di Luigi De Valeri, avvocato in Roma.
 

Con il decreto legislativo 231 del 2001 il legislatore ha disciplinato la responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche non fornite di personalità giuridica secondo quanto previsto dall’art. 11 della legge delega n. 300 del 2000.

Il decreto 231, che quest’anno compie dieci anni dall’entrata in vigore, ha introdotto il principio della responsabilità penale delle società già applicato in altri stati europei, tra cui Francia, Regno Unito e Svezia, recependo la convenzione O.C.S.E  del 17 settembre 1997 sottoscritta anche dall’Italia sulla lotta alla corruzione nelle operazioni economiche internazionali.

La responsabilità definita “amministrativa” dal legislatore in realtà ha natura penale e ha origine dalla commissione di reati da parte di persone fisiche da cui sia derivato un profitto per l’ente collettivo.

Si configura quindi una responsabilità da accertarsi in sede di giudizio penale come disposto dall’art. 35 del decreto che prevede l’applicazione all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato in quanto compatibili.

La magistratura penale ha dunque il potere-dovere di verificare la sussistenza di fattispecie di reato che sono suscettibili di configurare la responsabilità amministrativa dell’ente, i cd. reati presupposto tassativamente indicati dal legislatore.

Il giudice è chiamato ad esaminare quale organizzazione interna ha adottato l’ente per ridurre il rischio della commissione dei reati, interessandosi anche delle scelte di politica aziendale dell’imprenditore.

Pertanto dal 2001 possiamo sostenere che “societas puniri potest “ e che si configura a seguito della commissione di un reato-presupposto una responsabilità di natura colposa per la società derivante dalla mancata adozione o attuazione di un valido modello di organizzazione e gestione finalizzato ad evitare la commissione di reati da parte di persone fisiche a favore dell’ente.

La normativa è finalizzata alla repressione dei reati commessi da soggetti legati a vario titolo all’ente che hanno “agito nel suo interesse o a suo vantaggio” come statuisce l’art. 5.

Va ricordato che in base all’art. 8 la responsabilità dell’ente sussiste anche se l’autore del reato non viene individuato o non è imputabile per cui non è plausibile la ricostruzione dottrinale della responsabilità ex decreto 231 come applicazione del principio della culpa in vigilando ex art. 2049 c.c. (i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti).

Si verifica dunque una convergenza tra la responsabilità della persona fisica e quella della persona giuridica realizzata con un’unica condotta e la recente giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha reputato cumulative le due responsabilità sostenendo la presenza di un nesso “pur non potendosi parlare di concorso in senso tecnico, in quanto da una sola azione criminosa scaturiscono un pluralità di responsabilità “ (Cassazione, VI sezione penale, n. 19764 del 6 febbraio 2009).

Per quanto riguarda i soggetti che possono commettere i reati rilevanti ai fini dell’applicazione del decreto dobbiamo distinguere tra coloro che ricoprono ruoli di vertice nell’azienda da quelli che sono sottoposti alla direzione o vigilanza di soggetti che occupano posizioni apicali.

Per i reati commessi da coloro che sono ai vertici vige la presunzione di responsabilità anche dell’ente mentre per i secondi l’ente sarà ritenuto responsabile solo se la commissione del reato sia stata resa possibile dal mancato adempimento degli obblighi di direzione e vigilanza.

Quando l’illecito è commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente la volontà di commetterlo da parte dei vertici si ritiene coincidere con le decisioni gestionali dell’azienda che avrebbe in tal caso adottato una linea imprenditoriale finalizzata all’illecito.

Tuttavia questa presunzione è ampiamente mitigata dalla circostanza esimente prevista dall’art. 6 del decreto per cui l’ente può avvalersi della prova liberatoria dimostrando l’efficace applicazione di un valido modello di organizzazione e gestione o la evidente volontà del soggetto in posizione apicale di eluderlo.

Il legislatore ha comunque previsto che, anche qualora si accerti l’elusione fraudolenta da parte dell’amministratore del modello di organizzazione, il profitto del reato, di cui potrebbe giovarsi la società, venga comunque confiscato.

