Il 2016 verrà ricordato per molti eventi politici internazionali, partendo dalla Brexit fino ad arrivare alla sorprendente vittoria di Trump contro la Clinton nelle elezioni statunitensi, ma anche per l’evento nazionale che sta catalizzando l’attenzione dell’intera politica italiana su un solo argomento: il referendum costituzionale del 4 di dicembre.
Nonostante l’apparente priorità data dai media all’imminente referendum, gli argomenti da essi trattati non sono sempre e  necessariamente relativi alla sostanza del referendum. La personalizzazione del voto in favore o contro il premier Matteo Renzi ha fatto spesso dimenticare quale fosse il reale oggetto del contendere, spostando il dibattito su altri lidi, come ad esempio il problema dei migranti, la democrazia interna al movimento 5stelle, la legge elettorale, la non convincente campagna di sensibilizzazione del fertility day, le grandi opere, la legittimità del Governo, la legittimità della riforma ecc.
Tutti questi argomenti, che con la riforma hanno ben poco a che vedere, hanno portato sì a un dibattito acceso, ma che non sempre è stato il preludio di un reale processo di approfondimento e conoscenza del quesito referendario né delle conseguenze, positive o negative, che lo stesso potrebbe comportare per il futuro dell’Italia.
Inoltre, negli orientamenti di voto gli stessi protagonisti politici hanno dato il via a quello che possiamo definire volgarmente un “gioco dell’oca”, con continui cambiamenti nella loro scelta a favore o contro i quesiti proposti. Dai primissimi esempi quali l’ex premier Silvio Berlusconi, che insieme al partito Forza Italia aveva nella sostanza contribuito all’approvazione della riforma salvo poi farsi annoverare attualmente tra i principali sostenitori del no, a Gianni Cuperlo, capo di una corrente minoritaria del PD che inizialmente era contraria al referendum e si è poi ultimamente convertito alle ragioni del SI.
Le motivazioni di entrambi gli esempi succitati sono legate a fenomeni di opportunismo politico e non hanno alcun legame reale con la materia referendaria in sé. Questa mancanza di informazione in seno ai nostri rappresentanti politici, che sia voluta o meno, comporta un’altrettanta carenza conoscitiva delle proposte referendarie che si  riversa sull’intera popolazione, la quale in certi casi non riesce più a comprendere se il voto sia su delle modifiche alla Costituzione Italiana o se sia piuttosto un voto di fiducia al governo Renzi.
Secondo i dati analizzati nel mese di Novembre dall’Istituto Demopolis, a meno di quattro  settimane dal voto, solo un italiano su dieci dichiara di conoscere pienamente la riforma. In effetti può risultare difficile il tentativo di comprensione della stessa, in quanto è arduo trovare una guida che descriva in maniera obiettiva e semplice quelle che sono le proposte referendarie. Conseguentemente, senza alcuna presunzione di successo, ci proveremo noi in questa sede.
Si premette che la Costituzione non è più la stessa votata nel 1948, infatti, fatta eccezione per i principi fondamentali che non possono essere in alcun modo modificati o abrogati, la nostra Carta Costituzionale è stata modificata ben 16 volte. Partendo dal quesito referendario cerchiamo di comprendere cosa si voglia cambiare della vecchia Costituzione e cosa si voglia introdurre con la nuova.
Benché molti concittadini vorrebbero votare “NI”, o siano ancora in forse nel decidere come votare, il quesito propone semplicemente solo due opzioni: SI o NO. Si richiede di approvare il testo della legge costituzionale concernente: “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione” come approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 Aprile 2016.
 
Il superamento del bicameralismo perfetto

Per meglio comprendere le disposizioni concernenti il superamento del bicameralismo paritario è importante spiegare cosa si intende per bicameralismo.
Quest’ultimo è un sistema parlamentare che si fonda sull’esistenza di due Camere che formano l’organo legislativo (ovvero il Parlamento). Questo sistema può essere perfetto o imperfetto. S’intende come perfetto (o paritario) il bicameralismo che assegna identici poteri alle Camere che formano il Parlamento. Camere con differenti poteri costituiscono invece il bicameralismo imperfetto.
Questo sistema prevede che i disegni di legge vengano discussi, emendati ed approvati da uno dei due rami del Parlamento, quindi passano all’altro che può approvarli in via definitiva solo senza modificare in nulla la legge. Qualora si voglia emendare la proposta di legge, invece, il testo dovrà ritornare nuovamente al ramo del parlamento che lo ha esaminato per la prima volta. Questo causa ripetuti passaggi che spesso portano alla mancata emissione di una legge o comunque alla sua tardiva emissione rispetto alle esigenze temporali previste nell’agenda governativa. Questo sistema viene dunque criticato in quanto molto lento e macchinoso nella produzione legislativa. Pertanto si è proposto il superamento e la modifica in sistema bicamerale imperfetto.
In questo sistema sono sempre presenti due Camere ma le stesse hanno poteri e livelli differenti. Di norma una ha maggiori poteri in merito alla produzione di leggi (e solitamente è quella che rappresenta l’intera collettività) e l’altra ha funzioni diverse ed integrative rispetto alla prima (questa Camera - ovvero il Senato - prevede sempre un’elezione indiretta dei suoi componenti che non rappresentano la collettività bensì le varie autonomie locali). Questo sistema garantisce un iter legislativo più rapido e snellisce la procedura per la produzione di leggi che, essendo approvate dalla sola Camera (salvo alcune eccezioni) non saranno più soggette alla ricerca del compromesso politico ed eviteranno l’abuso dei decreti legge governativi che, nonostante sia uno strumento provvisorio e straordinario, risulta essere ad oggi il principale strumento di produzione legislativa sostituendosi al procedimento legislativo ordinario.
 
