La cosiddetta disciplina della mediazione civile e commerciale trova i propri antecedenti in due diverse fonti normative: la prima di diritto comunitario, l'altra di diritto interno.

Quanto al diritto comunitario, ci si riferisce alla direttiva n. 52/CE del 21/05/2008, "relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale"; quanto alla fonte nazionale, alla disciplina dettata in materia societaria, di cui agli artt. 38 e ss. del D. Lgs. n. 5/2003 ed ai decreti di attuazione del 2004.

Prescindendo dalla inesattezza della terminologia utilizzata dal legislatore nazionale con riguardo alla “mediazione civile e commerciale”, in quanto il codice del commercio, risalente al 1882, è confluito nel codice civile del 1942, è opportuno rilevare che l'attuale disciplina della mediazione costituisce il primo esempio concreto di assetto normativo della materia, applicabile a tutte le controversie di natura civile (e commerciale) sulla scia, ma non nell'alveo, per come vedremo, dei principi tracciati dal legislatore europeo.

È altresì il caso di rilevare come il recente intervento normativo in suddetta materia induce l'interprete ad operare un duplice approfondimento sia sulla figura del mediatore-conciliatore sia sull’attività a quest'ultimo demandata, vuoi con riguardo alle non trascurabili refluenze  che la mediazione  può avere sul processo, vuoi con riguardo alle soluzioni extraprocessuali che le parti possono adottare per il componimento consapevole del loro conflitto, preventivamente o in via postuma rispetto all’instaurazione del giudizio, a seconda se facciano ricorso alla mediazione in quanto condizione (necessaria) per la procedibilità della loro domanda giudiziale oppure in quanto disposta dal Giudice, come accade nel caso della cd. mediazione delegata.

In ogni caso, l’Istituto della mediazione civile obbedisce a principi, regole ed interessi del tutto estranei al processo civile e, spesso, antitetici alle garanzie processuali, circostanza questa che, per come vedremo, apre nel sistema una maglia piuttosto ampia che può favorire l’uso distorto e strumentale della mediazione a favore di chi persegue finalità illegittime e financo illecite che nulla hanno a che vedere con la composizione del conflitto, solo fittiziamente rappresentato con l’altra parte  o le altre parti coinvolte nella procedura di mediazione.

Si è appena accennato alle fonti del diritto riconducibili alla mediazione e si è detto che una delle fonti primarie di tale istituto è rappresentata dalla direttiva europea n. 2008/52/ce del 21/05/2008 che, muovendo da precedenti esperienze normative, rammentate nei considerando nn. 1, 2, 3 e 4  della direttiva medesima, ha determinato il Parlamento europeo a porre l'attenzione sulla “necessità di garantire nell'unione europea un migliore accesso alla giustizia, di istituire uno spazio di libertà di sicurezza e giustizia tanto ai metodi giudiziari tanto a quelli extragiudiziali di risoluzione delle controversie” (cfr. considerando n. 5).

Nonostante il Parlamento europeo abbia previsto prevalentemente l'applicazione della direttiva in parola "alla mediazione nelle controversie transfrontaliere", lo stesso Parlamento ha lasciato ampia discrezionalità agli stati membri "di applicare tali disposizioni anche ai procedimenti di mediazione interni" (cfr. considerando n. 8).

Il legislatore italiano, in modo alquanto inconsueto, ha recepito la direttiva in parola estendendo l'istituto della mediazione ai procedimenti interni, rendendo l'accesso alla giustizia condizionato al preventivo esperimento della mediazione, nelle materie indicate nell'articolo 5 del D.Lgs. n. 28/2010, per le quali, appunto, la mediazione si pone come condizione di procedibilità della relativa domanda giudiziale.

Per quanto concerne le definizioni, l'art. 1  del D.Lgs. n. 28/2010 definisce come:

a)      mediazione: "l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa";

b)      mediatore: “la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo";

c)      conciliazione: la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione".

