La Legge Cirinnà produrrà svariati effetti anche sul versante penalistico dell’ordinamento. E si tratterà in buona misura di effettiper così dire indiretti e non ponderati. Chiariamo subito: il disegno di legge , è privo di una componente penalistica, limitandosi soltanto, nell’art. 1, co. 38, a prevedere che “i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. Senonché, come si dirà, nel disciplinare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, cercando di realizzare un’equiparazione ad ampio raggio con le persone legate dal matrimonio, quanto a tutela di diritti e rafforzamento di obblighi nascenti dal vincolo, la Legge Cirinnà (art. 1, co. 20) finisce forse inconsapevolmente per dettare una disciplina che ha immediati riflessi sul diritto e sul processo penale. L’impressione, come cercheremo di mostrare, è che quella disciplina, non concepita nella prospettiva dell’impatto sul sistema penale, sia inadeguata a realizzare il necessario coordinamento e non comporti, quanto meno appieno, un ammodernamento del sistema a questo punto ineludibile, una volta che la Legge Cirinnà sarà approvata.
Eppure, è arcinoto, il nostro codice penale risale al 1930, e solo in anni recenti sono state episodicamente introdotte alcune disposizioni che danno rilievo alla convivenza more uxorio. Emblematico è il caso del classico delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), trasformato nel 2012 in ‘maltrattamenti contro familiari e conviventi’. Ed è altresì noto come, in assenza di interventi del legislatore, il giudice penale non possa adeguare la norma alla mutata realtà sociale dei rapporti di coppia, trovando un ostacolo insuperabile ora nel divieto di analogia (quando l’interpretazione evolutiva produrrebbe effetti in malam partem), ora nel carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece, di effetti in bonam partem). Il pensiero corre, a tale ultimo proposito, ad annose questioni: l’estensione ai conviventi di fatto della scusante di cui all’art. 384 c.p., in tema di delitti contro l’amministrazione della giustizia, ovvero della causa di non punibilità ex art. 649 c.p., in materia di delitti contro il patrimonio.
Dottrina e giurisprudenza da tempo sollecitano un intervento del legislatore, volto ad ammodernare la disciplina penale mettendola al passo con quella stessa mutata realtà sociale che fa da premessa, oggi, alla Legge Cirinnà. In questa direzione un autorevole invito si deve, ancora di recente, alla Corte costituzionale, che nell’ottobre del 2015, in una pronuncia di inammissibilità relativa all’art. 649 c.p. ha ricordato che “spetta al ponderato intervento del legislatore…l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare” (Corte cost. n. 223/2015, in questa Rivista, con nota di Leo).
Senonché, se è vero – come sembra e come già accaduto in occasione del precedente passaggio parlamentare – cheil Governo porrà nuovamente la questione di fiducia, blindando l’approvazione della Legge a testo invariato, è pressoché certo che l’auspicato intervento del legislatore sul versante penalistico della riforma mancherà, e che la Legge Cirinnà, agli occhi dei penalisti, rappresenterà un’occasione persa. A meno che – ed è questo il nostro auspicio – il legislatore, a riforma approvata, non metta subito in cantiere un’altra e complementare riforma, volta a disciplinare lo ‘statuto penale’ – e processuale penale – delle unioni civili e delle convivenze di fatto. L’occasione potrebbe essere data, quanto alle unioni civili, dal decreto delegato che, ai sensi dell’art. 1, co. 28, lett. c) del d.d.l., il Governo dovrà adottare entro sei mesi per introdurre “modificazioni e integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti”. Manca invece, in relazione alle convivenze di fatto, un’analoga delega legislativa, alla quale, nell’immediato futuro, sarebbe a nostro avviso opportuno pensare.
Si tratta in sostanza di passare in rassegna tutte le numerose disposizioni penalistiche che danno rilievo alla condizione di coniuge, e di valutare se vi sono ragioni per estendere le disposizioni medesime alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso e/o ai conviventi di fatto. In attesa di un eventuale intervento del legislatore, a legge Cirinnà approvata l’interprete dovrà da subito confrontarsi con complessi problemi interpretativi, che in questo lavoro a primissima lettura proviamo a ipotizzare e a squadernare davanti agli occhi del lettore.
