Un interessante pronuncia del Giudice del Registro delle Imprese presso il Tribunale di Foggia offre lo spunto per riprendere in esame e rianalizzare la differenza tra l’istituto del trust e quello del vincolo di destinazione.
La decisione prende le mosse da una serie di provvedimenti con cui il Conservatore del Registro presso la CCIAA di Foggia ha negato l’iscrizione di conferimenti di quote societarie in un trust, operazioni effettuate con scritture private inoltrate a mezzo pec da un professionista abilitato e non mediante atto pubblico.
Infatti, secondo il Conservatore vi era «Carenza di atto pubblico. L’art 2645ter c.c. dispone che al fine della trascrizione nei pubblici registri gli atti di destinazione dei beni debbano essere redatti in forma pubblica».
Tuttavia, come si evince dal citato provvedimento, vengono sovrapposte e confuse le figure del trust e del vincolo di destinazione ex art. 2645ter c.c., mentre le differenze tra i due istituti sono evidenti e marcate.
Infatti, con l’atto di destinazione, di cui all’art. 2645 ter c.c., un soggetto (definito “conferente”) può sottrarre uno o più “beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri” appartenenti al suo patrimonio alla garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c., imprimendo su di essi un vincolo di destinazione funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela riguardanti beneficiari determinati, a favore dei quali sia tali beni che i loro frutti devono essere impiegati.
Il vincolo non può avere durata superiore a novanta anni. Esso deve risultare da atto avente forma pubblica e può essere trascritto ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi.
Per la realizzazione dello scopo può agire, oltre il disponente, anche qualsiasi altro interessato. La conseguenza dell’apposizione del vincolo è che i beni destinati alla finalità ed i loro frutti possono essere oggetto di esecuzione – salvo quanto previsto dall’art. 2915, comma 1, c.c. – per i soli debiti contratti per tale scopo.
Si ottiene con questo istituto che i beni immobili e quelli mobili registrati in pubblici registri non fuoriescono dal patrimonio personale del disponente, risultando solo temporaneamente segregati con la trascrizione del “vincolo di indisponibilità”.
Invece, il trust, che trae origine dalla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1995, è un rapporto giuridico che sorge per effetto della stipula di un atto tra vivi o di un testamento, con cui un soggetto (settlor o disponente) trasferisce ad un altro soggetto (trustee) beni o diritti con l’obbligo di amministrarli nell’interesse del disponente o di altro soggetto (beneficiario) oppure per il perseguimento di uno scopo determinato, sotto l’eventuale vigilanza di un terzo (protector o guardiano), secondo le regole dettate dal disponente nell’atto istitutivo di trust e dalla legge regolatrice dello stesso.
L’atto istitutivo, di regola, prevede che, alla scadenza del trust, il fondo in trust venga trasferito al beneficiario.
La titolarità dei beni o diritti oggetto del trust spetta al trustee, il quale è però gravato dall'obbligo di amministrarli nell'interesse altrui. I beni o diritti oggetto di trust costituiscono un patrimonio separato rispetto ai rapporti giuridici personali del trustee e, pertanto, non possono essere aggrediti dai creditori personali del trustee, né fanno parte del regime matrimoniale o della successione del trustee.
Da un primo esame emerge una sostanziale differenza tra le due figure.
Una prima fondamentale differenza rispetto al trust è che la nuova normativa in tema di vincoli di destinazione non prevede la partecipazione all’atto istitutivo del vincolo di due soggetti distinti, mentre il trust – quale schema tradizionale – è incentrato sulla partecipazione di due soggetti: il disponente (settlor) ed il trustee.
Una seconda non trascurabile differenza tra vincolo di destinazione e trust riguarda i beni che possono essere formare oggetto del negozio che ne sia all’origine: solo beni immobili o mobili registrati nel caso del vincolo di destinazione di cui all’art. 2645ter c.c., generalmente qualsiasi bene nel caso del trust (e dunque non solo beni immobili, ma anche mobili non registrati, partecipazioni societarie, titoli di credito, ecc.).
In merito a questo aspetto val la pena far rilevare come la differenza tra i due istituti emerga anche dalla natura dei beni che possono essere assoggettati all’uno o all’altro. Infatti, appurato che il vincolo di destinazione può essere trascritto solo su beni immobili o mobili registrati, si può desumere a contrario come i beni mobili possano necessariamente formare oggetto di disposizione nei soli trust.