Ciò che si ricava dalle suddette definizioni, può così sintetizzarsi:

a)      la mediazione può essere condotta da una o più persone fisiche, singolarmente o collegialmente per assistere due o più parti nella ricerca di una soluzione amichevole o nella formulazione di una proposta;

b)       il mediatore è terzo (imparziale) rispetto alle parti;

c)      Il mediatore è privo del potere di rendere giudizi o assumere decisioni che siano vincolanti per i destinatari del servizio di mediazione svolto.

Per quanto concerne il numero dei mediatori, la previsione normativa che precede non si presta a commenti significativi, atteso che la scelta del singolo mediatore o del collegio di mediatori è fatta rientrare nella discrezionalità dell’organismo cui è devoluta la mediazione, a seconda della rilevanza o (anche) della delicatezza delle questioni trattate.

Ciò che è il caso di rilevare, semmai, è che la valutazione discrezionale operata dall’organismo, quanto all’opportunità di nominare un singolo mediatore o un collegio di mediazione, non ha alcuna refluenza sui costi della procedura e, quindi, non comporta alcun aggravio di spesa per le parti coinvolte nella mediazione che resteranno, pertanto, assoggettate alla tariffa indicata nel regolamento dell’organismo di mediazione prescelto.

Più stimolante, piuttosto, appare lo studio della figura del mediatore, per come disciplinata dalla disposizione normativa in esame, con riguardo al rapporto di terzietà con le parti, all’assistenza che egli deve prestare in favore dei soggetti coinvolti nella mediazione per la  ricerca di un accordo amichevole o per la formulazione di una proposta ed ai limiti della proposta medesima che, se formulata, non può essere vincolante per le parti, essendo il mediatore privo del potere di rendere giudizi o assumere decisioni nei loro confronti.

Da tale impianto normativo emerge, quindi, che i protagonisti indiscussi della mediazione sono le parti e non il mediatore.

Ed invero costui, non solo è privo del potere di rendere giudizi o assumere decisioni vincolanti per le parti ma è soggetto alle regole che informano il procedimento di mediazione, ai canoni deontologici dell'ordine professionale cui lo stesso appartiene, agli obblighi ed ai divieti che, in parte, derivano dal D.Lgs. n. 28/2010 e, in parte, dal codice etico.

Per quanto concerne il D.Lgs. n. 28/2010:

l'art. 3 comma 2 stabilisce che il regolamento deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell'art. 9, nonché le modalità di nomina del mediatore che ne assicurano l'imparzialità e l'idoneità al corretto sollecito espletamento dell'incarico";

l'art. 14 stabilisce che il mediatore è tenuto al rispetto del dovere di imparzialità, del divieto di percepire compensi dalle parti, del divieto di assumere obblighi o incarichi dalle parti coinvolte nella mediazione, nonché all'obbligo di formulare proposte nel rispetto dell'ordine pubblico e delle norme imperative di legge.

L'art. 9, comma 2 prescrive il dovere di riservatezza del mediatore sulle dichiarazioni rese dalle parti nel corso delle sessioni separate.

Tale ultima previsione non solo dimostra che le sessioni separate costituiscono un legittimo espediente del mediatore per l’individuazione degli altrui interessi, al fine di agevolare la conciliazione, ma, anche, che la mediazione cui gli organismi devono tendere, attraverso apposite previsioni regolamentari, è quella di tipo facilitativo che, proprio nella separata audizione delle parti, trova il proprio tratto qualificante.

Il dovere di riservatezza che il mediatore al pari di "chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell'organismo o comunque nell'ambito del procedimento di mediazione" è tenuto ad osservare (cfr. art. 9 comma 1)  impone al mediatore stesso "il rispetto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate", dichiarazioni ed informazioni che senza il consenso della parte dichiarante o di quella da cui le predette informazioni provengono (ai sensi dell'art. 9 comma 2), non possono essere riferite alle altre parti del procedimento nè utilizzate " nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione" (cfr. art. 10 comma 1).