Una decisione di evidente interesse, emessa dal Tribunale di Milano, VIII sezione, in un procedimento civile in tema di azione sociale di responsabilità ex art. 2393 C.C. nei confronti dell’amministratore di una società per azioni è la sentenza n. 1774 del 13 febbraio 2008, in un procedimento avente ad oggetto la richiesta di risarcimento di danni azionata da una S.p.A., anche per prelievi indebiti dalle casse sociali, che aveva patteggiato e dovuto versare una sanzione pecuniaria rilevante, nei confronti del proprio ex presidente del C.d.A. e amministratore delegato, processato per reati di corruzione, turbativa d’asta e truffa il quale aveva patteggiato una condanna a pena detentiva, basandosi sulla circostanza che questi non aveva predisposto un adeguato modello organizzativo e gestorio.

Il Tribunale ha parzialmente accolto la domanda riconoscendo una concorrente responsabilità della società nella produzione del danno derivante anche dall’azione collusoria di altri organi decisionali e di controllo.

La prima decisione che ha riconosciuto l’idoneità di un modello organizzativo ad escludere la responsabilità amministrativa di un ente, applicando la causa esimente dell’art. 6 del decreto 231, dichiarando la non punibilità di una società, è la nota sentenza del G.I.P del Tribunale di Milano del 17 novembre 2009 relativa al caso Impregilo che aveva visto imputati il presidente e l’amministratore delegato per il reato di aggiotaggio, sanzionato dall’art. 501 C.P. “rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio.”

Costoro nel dare informazioni alla stampa rassicurando il mercato e “abbellendo” il bilancio avevano eluso le norme di comportamento contenute nel modello organizzativo che prevedeva l’obbligo di dare informazioni complete e veritiere secondo una procedura che affidava agli uffici interni preposti alle valutazioni finanziarie l’elaborazione di comunicati da sottoporre poi all’approvazione dei vertici societari.

In particolare si legge in questa decisione del G.I.P. che “l’ente aveva tempestivamente adottato il modello organizzativo previsto dal decreto 231 nei termini stabiliti e secondo le linee guida indicate da Confindustria … il modello è stato adottato prima della commissione degli illeciti contestati agli imputati … nel giudicare la responsabilità della società, per non cadere in una sorta di responsabilità oggettiva occorre verificare l’efficacia del modello con valutazione ex ante e non ex post rispetto agli illeciti commessi dagli amministratori … non avrebbe senso ritenere inefficace un modello organizzativo per il solo fatto che siano stati commessi degli illeciti da parte dei vertici dell’ente in quanto ciò comporterebbe l’inapplicabilità della norma prevista dall’art. 6.”

Quindi il G.I.P. di Milano ha ritenuto che i comportamenti illeciti non erano frutto di un errato modello organizzativo ma erano da addebitare ai vertici societari che lo avevano eluso, dichiarando la non punibilità dell’ente.

Passando alla più recente giurisprudenza in materia vi sono tre sentenze della II e VI sezione penale della Cassazione pubblicate nel 2010 e l’ultima a gennaio di quest’anno che reputo di evidente interesse in materia di procedimenti ex decreto 231.

1)    Cassazione, VI sezione penale, sentenza 31 maggio 2010 n. 20560.

(Artt. 15 e 45, comma 3, D.Lgs. 231/01, il commissario giudiziale, misura sostitutiva della sanzione cautelare interdittiva).

E’ relativa ad un procedimento avviato presso il tribunale di Potenza nei confronti di una società in nome collettivo derivante da un accusa di corruzione, reato per cui era imputato l’amministratore unico in relazione all’aggiudicazione di un appalto indetto da un pubblico concessionario.

Il G.I.P. aveva nominato ai sensi dell’art. 45 terzo comma del decreto 231 un commissario giudiziale per la durata di un anno in luogo di una misura cautelare interdittiva in quanto sussistevano gravi indizi in ordine alla responsabilità della società per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 del decreto 231 che prevede i reati di concussione e corruzione.

Il Tribunale aveva ritenuto sussistere i gravi indizi sia in relazione al reato presupposto sia con riferimento agli altri elementi dell’illecito amministrativo escludendo che il modello organizzativo adottato dalla società, comunque successivo alla commissione del reato, fosse idoneo ad evitare la reiterazione degli illeciti.

La società proponeva ricorso per Cassazione adducendo tra l’altro il difetto delle esigenze cautelari. I giudici della Suprema Corte hanno ricordato che l’art. 45 richiede l’esistenza di un concreto pericolo di commissione di analoghi fatti illeciti e il pericolo deve derivare da elementi fondati e specifici.

L’esigenza cautelare deve emergere dall’esame di due elementi, uno oggettivo relativo alle specifiche modalità del fatto e l’altro di natura soggettiva attinente alla personalità dell’ente.