Il nuovo Senato

Con il superamento del bicameralismo perfetto dovranno essere, conseguentemente, modificate anche le competenze del nuovo Senato. Quest’ultimo non voterà più la fiducia al governo, voterà principalmente riforme e leggi costituzionali (assicurando quindi una funzione di controllo sulla Camera nei temi più importanti), voterà le leggi su enti locali ed i trattati internazionali, la legge elettorale, i referendum popolari ecc.. Valuterà le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verificherà l’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori. Il Senato avrà comunque capacità di esprimere proposte di modifica anche sulle leggi che esulano dalle sue competenze.
Come viene anche indicato nel quesito referendario, vi sarà una riduzione del numero dei parlamentari. Questa riduzione concernerà proprio i senatori che passeranno, sulla scorta di quanto previsto dal nuovo art. 57, da 315 a 100 componenti. Con una riduzione a circa un terzo rispetto ai componenti attuali. Questi si divideranno in 74 consiglieri regionali, 21 sindaci (uno per territorio) e 5 membri nominati dal presidente della Repubblica.
I nuovi Senatori rappresenteranno le istituzioni regionali e non la Nazione (come adesso che sono solamente eletti “a base regionale”). I 74 consiglieri regionali saranno eletti dai Consigli regionali (verranno ripartiti per territorio, ad es. la Sardegna ne avrà 3, la Lombardia 14, la Sicilia 7, il Lazio 8). In totale saranno 44 del Nord, 17 del Centro e 34 del Sud.
Per quanto riguarda la loro elezione, grazie ad una norma ordinaria ad hoc che dovrà essere approvata, verranno nominati direttamente dagli elettori alle elezioni regionali. La riforma prevede che i senatori siano eletti “con metodo proporzionale”, “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”, e “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”.
Dunque i cittadini avranno non solo la responsabilità di eleggere i propri rappresentati locali, ma anche di indicare chi tra questi debba rappresentare il proprio territorio a livello nazionale.
La durata del mandato dei senatori coinciderà con quella dei Consigli regionali da cui sono stati eletti; inoltre, i senatori decadranno se cessa la loro carica elettiva regionale o locale. Il Senato diviene quindi organo a rinnovo parziale continuo, non sottoposto a scioglimento.
Molti si domandano che fine facciano i senatori a vita: questi durano in carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati. Rimangono invece senatori di diritto e a vita i Presidenti emeriti della Repubblica.
I fautori del SI calcolano un risparmio annuale dei costi della politica pari a 57 milioni di euro. Saranno infatti aboliti gli stipendi e rimarranno solo le diarie e i rimborsi per i trasferimenti. Gli stipendi dei Senatori saranno gli stessi riconosciuti dalla loro carica d’origine.
L’immunità, problema sollevato invece dai fautori del NO, attualmente riconosciuta a tutti i parlamentari qualora la propria Camera di appartenenza voti  contro l’autorizzazione a procedere alle indagini o simili durante il proprio mandato, rimarrà anche per i nuovi senatori essendo a tutti gli effetti assoggettati a possibili ed eventuali inchieste giudiziarie definite, ad “orologeria” da parte del potere giudiziario.
 