Peraltro, il dovere di riservatezza, in ordine a quanto il mediatore o l'altro soggetto che ha prestato la propria opera al servizio dell'organismo ha appreso dalle parti nel corso della mediazione, è reso ancora più pregnante  dalla previsione normativa di cui all’art. 10 comma 2 del citato decreto legislativo, secondo cui:

"il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione né davanti all'autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità", con la conseguenza che "al mediatore si applicano le disposizioni dell'art. 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell'art. 103 del codice di procedura penale in quanto applicabili".

L'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalle parti e delle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate, pertanto, costituisce un obbligo in alcun modo violabile e/o eludibile, tanto per il mediatore che per chiunque altro presti la propria opera o il proprio servizio nell'organismo o comunque nell'ambito del procedimento di mediazione.

Il limite che caratterizza il mediatore con riguardo a quanto lo stesso ha appreso o acquisito nel corso delle sessioni separate, costituisce, al tempo stesso, un preciso limite per il giudice che tali affermazioni o tali informazioni non potrà conoscere, né tantomeno valutare ai fini della formazione del proprio convincimento.

Per come vedremo nel capitolo dedicato allo studio comparato degli interessi e dei diritti, il divieto previsto per il mediatore di divulgare quanto le parti hanno a lui riferito o quanto egli ha appreso in sede di mediazione costituisce il vero spartiacque tra la mediazione ed il processo che le parti, fallita la mediazione, dovranno incoare l’una nei confronti dell’altra (o delle altre) per far valere le proprie pretese.

Per quanto concerne il codice etico:

il mediatore è soggetto al divieto di esercitare pressione sulle parti nel corso della mediazione (divieto, questo, disciplinato, ad esempio, nel codice deontologico approvato dall'unione internazionale degli avvocati) nonché agli altri obblighi e/o divieti espressamente previsti da ciascun organismo in seno al proprio regolamento.

L'art. 16, comma 3 del D.Lgs. n. 28/2010 precisa in proposito che all'atto della domanda di iscrizione nel registro ministeriale, ogni organismo di mediazione è tenuto a depositare il proprio regolamento di procedura e aggiunge che il ministero della giustizia fonda il vaglio della domanda di iscrizione anche sull'idoneità di tale regolamento.

Tale inciso, rende evidente che il contenuto del regolamento non è del tutto rimesso alla libera determinazione dell’organismo che richiede l’accreditamento ministeriale, ma deve informarsi a precisi criteri e canoni ermeneutici che le singole norme si incaricano di fissare e che l'autorità amministrativa ha il compito di valutare e, financo, di sindacare.

Alcune di queste previsioni, infine, trovano completamento e specificazione nel D.M. di attuazione n. 180/2010.

Così, l'art. 7 del prefato D.M., dedicato anch’esso al regolamento degli organismi di mediazione, da un lato elenca i contenuti obbligatori del regolamento di procedura, passando in rassegna le relative norme primarie, dall'altro, elenca i contenuti facoltativi che il regolamento può avere.

Per quanto concerne i contenuti obbligatori del regolamento, si pensi alla previsione di cui al comma 5  lettera a) secondo cui il regolamento deve prevedere che il procedimento non possa avere inizio prima della sottoscrizione di una dichiarazione di imparzialità da parte del mediatore; pensiamo ancora al divieto contenuto nel comma 4 dello stesso articolo con riguardo al ricorso obbligatorio delle modalità telematiche di svolgimento della procedura.

Per quanto concerne i contenuti facoltativi del regolamento, considerato che si tratta di facoltà e non di obblighi, la ratio della norma è quella di suggerire agli organismi in sede di elaborazione del regolamento procedurale ai fini dell'accreditamento, soluzioni che possono attenuare la rigidità di alcune previsioni primarie, sopperire ad alcune difficoltà che gli organismi di nuova costituzione potrebbero incontrare nella prima fase di applicazione della mediazione, specie di quelle obbligatorie.

Da ultimo, non certo per importanza della questione trattata, è il caso di evidenziare, sempre in merito ai profili deontologici che informano la mediazione, come il D.Lgs. n. 28/2010 abbia influito in modo rilevante nel rapporto tra avvocato ed assistito.