Nel primo criterio oggettivo il giudice è chiamato a valutare la gravità dell’illecito considerando il numero delle violazioni commesse nonché gli elementi indicati dall’art. 13 del decreto 231, tra cui il profitto di rilevante entità e le gravi carenze organizzative, mentre nel secondo criterio soggettivo va considerata la personalità dell’ente attraverso una valutazione della sua organizzazione, la politica d’impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza.

L’ente che non ha attuato modelli organizzativi idonei a prevenire i reati è un soggetto pericoloso nell’ottica cautelare.

Nel caso di specie oltre alle gravi condotte poste in essere dall’amministratore unico della società vi era il totale depotenziamento degli altri organi societari incapaci di esercitare qualsiasi forma di vigilanza sull’amministratore che era l’unico dominus delle scelte strategiche della società.

I giudici hanno rilevato che l’accentramento dei poteri nell’A.U. costituisce il rischio concreto di reiterazione dei reati in considerazione delle iniziative imprenditoriali di costui che aveva in una sorta di libro paga politici e pubblici ufficiali che gli consentivano di avere accesso ad informazioni riservate e ricevere favori e ciò gli permetteva di ottenere l’aggiudicazione illecita di appalti e commesse pubbliche.

La società aveva poi provveduto a nominare un institore al posto dell’A.U. allo scopo di far cessare le esigenze cautelari e la difesa contestava l’ordinanza impugnata anche su questo assunto.

I giudici hanno però rilevato che l’esclusione del periculum richiesto dall’art. 45 con l’estromissione  o la sostituzione degli amministratori coinvolti la cd. disqualification deve evidenziare il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione con l’obiettivo di evitare il rischio del reato.

Nel caso particolare la sostituzione era più apparente che reale ponendo in rilievo come l’institore, ovvero ex art. 2203 C.C. e ss. il preposto dal titolare all’esercizio di un impresa commerciale i cui poteri sono indicati nella procura rilasciata dal preponente, pur essendo dotato di autonomia operativa è subordinato gerarchicamente alle determinazioni dell’imprenditore potendo essere sempre revocato e dunque con l’institore non può dirsi che l’amministratore unico fosse stato realmente estromesso dalla gestione della società anche perché costui rimaneva ancora amministratore e gestiva il 50% delle quote della società.

I giudici della VI sezione hanno esaminato ed accolto due motivi di ricorso  della società relativi alla nomina del commissario che avrebbe dovuto essere limitata al solo settore interessato dagli illeciti e la contestata violazione dell’art. 15 del decreto 231 per la mancata indicazione dei poteri del commissario.

La Suprema Corte ha ribadito che l’art. 15 prevede una sorta di espropriazione temporanea dei poteri direttivi e gestionali dell’ente che vengono assunti dal commissario nominato dal giudice al fine di assicurare la prosecuzione dell’attività e dunque tutelare l’occupazione.

La nomina vera e propria del commissario avviene solo in sede di esecuzione, art. 79 decreto 231, quando deve essere eseguita la sentenza che dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente ed è previsto che il commissario riferisca sull’andamento della gestione al giudice dell’esecuzione e al PM concludendo con una relazione finale il suo incarico.

La sostituzione della sanzione si giustifica solo se l’attività avviene secondo legalità organizzativa che non favorisca il ripetersi degli illeciti e ciò comporta nell’ambito dei compiti indicati dal giudice che il commissario adotti e attui modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello che si è verificato.

La difesa aveva chiesto la limitazione dell’attività commissariale alle commesse relative agli appalti pubblici gestiti dall’impresa e secondo i giudici la circostanza che la società svolga solo attività edilizia non è ragione sufficiente  per negare la possibilità di limitare ad un settore di attività dell’ente la misura sostitutiva della nomina del commissario.

Dunque è possibile un intervento meno pesante del commissariamento dell’intera attività della società circoscrivendolo al fronte aziendale più coinvolto dal rischio del reato.

  

2 – Cassazione, sez. II penale, sentenza n. 28699 del 21.7.2010.

La seconda decisione è relativa ad un procedimento che ha visto coinvolta una struttura ospedaliera specializzata che operava in forma di società per azioni partecipata al 49% da capitale privato e al 51% da capitale pubblico.

Il reato contestato era la truffa e il GIP del tribunale di Belluno aveva disposto il sequestro preventivo di oltre due milioni di euro sul bilancio di due S.p.A, la struttura ospedaliera ed una sua partecipante.

