L’ormai ex ministro Fornero, proprio qualche giorno prima della scadenza del suo mandato, ha dovuto ammettere che la defiscalizzazione del salario di produttività “non ha funzionato e che risultati tangibili sulla produttività non ci sono stati”.

Per un verso pochi lavoratori stanno beneficiando della detassazione. Per altro verso le imprese che possano riscontrare una maggiore produttività o anche solo ambirvi sono, in questo periodo, da ricercare con la lanterna.

Le norme sulla detassazione, già frutto di controverse interpretazioni da quando, nella metà del 2008 furono introdotte, non hanno certo brillato per chiarezza. Ne è testimone la quantità di circolari, risoluzioni ed interpelli emanati dall’Agenzia delle entrate e dal Ministero del lavoro, interpretazioni spesso in contrasto fra loro e fonte, a loro volta, di ulteriori incertezze. In questo clima molti imprenditori ed i consulenti, prima di assoggettare le retribuzioni alla aliquota agevolata, ci sono andati con i piedi di piombo, nel timore di dover poi affrontare eventuali contenziosi con l’erario.

Condivisibile è anche la sfiducia delle imprese in una agevolazione che oggi c’è e domani chissà. Così si sta andando avanti dal 2008, con misure sempre sperimentali che vengono prorogate di finanziaria in finanziaria. E per giunta non solo mutano, di anno in anno, le condizioni di accesso all’agevolazione, ma ogni legge finanziaria ne rimette l’attuazione alla emanazione di decreti ministeriali che vengono emanati con mesi di ritardo.

Ne è un chiaro esempio il DPCM 22 gennaio 2013, pubblicato in Gazzetta solo lo scorso 29 marzo, che – onde evitare un accesso incontrollato agli scarsi fondi pubblici – ha introdotto, fra l’altro, una più restrittiva nozione di retribuzione di produttività.

Per tale si intendono, infatti, le voci retributive erogate, in esecuzione di contratti territoriali o aziendali, con espresso riferimento ad indicatori quantitativi di produttività/redditività/qualità/efficienza/innovazione. Ovvero, in alternativa, le voci retributive erogate in esecuzione di contratti territoriali o aziendali che prevedano l’attivazione di almeno una misura in almeno tre delle seguenti aree di intervento: (a) ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione con modelli flessibili, anche in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica e alla fluttuazione dei mercati finalizzati ad un più efficiente utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività  convenuti mediante una programmazione mensile della quantità e della collocazione oraria della prestazione; (b) introduzione di una distribuzione flessibile delle ferie mediante una programmazione aziendale  anche non continuativa delle giornate di ferie eccedenti le due settimane; (c) adozione di misure volte a rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei  diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione di strumenti informatici, indispensabili per lo svolgimento delle attività lavorative; (d) attivazione di interventi in materia di fungibilità delle mansioni e di integrazione delle competenze, anche funzionali a processi di innovazione tecnologica.

Senza considerare l’adempimento burocratico, non previsto in passato per l’accesso alla detassazione, del deposito dell’accordo aziendale o territoriale presso la competente Direzione territoriale del lavoro, accompagnato per giunta da una “autodichiarazione di conformità dell’accordo depositato alle disposizioni” del citato decreto (dichiarazione che richiede, peraltro, più che una affermazione di scienza, una valutazione sulla congruità di un certo accordo rispetto a norme di legge, operazione spesso complicata anche per un esperto della materia).

La sconfitta ammessa dall’ex Ministro era, in definitiva, largamente preventivabile.

Non è solo colpa di norme mal scritte.

Vero è che le imprese italiane – che già sulla capacità e possibilità di fare contrattazione a livello aziendale, se non adeguatamente assistite, hanno i loro cronici problemi – in un panorama normativo ed amministrativo così paludoso e precario non sono incentivate a concordare con la controparte sindacale l’organizzazione del proprio personale. In quest’ottica, l’aver vincolato – già con il decreto legge 78/2010 – l’accesso alla detassazione a previ accordi a livello aziendale o territoriale non soltanto non ha raggiunto lo scopo di incentivare il nuovo assetto delle relazioni industriali, bensì ha messo a rischio l’obiettivo, originariamente dichiarato dall’art. 2 del decreto legge n. 93/2008, di sostegno al potere di acquisto dei lavoratori.

La via d’uscita negli anni passati (2011 e 2012) è stata quella di escogitare una intesa quadro a livello nazionale che definisse una traccia, pressoché completa, di accordo collettivo territoriale; sicché i contratti territoriali o aziendali, aggirando la sostanza della norma, si limitavano ad attenersi al testo predisposto a livello centrale ed a richiamare la applicabilità della detassazione a tutti gli istituti, così come disciplinati dal contratto collettivo nazionale applicato in azienda. Ed il gioco è fatto.

Questa classica soluzione all’italiana è riproposta, per quest’anno, dall’accordo siglato il 24 aprile da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ove, peraltro, pare si voglia legittimare la detassazione a fronte di “prestazioni lavorative diverse da quelle rese in osservanza degli orari di lavoro applicati in azienda”.

A parte l’aver ridotto la produttività alla sola questione degli orari di lavoro (come se la effettuazione di qualche ora di lavoro straordinario porti, da sola, ad una maggiore produttività, il che pare francamente banale) siamo così certi che la previsione dell’accordo quadro sia conforme alla definizione di retribuzione di produttività contemplata nel decreto ministeriale? Rileggendo la norma qualche dubbio viene.

Alessandro Corvino
corvino@lablex.it