Sotto tale crinale, l'art. 4 comma 3, del prefato decreto legislativo recita:

(…) all’atto del conferimento dell’incarico l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20 (…) L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio”.

La disposizione in esame, pone tutta una serie di attività che se non correttamente espletate dall'avvocato all'atto del conferimento dell'incarico, determinano violazione degli obblighi di informazione e, financo, l'annullabilità del contratto.

Ma andiamo in ordine e cerchiamo di esaminare partitamente le singole questioni:

a)   che cosa si intende con l’inciso "all’atto del conferimento dell’incarico";

b)   quali sono le conseguenze correlate alla sanzione dell’annullabilità;

c)   quale funzione riveste il requisito della forma scritta richiesta per l’informazione;

d)   quali sono le conseguenze deontologiche connesse alla mancata informazione.

Per quanto concerne la questione sub a) si rileva:

l’espressione “all’atto del conferimento dell’incarico”, usata dal legislatore, porta ad escludere che l’informazione richiesta dalla legge debba essere fornita dall’avvocato in occasione del primo incontro interlocutorio con il proprio cliente.

In detta circostanza, infatti, il professionista deve inquadrare giuridicamente la fattispecie che gli viene prospettata ed in termini di verosimiglianza rappresentare a se stesso ed al proprio assistito la tutelabilità della pretesa rassegnata.

L’avvocato, non potendo nel primo incontro o colloquio con il cliente individuare, se non in termini astratti, il tipo di strategia difensiva più adatta, dovrà studiare adeguatamente la controversia anche alla stregua della documentazione fornitagli dal proprio assistito.

Giocoforza, l’informativa di cui agli articoli 17 e 20 del D.lgs. in esame, certamente, è da ritenersi postuma rispetto a tale incontro- colloquio preliminare.

Parimenti, il  momento in esame non coincide nemmeno con quello in cui è conferita e firmata la procura alle liti ex art. 83 c.p.c., dato che essa costituisce l’attribuzione dello ius postulandi in favore del procuratore della parte e presuppone il conferimento dell’incarico.

Si può concludere, pertanto, che l’informazione in parola andrebbe fornita tra il primo colloquio preliminare ed il conferimento della procura ovvero allorquando l’avvocato, esaminati gli atti rimessigli dal cliente e la questione nei termini prospettati, individua la strategia difensiva più opportuna e rappresenta alla parte l’attività giudiziale da porre in essere come mezzo al fine.

Per quanto concerne la questione sub b), è il caso di rilevare come la sanzione dell’annullabilità prevista dal D.Lgs. n. 28/2010 si pone in aperto contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione a proposito delle conseguenze correlate alla violazione, in generale, degli obblighi di comportamento e, in particolare, di quelli informativi.

Infatti, con le sentenze nn. 26724 e 26725 del 19/12/2007 le S.U. della Corte di cassazione hanno riaffermato la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità, statuendo che solo la violazione di quest’ultime può produrre conseguenze invalidanti, mentre la violazione di quelle di comportamento determina, eventualmente, effetti di tipo risarcitorio; il che è esattamente il contrario di quanto previsto dal legislatore in materia di mediazione.

Invero, nel D.Lgs. n. 28/2010 il legislatore ha previsto di sanzionare il rapporto tra avvocato e cliente travolgendo gli effetti del “… contratto tra l’avvocato e l’assistito”, con la conseguenza che nella mediazione la violazione delle norme comportamentali concernenti l’obbligo di informativa costituisce non tanto il presupposto per il risarcimento del danno quanto il requisito per ottenere l’annullamento del rapporto negoziale tra il professionista e la parte assistita, con tutte le conseguenze che tale sanzione comporta, in termini di mancata remunerazione e di ripetizione degli acconti versati all’avvocato per l’attività da lui svolta.

Che l’annullabilità operi sul predetto contratto di patrocinio e non sul mandato alle liti conferito ex art. 83 c.p.c. e , quindi, non produca effetti sullo ius postulandi, si ricava dalla distinzione dei due negozi giuridici testé indicati.

In particolare, mentre la procura ad litem costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio costituisce un negozio giuridico bilaterale con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, a svolgere la sua opera professionale in favore della parte assistita.