La sezione riesame del Tribunale di Belluno aveva annullato la misura cautelare sul presupposto dell’inapplicabilità del decreto 231 all’istituto in quanto ente pubblico ed il P.M. aveva presentato ricorso in Cassazione contro questa ordinanza.

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso ricordando che sono esonerati dall’applicazione del decreto 231 solo lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici per cui l’art. 1 va interpretato nel senso che la natura pubblicistica dell’ente non è da sola sufficiente per l’esonero dalla responsabilità ex decreto 231 dovendo aggiungersi la condizione che l’ente non svolga attività economica.

Nel caso in questione vi era l’attività economica svolta dall’istituto che riveste forma di società per azioni costituita quindi al fine di dividerne gli utili a prescindere dalla sua destinazione o realizzazione.

La difesa dell’istituto sosteneva l’inapplicabilità della disciplina del decreto 231 in quanto la società era, a suo dire, qualificabile non solo come ente pubblico ma anche come ente, struttura ospedaliera specializzata, chiamato a svolgere funzioni di carattere costituzionale in relazione alla tutela della salute.

La Suprema Corte respingeva questo assunto argomentando che la ratio dell’esenzione di cui all’art. 1 del decreto è preservare enti rispetto ai quali le misure cautelari e le sanzioni pecuniarie causerebbero la sospensione di funzioni indefettibili negli equilibri costituzionali il che non si configura per l’attività di impresa e comunque non si può qualificare come di rilievo costituzionale la funzione di una S.p.A. che è sempre quella di realizzare un utile economico.

Il ricorso del P.M. è stato accolto e annullato il provvedimento del tribunale del riesame con il rinvio al tribunale di Belluno.

3 – Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza 5 ottobre 2010-22 gennaio 2011 n. 2251.

In materia di costituzione di parte civile la giurisprudenza si è era inizialmente pronunciata nella maggior parte dei casi per l’inammissibilità ma a partire dal 2008 si sono succedute alcune decisioni favorevoli dei G.I.P di Milano e di Napoli, ora una recente sentenza della Cassazione ha fatto chiarezza in materia nel senso dell’inammissibilità.

E’ una recentissima decisione della VI sezione pubblicata a gennaio nell’ambito di un procedimento in cui risultavano imputate varie persone e società per reati di associazione a delinquere, corruzione, appropriazione indebita,oltre che per illeciti amministrativi ex decreto 231 dove il GUP di Milano aveva applicato una sentenza di patteggiamento condannando tra l’altro una società oltre alla pena pecuniaria, divieto di pubblicizzare beni e servizi per un anno e confisca di somme di denaro anche al pagamento delle spese ed onorari in favore delle parti civili costituite, in questo caso alcune S.p.A. tra cui l’E.N.I.

La società condannata ricorreva in Cassazione chiedendo tra l’altro l’annullamento della sentenza nella parte in cui aveva pronunciato la condanna alle spese in favore delle parti civili costituite.

I giudici della VI sezione sono partiti dalla constatazione che manca ogni riferimento espresso alla parte civile nel testo del decreto 231 e ciò costituisce una scelta del legislatore che ha voluto operare una deroga alla regolamentazione del C.P.P. ma, oltre a questo il decreto contiene alcuni elementi specifici che confermano la volontà di escludere la parte civile dal processo.

Vi è l’art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente la limita all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria senza fare riferimento alle obbligazioni civili ma soprattutto l’art. 54 relativo alla regolamentazione del sequestro conservativo.

Nel codice di procedura penale l’art. 316 prevede questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta dall’erario sia delle obbligazioni civili derivanti dal reato attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro.

Viceversa il decreto 231 all’art. 54 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria, spese del procedimento e somme dovute all’erario ed il sequestro può essere richiesto solo dal P.M.

L’ampliamento della competenza del giudice penale ad occuparsi anche dell’azione civile avrebbe richiesto una esplicita previsione di legge e a questo proposito i giudici rilevano come l’art. 111 della Costituzione pretende il rispetto del principio di stretta legalità quale criterio direttivo di tutta la disciplina del processo penale e dunque non sarebbe possibile ricorrere ad un interpretazione analogica dell’art. 185 C.P. e dell’art. 74 C.P.P.

La scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti secondo i giudici trova una ragionevole spiegazione anche sotto il profilo sostanziale non essendo individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo diverso da quello prodotto dal reato.
 

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