parzialmente paritetica) aveva considerato il valore degli 'assets' pari a 900 milioni; la revisione contabile evidenziò poi tali discrepanze, che con la susseguente procedura arbitrale l'acquirente potè ottenere l'azienda...a gratis !
Proprio per evitare scherzi del genere, i futuri partners di equity jvs usano inserire in contratto la clausola 'indemnity'. Tale clausola prevede che il cedente di una parte dell'azienda indennizzerà prontamente l'acquirente per ogni perdita successiva, legata a un'erronea prospettazione finanziaria e contabile da parte del cedente.
Si deve notare che le PMI sono più esposte a oscillazioni finanziarie, e ciò comporta un rischio aggiuntivo nelle loro jvs. Oltre a ciò, prima di optare per un partner, si dovranno reperire informazioni sulle sue reti di vendita, sui contratti in corso, sul management; apprendere se la sua strategia è improntata a motivazioni opportunistiche, se esso possa recare alla propria azienda dei 'benefici di contatto', oppure delle tecnologie interessanti; effettuare viaggi di ricognizioni e per pubbliche relazioni, ecc.
 
c) sviluppo di capacità negoziale
La fase delle trattative è particolarmente delicata, e necessita di esperienza, per non perdere eccessivamente nel gioco del bilanciamento di oneri e facoltà.
Occorrerà stabilire il destino dei contratti già in corso; decidere se chi è già in possesso di canali commerciali, debba consegnare al partner gli schedari con le informazioni sui clienti; regolare in che limiti i due partner possano svolgere attività in concorrenza, ecc.
Anche queste sono risorse manageriali che vanno spese; anche questi sono costi fissi.
 
 
 
 
 
 
MANCA 3.7: Costi legati alla conduzione della jv
 
MANCA 3.8: costi di valutazione in itinere
 
MANCA 3.9 POLITICHE DI MARCHIO
 
 
CONCLUSIONE
 
 
 
Non si vedono molte jvs fra piccole e medie imprese, in giro. Potremmo concluderne che, se è vero che la selezione naturale esiste anche in economia, quella forma organizzativa sia perdente. Potremmo addebitarlo a carenze interne dello schema della jv, a carenze strutturali delle PMI, o alla formula nel suo assieme. E tuttavia, non si può giudicare la validità di di una formula, partendo solo dallo 'status quo'. Occorre una valutazione in prospettiva.
Abbiamo visto infatti che per le PMI, i costi rappresentati dalle spese per la costituzione, la contrattazione, e la conduzione di una jv possono avere un peso relativo maggiore che per la grandi imprese, sconsigliando il ricorso a virtuosismi organizzativi che richiedono elevate capacità e conoscenze.
Sopravvivere nella competizione internazionale, tuttavia, significa aumentare la propria concorrenzialità o mediante un aumento dimensionale internalizzato, o mediante il ricorso al mercato. L'internalizzazione ha dei limiti fisici ben precisi per le PMI, e sono vincoli finanziari e strutturali. Il ricorso al mercato, invece, ha dei limiti transazionali legati più che altro alla risorsa conoscitiva, la quale, come si sa, non soffre di limiti interni.
Pertanto, mentre sul piano dimensionale le PMI si troverebbero irrimediabilmente spiazzate, sul piano cooperativo hanno la possibilità di rimontare lo svantaggio verso le mega-imprese.
Ma per questo le PMI devono attirare verso di sè i fattori che permettano l'accrescimento di un know-how più conoscitivo ed esperienziale che non tecnico. Devono accrescere la propria attitudine all'apprendimento. Direi che è questa la sfida che la globalizzazione pone alle PMI.
Le PMI hanno in sè il vantaggio della flessibilità. Combinando flessibilità con reti di accordi che permettano strategie coordinate, le PMI potrebbero raggiungere una rinnovata capacità competitiva: e allontanare i timori di chi prevede un mondo dominato da poche oligarchie economiche.
 
 
Rimini, 18/7/90
 
 
 
 
 
 
 
 
                             BIBLIOGRAFIA
 
 
LIBRI 
 
 
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ARTICOLI
 
 
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