Corollario di quanto precede è che ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale, ma se la procura ad litem è rilasciata c’è sempre un contratto di patrocinio.

In ogni caso, l’eventuale annullamento del contratto di patrocinio non produce conseguenze pregiudizievoli sullo ius postulandi, come conferma Cass. 02/09/1997, n. 8388 per la quale “la procura alle liti, come atto interamente disciplinato dalla legge processuale, è insensibile alla sorte del contratto di patrocinio, soggetto alla disciplina sostanziale relativa al mandato; la nullità del contratto di patrocinio, pertanto, non toglie al difensore lo "ius postulandi" attribuito con la procura”.

Dal punto di vista soggettivo, trattandosi di annullabilità, la legittimazione all’azione di annullamento, ai sensi dell’art. 1441 c.c.,  spetta solo alla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge; dunque, potrà esperire l’azione di annullamento unicamente l’assistito a danno del quale è stato violato l’obbligo informativo e non certamente l’avvocato della controparte, tanto meno il giudice, non potendo l’annullabilità essere rilevata d’ufficio.

Ovviamente, per la suddetta annullabilità troveranno applicazione gli istituti della prescrizione e della convalida.

Quanto alla prima, ai sensi dell’art. 1442, comma 1, c.c. l’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni decorrente ex comma 3 della medesima norma, dal giorno della conclusione del contratto (di patrocinio); quanto alla seconda, questa può concretizzarsi, per come vedremo, o in un’espressa dichiarazione della parte che intende operarla o, tacitamente, per fatti concludenti.

A differenza dell’azione di annullamento che, come abbiamo visto, si prescrive in cinque anni, la relativa eccezione non  è soggetta a termine prescrizionale.

Tale circostanza non è scevra di rilevanti conseguenze nell’ambito del rapporto tra avvocato e parte assistita.

Ed invero, qualora l’avvocato abbia violato gli obblighi informativi previsti dal D.Lgs. in esame, il professionista sarebbe sempre esposto al rischio di non poter conseguire i propri onorari per l’attività espletata, anche a distanza di decenni dal conferimento dell’incarico, in quanto il proprio assistito potrebbe sempre opporgli, in via di eccezione, l’annullamento del contratto di patrocinio posto a fondamento del suo diritto di credito.

Trattandosi di annullabilità, come noto, il contratto, a differenza di quello nullo, produce medio tempore i suoi effetti, tanto è vero che la sentenza di annullamento ha natura costitutiva mentre quella che accerta la nullità del contratto, natura dichiarativa.

Nella fattispecie, infine, può trovare applicazione il dettato normativo di cui all’art. 1338 c.c. secondo cui “la parte che conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto”;.

Orbene, nel caso in specie non può revocarsi indubbio che l’avvocato avrebbe dovuto conoscere l’esistenza di una causa di annullabilità del contratto dovuta alla carenza di informativa, con la conseguenza che può essere, altresì, destinatario di un’azione di risarcimento per i danni da omessa o incompleta informativa.

Trattandosi di annullabilità, infine, per come già accennato, risulterà applicabile anche l’istituto della convalida di cui all’art. 1444 c.c.

La convalida può essere espressa, o tacita.

La prima si potrà configurare allorquando l’assistito, in qualità di contraente al quale spetta l’azione di annullamento, dichiari di volere convalidare il contratto annullabile ex art. 1444, comma 1 c.c..

Caso tipico è quello dell’assistito che reso edotto dell’omissione dal suo stesso avvocato sottoscriva consapevolmente il documento informativo successivamente alla stipula del contratto di patrocinio, dichiarando di volerne sanare il vizio.

Più problematica, nella pratica, è la convalida tacita la quale è integrata dalla volontaria esecuzione del contratto da parte del contraente cui spettava l’azione di annullamento, a condizione che costui sia a conoscenza del motivo di annullabilità (art. 1444, comma 2, c.c.). In questo senso, la corresponsione di acconti sull’onorario, comportamento che, in linea teorica, può integrare una forma di convalida tacita costituendo adempimento dell’obbligazione di pagamento del corrispettivo, non rileva come tale se l’avvocato non dimostra che l’assistito era contemporaneamente a conoscenza dell’omessa informazione ed ha comunque convalidato il contratto.