La soppressione del CNEL

Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro è un organo consultivo di Governo, Camere e Regioni. E’ previsto all’art. 99 della nostra attuale Costituzione ed è stato istuito con la Legge 33 del 1957.
Venne istutito per esprimere pareri e per promuovere iniziative legislative. I suoi pareri sono forniti solo su richiesta del Governo, delle Camere o delle Regioni (quindi non sono obbligatori), e anche se forniti non risultano vincolanti.
Il CNEL si compone di 65 rappresentanti e oltre a questi lavorano al CNEL 70 impiegati.
Da molti, ben prima della riforma, è sempre stato considerato un ente inutile nonché un doppione di funzioni già assegnate a Camere e Ministeri. Il suo ruolo è venuto meno anche a causa di sindacati, Confindustria e altre associazioni che hanno occupato il vuoto lasciato dall’ente svolgendone le stesse funzioni. Secondo fonti del Sole24ore il suo costo al 2014 ammontava a circa 20 milioni di euro annui. Il costo stimato dalla sua costituzione ad oggi è pari ad un miliardo di euro.
Dalla sua nascita ha prodotto solo 14 proposte di legge (ignorate dal Parlamento) e solo 96 pareri. La riforma costituzionale ne propone l’abrogazione con un conseguente risparmio per le casse statali.
 
La revisione del Titolo V della parte II della Costituzione

La Parte II del Titolo V della Costituzione prevede la ripartizione delle competenze (o meglio materie), ovvero ha lo scopo di stabilire chi deve decidere (approvare leggi) e su cosa, tra Stato e Regioni.
La ripartizione delle competenze attualmente vigente è una tripartizione, in quanto abbiamo una:
- potestà esclusiva dello Stato (materie ove solo lo Stato ha facoltà di legiferare);
- potestà concorrente (sia lo Stato che le Regioni hanno facoltà di legiferare su queste materie);
- potestà residuale delle Regioni (spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato);
Il vigente disposto dell’articolo 117 della Costituzione contiene una elencazione delle materie di competenza esclusiva dello Stato, una elencazione delle materie afferenti alla cosiddetta competenza concorrente ed una clausola di chiusura che stabilisce, testualmente, che spetti “alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.”
L’attuale struttura di ripartizione delle materie deriva da una serie di riforme del Titolo V cominciate negli anni Settanta e terminata con la riforma del 2001 che hanno comportato dei sensibili cambiamenti nella nostra Carta Costituzionale. L’ultima riforma costituzionale (votata dal popolo per via referendaria, proprio come per il referendum de qua) ha cambiato tantissimo il Titolo V, trasferendo molte delle competenze dallo Stato alle Regioni, nonché istituendo la competenza che viene definita concorrente.
La riforma proposta nel 2016 vorrebbe superare la tripartizione delle competenze, eliminando le competenze concorrenti. Dunque stabilire in maniera chiara quali sono le competenze dello Stato e quali quelle delle Regioni, affidando gran parte delle competenze concorrenti in esclusiva allo Stato. Questo è dovuto al fatto che il concorrere tra Stato e Regioni ha causato in passato numerosi conflitti costituzionali. La critica più volte mossa alla riforma del 2001, è che risulta poco solida la costruzione della competenza concorrente, che pressappoco si può riassumere così: in alcune materie, elencate puntualmente dal comma 3 dell’articolo 117, le disposizioni generali vengono adottate dallo Stato, mentre la legislazione di dettaglio è di competenza delle Regioni. Come si può comprendere già da questa breve spiegazione, la delimitazione tra le due competenze, generale e particolare, è estremamente complessa, e difficile è risultata l’applicazione di questa disposizione.
Lo spirito della riforma è quello centralizzatore come anche dimostrato dalla clausola di supremazia, ovvero se lo Stato centrale ravvisasse un interesse pubblico generale su una materia di competenza delle Regioni potrebbe richiamare a sé la materia in questione, sottraendola alle Regioni.
Un altro punto importante criticato dai riformatori è che nell’attuale Costituzione è devoluta alle Regioni la facoltà di disciplinare, in maniera concorrente, anche materie di rilevanza fondamentale per tutto il Paese quali, ad esempio: produzione, distribuzione e trasporto di energia nonché turismo. La riforma costituzionale parte da un presupposto completamente diverso: non più, come ora, devoluzione incondizionata, bensì devoluzione razionale, nel senso che più una Regione è virtuosa, più competenze possono esserle devolute, così come disciplinato dall’art. 116.
Viene dunque abrogato il comma 3 dell’art. 117 relativo alla competenza concorrente.
La scelta della “concorrenza” fra Stato e Regioni, lungi dallo spingere le pubbliche amministrazioni centrali e locali a migliorarsi a vicenda, ha generato un notevole contenzioso, con oltre 8200 leggi regionali esaminate dal Consiglio dei Ministri (che ne ha impugnate quasi 900, circa l’11%) e 800 tra sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, con lungaggini giudiziarie, costi incalcolabili, paralisi della PA, incertezza, ritardo nella realizzazione di opere e infrastrutture e fuga di imprese italiane ed estere.
Dagli anni Settanta alla riforma del 2001, le regioni hanno visto crescere in tutti i campi la loro autonomia organizzativa e di spesa senza che di pari passo crescesse la loro autonomia fiscale. Le regioni, quindi, si trovavano ad avere la possibilità di spendere sempre più denaro in un numero sempre maggiore di campi, ma nel contempo senza doversi impegnare a recuperare quel denaro.
La revisione del Titolo V non intaccherà i rapporti privilegiati delle Regioni a Statuto Speciale. Le competenze conferite a queste ultime (quali ad es. la Sardegna e la Sicilia) potranno essere modificate solo d’intesa tra ogni regione e lo Stato, conseguentemente, su questo tema, la riforma non avrà alcun effetto sulle competenze assegnate alle Regioni dotate di Statuto Speciale.
 