A conferma di ciò si richiama l’orientamento – ormai consolidatosi in giurisprudenza – secondo il quale la quota è assimilabile ad un bene mobile immateriale (cfr. Cass. 26.5.2003, n. 6957, ai sensi della quale “la quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettiva che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell’art. 812 c.c., onde a essa possono applicarsi, a norma dell’art. 813 c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili ...”. In senso conforme Cass. 12.12.1986, n. 7409).
In merito significativa è la posizione di quella parte della dottrina secondo cui «le quote di s.r.l. non sono considerabili come beni mobili registrati (con quanto ne conseguirebbe […] e quindi anche l’estensione analogica della disciplina di cui all’art. 2645ter c.c.).». E ancora «[…] assimilare gli effetti dell’art. 2645ter c.c., che si riconnettono all’operatività del principio di cui all’art. 2644 c.c., a quelli degli artt. 2470 e 2471 c.c., la cui funzione si discosta notevolmente dalla disciplina in materia di immobili e mobili registrati, può dar luogo a più di una perplessità […]» (Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto della famiglia e delle persone, Milano, 2011, 145 e ss. Conformemente, Maltoni, La riforma delle società a responsabilità limitata, Milano, 2003, 184 e ss..).
Anche la durata costituisce un elemento distintivo importante tra le due fattispecie: per espressa disposizione legislativa il vincolo di destinazione di cui all’art. 2645ter c.c. non può superare i novant’anni o la durata della vita della persona fisica che ne risulti beneficiaria, mentre nel caso del trust la durata dipende dalle previsioni della legge regolatrice che ad esso sia applicabile.
Una quarta differenza consiste nella sorte del bene al momento della cessazione dell’istituto: nel caso dell’art. 2645ter c.c. il bene torna al proprietario, facendo riespandere il suo diritto di proprietà una volta venuto meno il vincolo di destinazione; nel caso del trust, invece, una volta effettuata la disposizione, il bene esce definitivamente dal patrimonio del disponente.
Infine, anche la forma dell’atto istitutivo di un vincolo di destinazione e di quello di un trust non può dirsi coincidente: nel primo caso la disposizione legislativa contempla unicamente gli atti in forma pubblica (con ciò imponendo l’adozione di una determinata forma), mentre nel caso del trust è noto che l’art. 3 della Convenzione de L’Aja dichiara riconoscibile un trust contenuto in un mero atto scritto, senza imporre il ricorso ad un atto pubblico.
Sul punto la giurisprudenza è unanime nel riferire che “l'intestazione fiduciaria di quote sociali non è soggetta a requisiti di forma” (Cass. 27.12.2011 n. 28875, in Trust, 2013, 2, 170). Inoltre, “in conseguenza dell'istituzione del "trust", che deve essere stipulato con il solo onere della forma scritta "ad probationem" (art. 3 conv. cit.), i beni conferiti in trust beneficiano della segregazione patrimoniale, "non fanno parte del patrimonio del trustee” e il trustee “è investito del potere e onerato dell'obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge" (art. 2, par. 2 conv.)” (Trib. Milano, ord. 10.06.2009).
Da ultimo, sembra doveroso affermare che l’errore in cui è incorso il Conservatore sta anche nell’aver trascurato la portata della cd. “Legge di stabilità 2012” (L. 12.11.2011, n. 183 pubblicata nella G.U. n. 265 del 14.11.2011) che all’art. 14, co. 8, ha definitivamente chiarito che il trasferimento di quote di Società a Responsabilità Limitata può essere effettuato anche solo con firma digitale e quindi non è necessaria l’autenticazione notarile.
Infatti, prima di essa già il D.L. n. 112/2008 (art. 36, comma 1-bis) aveva disciplinato il trasferimento di quote di Srl mediante atto sottoscritto con firma digitale dei contraenti, nel rispetto della normativa inerente la sottoscrizione dei documenti informatici.
L’atto di trasferimento doveva essere depositato entro 30 giorni presso l'Ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale, a cura di un intermediario abilitato iscritto nell’Albo dei dottori commercialisti o dei ragionieri e periti commerciali, munito della firma digitale e allo scopo incaricato dai legali rappresentanti della società.
La norma di cui all’art. 14, comma 8 Legge n. 183/2011, dunque, si pone come norma di natura interpretativa e confermativa della disposizione di cui al D.L. n. 112/2008, stabilendo che il trasferimento di quote di Srl mediante sottoscrizione con firma digitale deve essere inteso come una modalità di trasferimento di quote sociali alternativa a quella che prevede la sottoscrizione autenticata dal notaio (art. 2470, co. 2 c.c.).