Analizzando più da vicino la predetta sanzione di annullabilità del contratto, si scorge che essa è collegata alla “violazione degli obblighi di informazione” di cui all’art. 4, comma 3, che consistono nel portare a conoscenza del proprio cliente:

1.      la possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione;

2.      le agevolazioni fiscali collegate;

3.      i casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Per come già detto l’informazione de qua va dispensata “ all’atto del conferimento dell’incarico” e “deve essere fornita chiaramente e per iscritto”.

La necessità della forma scritta è ribadita dall’ultima parte dell’art. 4, comma 3, ove si legge: “ il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio”.

Possiamo quindi agevolmente concludere che l’obbligo di informativa si caratterizza per il momento temporale in cui deve essere assolto, per il contenuto che deve soddisfare ed infine per la forma che deve rivestire.

Dal punto di vista temporale, l’obbligo di informativa va assolto all’atto del conferimento dell’incarico, per come sopra rassegnato;

dal punto di vista del contenuto, l’informativa deve avere un contenuto minimo, essenziale e predeterminato dalla normativa sulla mediazione;

dal punto di vista formale, l’informativa deve risultare da atto scritto.

La sanzione dell’annullabilità consegue all’omessa o incompleta informativa al cliente ma non anche al difetto di allegazione del relativo documento “all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio”.

In quest’ultimo caso, infatti, la sanzione è meramente processuale e consiste o nel rilievo del difetto di una condizione di procedibilità della domanda o nella convocazione della parte innanzi al giudice perché quest’ultimo possa avvisarla della facoltà di chiedere la mediazione.

Sanzione che, è bene sottolineare, colpisce solo la parte attrice, perché solo a quest’ultima può attribuirsi la paternità di un atto introduttivo del giudizio al quale va allegato il documento informativo.

Si è diffusa nella prassi l’idea di potere surrogare l’obbligo del documento informativo con l’inserimento, in delega, di espressioni che facciano presupporre come assolto l’obbligo di informativa gravante sull’avvocato: espressioni come: “la parte dichiara di avere ricevuto tutte le informazioni previste dall’art. 4 del D. Lgs. n. 28/2010, delego (…)”  o consimili.

Se l’informazione “deve essere fornita chiaramente e per iscritto”, il riferimento alla sua avvenuta somministrazione non risolve il problema dell’osservanza del requisito di forma scritta dato che non è la delega in sé a costituire veicolo dell’informazione ma il documento informativo medesimo.

Resta impregiudicata la necessità di dover documentare in futuro l’adempimento regolare dell’obbligo attraverso l’esibizione del documento veicolo dell’informazione, nei confronti dell’assistito che deducesse l’annullabilità del contrato di patrocinio.

Ragioni pratiche consigliano, pertanto, di compilare a parte il documento informativo ed inserire nella delega, invece, un generico riferimento all’avvenuta somministrazione dell’informazione a mezzo del predetto documento.

Riepilogando: la stesura del documento relativo alla somministrazione dell’informativa al proprio cliente cautelerà l’avvocato dal rischio dell’annullamento del contratto di patrocinio; il riferimento generico di detto documento nella delega, scongiurerà la necessità per il giudice di convocare la parte innanzi a sé per avvisarla della facoltà di chiedere la mediazione.

Orbene, mentre una responsabilità deontologica, ai fini di eventuali provvedimenti disciplinari, è chiaramente configurabile quando sia stata completamente omessa l’informazione prevista dal più volte citato art. 4, comma 3, la stessa non è ravvisabile quando l’informativa sia stata somministrata in modo difforme dal modello normativo, per esempio oralmente piuttosto che per iscritto, ma in modo completo.

In tale ipotesi non sarebbe stato violata la disposizione deontologica ma sarebbe applicabile esclusivamente la sanzione dell’annullamento del contratto.