Vediamo allora quali scenari apre, agli occhi del penalista, la nuova disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto.
 Unioni civili tra persone dello stesso sesso. Ai sensi dell’art. 1, co. 2 del d.d.l. Cirinnà “due persone dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”. La disposizione indubbiamente più rilevante, in punto di possibili riflessi penalistici, è contenuta nell’art. 1, co. 20 del d.d.l.: “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non sui applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente dalla presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 134. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
Così congegnata, la disposizione è in grado di ripercuotere i propri effetti sulle leggi penali, sostanziali e processuali, nella sola misura in cui si possa dire che l’estensione della relativa disciplina vada nella direzione della tutela dei diritti o dell’adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile. Un compito, quest’ultimo, tutt’altro che facile per l’interprete, che non trova nel d.d.l. Cirinnà alcuna indicazione a riguardo. Lo ha notato – durante i lavori parlamentari attualmente in corso alla Camera – il Comitato per la legislazione, che in un proprio parere del 12 aprile 2016 osserva: “al comma 20, che, con norma che sembrerebbe avere carattere generale, estende alle parti delle unioni civili i diritti e i doveri derivanti dal rapporto di coniugio ad eccezione di quelli disciplinati nel codice civile e non espressamente richiamati nella legge n. 184 del 1983 in materia di adozioni, parrebbe opportuno precisare se con il suddetto rinvio si intenda richiamare anche le norme in malam partem derivanti dalla qualità di coniuge (a mero titolo esemplificativo, si consideri l’articolo 577 del codice penale, che, nel caso di omicidio, prevede un aumento di pena se il reato è stato commesso contro il coniuge, ovvero le diverse normative che pongono quale causa di incompatibilità nell’esercizio di una professione o della funzione assegnata il rapporto di coniugio con un’altra parte) e, in caso affermativo, individuare le suddette norme in maniera puntuale“.
Il parere del Comitato per la legislazione ci sembra del tutto condivisibile; e lo è ancor più proprio con riferimento alle disposizioni del diritto penale, che devono soddisfare il canone della precisione non per mere ragioni di opportunità, ma per precetto costituzionale (il riferimento, come è noto, è al principio di precisione, corollario del principio di legalità ex art. 25, co. 2 Cost.). Il d.d.l. Cirinnà – ovvero il decreto delegato che il Governo dovrà adottare ai sensi dell’art. 1, co. 28, lett. c) del d.d.l. stesso – dovrebbe allora individuare puntualmente le disposizioni penalistiche che intende estendere alle unioni civili tra persone dello stesso sesso; e dovrebbe farlo, a noi pare, non solo in relazione alle disposizioni che producono effetti in malam partem, ma anche, opportunamente, in relazione alle disposizioni che producono effetti in bonam partem. Prima e in assenza dell’auspicato intervento normativo sarà inevitabilmente il giudice penale a doversi districare tra molteplici dubbi interpretativi che, di seguito, passiamo in rassegna. L’elenco dei problemi, come il paziente lettore potrà costatare, è impressionante.

A) Possibili effetti in malam partem
 
  • Costituzione di una posizione di garanzia ex art. 40, co. 2 c.p. L’art. 1, co. 11 del d.d.l. stabilisce che “dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione”. La disposizione istituisce pertanto una posizione di garanzia analoga a quella che, per i coniugi, trova la sua fonte nell’art. 143 c.c. Ciascuna delle parti dell’unione civile potrà essere chiamata a rispondere dell’omicidio o delle lesioni personali procurate all’altra parte attraverso una condotta omissiva, dolosa o colposa (si pensi alla mancata prestazione di cure o alimentazione al partner che ne sia bisognoso, per qualsiasi ragione).