Abolizione delle province

Infine, con l’art. 29 della riforma costituzionale vengono soppresse tutte le diciture “dalle province” o “le province” come previste nel titolo V della Costituzione all’art. 114. Con la riforma le province vengono cancellate dalla Costituzione, atto necessario per abrogarle definitivamente.
Tutte queste razionalizzazioni rientrano nel tema più ampio previsto dal quesito, ossia “il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”.
Oltre alle tematiche previste espressamente nel quesito, vi sono ulteriori novità e modifiche alla Costituzione quali ad esempio:

LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE

Questo è un istituto legislativo che prevede la possibilità da parte dei cittadini di promuovere una proposta di legge. Questa può indirizzarsi al Parlamento o ad un ente amministrativo locale (come le Regioni) che potrà in seguito votarlo ed approvarlo. E’ un istituto di democrazia partecipativa, infatti i cittadini da soli non possono incidere sull’ordinamento giuridico se non con una successiva approvazione da parte del Parlamento o al Consiglio Regionale per trasformare la proposta in legge.
Ai sensi dell’art. 71 della Costituzione attuale sono necessarie almeno 50.000 firme da parte dei cittadini italiani. Di seguito il testo dell’attuale art. 71: “ll popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”.
La legge nazionale dovrebbe prevedere i termini per poter (o meglio dover) discutere in Parlamento la proposta di legge presentata dai cittadini. Purtroppo sul punto vi è sempre stato un vuoto normativo nella legge ordinaria e ad oggi non esiste un termine che obblighi il Parlamento a discutere e votare la proposta presentata.
Tra il 1979 ed il 2014 sono state presentate 260 proposte alle Camere, ma solo il 43% di queste è arrivato ad essere discusso in commissione parlamentare, mentre sono poche le iniziative popolari approvate e diventate in seguito legge dello Stato.
La riforma all’art. 11 nelle lettere b) e c) propone le seguenti modifiche all’art. 71 c.2 della Costituzione:
b) al secondo comma, la parola: «cinquantamila» è sostituita dalla seguente: «centocinquantamila» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari»;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione».
Nella sostanza aumenta il limite relativo al quantum delle firme necessarie per la proposta da 50mila a 150mila, ma si rende certa, con legge di attuazione successiva alla riforma (nei regolamenti parlamentari), la discussione e la deliberazione di quanto proposto.
 
REFERENDUM

Con la riforma cambierà in parte il quorum dei referendum abrogativi: il voto sarà valido se partecipa il 50% degli aventi diritto (come oggi) ma se il referendum era stato richiesto da almeno 800mila elettori, il quorum scende al 50% dei votanti delle ultime elezioni.
Nascono due nuovi tipi di referendum: quello propositivo e quello di indirizzo. Per decidere modalità ed effetti di queste consultazioni, serviranno prima una legge costituzionale e poi una legge ordinaria.
Oltre alle presenti vi sono ulteriori modifiche di minor rilevanza mediatica ma non meno interessanti, ma che purtroppo, non possiamo trattare approfonditamente come meriterebbero in un articolo che, nelle intenzioni voleva essere breve, ed è di per se già troppo lungo.
Se ne accennano solo due per sommi capi:

QUOTE ROSA

L’articolo 55 viene integrato da un nuovo comma: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”.  Rendendo dunque ufficiale a livello costituzionale la parità di genere in politica.
 
LA CONSULTA

I 5 giudici della Corte Costituzionale che oggi sono eletti dalle Camere in seduta comune saranno eletti separatamente: 3 dalla Camera e 2 dal Senato.
Nella speranza di non aver affaticato troppo i vostri occhi e avervi dato maggiori strumenti giuridici  per giudicare liberamente la riforma proposta, vi auguro un voto consapevole concludendo con una breve citazione di Walter H. Judd, politico statunitense, la cui interpretazione viene lasciata al lettore.
Spesso si dice che, in una democrazia, le decisioni sono prese a maggioranza del popolo. Naturalmente, questo non è vero. Le decisioni sono prese a maggioranza di coloro che fanno sentire la loro voce e che votano, una cosa molto diversa.

Per lo Studio Legale Internazionale
Giambrone Law
Avv. Giorgio Bianco