La sentenza in esame si inscrive nel solco della più recente indirizzo assunto dalla Corte costituzionale, volto ad estendere l’accesso ai riti “premiali” nel caso di nuove contestazioni dibattimentali.
Infatti, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito, sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992, la questione era stata rigettata dalla Corte, sulla base di un duplice ordine di argomentazioni: da un lato, facendo leva sulla indissolubilità del binomio “premialità-deflazione”, dall’altro, argomentando che modifica dell’imputazione e contestazione suppletiva costituiscono eventualità non infrequenti in un sistema incentrato sulla formazione della prova in dibattimento, il cui “rischio”, pertanto, cade sull’imputato.
Un primo spiraglio si aprì con la sentenza n. 265 del 1994, in rapporto alle contestazioni dibattimentali “tardive”, basate su elementi già acquisiti nel corso delle indagini, finalizzate a porre rimedio ad errori o incompletezze nella formulazione dell’imputazione originaria. In un caso del genere, non poteva parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento» da parte dell’imputato, sicché la Corte dichiarò costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non consentono all’imputato di richiedere il “patteggiamento” relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestato in dibattimento, allorché, la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
La medesima sentenza n. 265 del 1994 dichiarò inammissibile l’omologa questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito e alla disciplina all’epoca vigente, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – pure riscontrato – spettasse in via esclusiva al legislatore.
Dopo quindici anni, con la sentenza n. 3003 del 2009 la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al Giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente e al fatto diverso oggetto di contestazione dibattimentale, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.
La Corte valorizzò le radicali modifiche introdotte, con la L. 16 Dicembre 1999, n. 479, che avevano interessato la disciplina del rito abbreviato, il cui accesso non era più condizionato al consenso del p.m. e per il quale si prevedeva un meccanismo di integrazione probatoria. Orbene, proprio le sopravvenute modifiche legislative e le successive pronunce della Corte emesse in relazione al mutato quadro normativo sono all’origine del revirement giurisprudenziale.
Quanto al nesso, ritenuto inscindibile, tra premialità e deflazione, la Corte ha evidenziato che «la logica dello “scambio” fra sconto di pena e risparmio di energie processuali» deve «comunque, cedere di fronte all’esigenza di ripristinare la pienezza delle garanzie difensive e l’osservanza del principio di eguaglianza», tanto più che, in ogni caso, l’accesso al giudizio abbreviato per il reato concorrente contestato in dibattimento risulta, comunque, idoneo a produrre un – sia pure attenuato - effetto di economia processuale.
Quanto alla libera assunzione, da parte dell’imputato, del “rischio” del dibattimento, la Corte ha sottolineato che «il criterio della “prevedibilità” non appare, comunque, idoneo a giustificare un diverso e meno favorevole trattamento delle nuove contestazioni “fisiologiche”, rispetto a quello riservato alle nuove contestazioni “patologiche”». In particolare, il vulnus ai diritti di difesa risulta essere più marcato proprio per effetto delle «modifiche dell’imputazione conseguenti a novità probatorie emerse ex abrupto nel corso dell’istruzione dibattimentale, che non da quelle basate su elementi già acquisiti al termine delle indagini preliminari», in relazione alle quali, grazie all’avviso ex art. 415-bis c.p.p., ha avuto la possibilità di valutare.
Inoltre, per effetto delle novità introdotte al giudizio abbreviato dalla L. n. 279 del 1999, se, per un verso, è venuta meno quella “immunizzazione” dal rischio della modifica del tema d’accusa, per un altro la nuova disposizione dell’art. 441-bis c.p.p. «assurge ad indice di sistema, riguardo al fatto che, quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire».
I diritti conseguenti alle nuove contestazioni non possono essere subire limitazione in relazione al momento o alla fase processuale in cui intervengono; pertanto, «se all’accusa originaria ne viene aggiunta un’altra, sia pure connessa, non possono essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni».
Sotto altro profilo, il ricorso allo strumento della contestazione suppletiva costituisce, per il pubblico ministero una semplice facoltà, alternativa rispetto all’esercizio separato dell’azione penale; pertanto, la possibilità, per l’imputato, di ricorrere al giudizio abbreviato in ordine al reato connesso emerso dal dibattimento finirebbe per dipendere da una scelta discrezionale e insindacabile dell’organo della pubblica accusa.
Di qui, dunque, la declaratoria di illegittimità costituzionale, per effetto della quale l’imputato, cui viene contestato un reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, può decidere se fare richiesta di giudizio abbreviato.