  • Bigamia (art. 556 c.p.). Tra le disposizioni penalistiche che si riferiscono al “matrimonio” figura anzitutto l’art. 556 c.p. che punisce il fatto di chiunque, essendo legato da un “matrimonio avente effetti civili” ne contrae un altro, pur avente effetti civili; ovvero il fatto di chi, non essendo coniugato, contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili. Domanda: per effetto dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà la bigamia sarà configurabile anche in relazione alle unioni civili tra persone dello stesso sesso? La risposta ci sembra debba essere negativa: l’estensione dell’ambito applicativo dell’incriminazione, infatti, non andrebbe nella direzione di un rafforzamento della tutela dei diritti o dell’adempimento degli obblighi nascenti dall’unione civile, come richiede l’art. 1, co. 20 del d.d.l. (salva, forse, l’ipotesi aggravata ex art. 556, co. 2 c.p.: fatto commesso inducendo in errore l’altro nubendo). Senonché, a nostro avviso, sarebbe stato opportuno, nel dibattito che ha accompagnato la Legge Cirinnà, porsi l’interrogativo della sorte dei “delitti contro la famiglia” e, in particolare, di quelli “contro il matrimonio”, compresa la bigamia, che ancora figurano nel Titolo XI del Libro II del codice penale. Con sensibilità meramente civilistica il d.d.l. si limita ad annoverare la sussistenza di un precedente vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso tra le cause che impediscono la costituzione dell’unione stessa. Non si pone però il problema né della rilevanza penale di una ‘bigamia’ tra persone dello stesso sesso, né, a ben vedere, il problema, preliminare, della perdurante ragionevolezza dell’incriminazione della bigamia tra persone unite dal matrimonio; ragionevolezza della quale, a noi pare, dopo l’entrata in vigore della Legge Cirinnà sarà lecito dubitare, alla luce dell’art. 3 Cost.
  • Induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.). Problemi analoghi si porranno in relazione al delitto in esame, che sanziona penalmente, in caso di annullamento del matrimonio, la condotta fraudolenta realizzata occultando al coniuge l’esistenza di un impedimento diverso dal precedente matrimonio (per le cause impeditive dell’unione civile tra persone dello stesso sesso v. l’art. 1, co. 4 del d.d.l.). Sebbene l’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice sia dubbia, a noi pare difficile escludere un profilo di tutela privatistico, che riguarda la libertà di autodeterminazione del nubendo e, ciò che più conta alla luce dell’art. 1, co. 20 del d.d.l., gli interessi connessi oggi al vincolo matrimoniale e, un domani, all’unione civile tra persone dello stesso sesso.
  • Violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 c.p.). Analogo discorso ci sembra debba essere fatto in relazione al reato in esame, che sanziona chi si sottrae agli “obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge” abbandonando il domicilio domestico “o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie”. Orbene, gli obblighi in questione, compreso quello di coabitazione, sono stabiliti in relazione alle unioni civili dall’art. 1, co. 11 del d.d.l. Cirinnà. Sembra allora che l’incriminazione in esame – presidiando l’adempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio – dovrà estendersi, in forza dell’art. 1, co. 20 del d.dl., alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Dubbi potrebbero peraltro residuare, in assenza di un abbandono del domicilio domestico, in relazione alla condotta “contraria all’ordine o alla morale delle famiglie”: è questo un concetto impreciso, che promette di esserlo ancor più dopo la Legge Cirinnà.  
  • Maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.). E’ pacifico che la disposizione, che già oggi si applica in relazione al maltrattamento dei familiari e delle persone “comunque conviventi”, sarà applicabile in relazione alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
  • Abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.). Il quarto comma dell’art. 591 c.p. configura come aggravante la realizzazione, da parte del coniuge, dell’abbandono dell’altro coniuge, incapace di provvedere a se stesso per malattia, vecchiaia o altra causa. Presupposto dell’incriminazione è l’obbligo di prendersi cura del coniuge; obbligo che il d.d.l. Cirinnà pone ora a carico delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso e che l’art. 591, co. 4 c.p., a noi pare, concorre a rafforzare.
  • Omicidio aggravato (art. 577 c.p.). E’ l’ipotesi considerata dal Comitato per la legislazione, nel sopra citato parere. La disposizione prevede che l’omicidio doloso sia aggravato – e punito con la reclusione da 24 a 30 anni (anziché con la reclusione da 21 a 24 anni) – se il fatto è commesso contro il coniuge. L’aggravante sarà configurabile, un domani, in caso di omicidio della persona dello stesso sesso legata all’agente da un’unione civile? La risposta ci sembra debba essere negativa: non può dirsi, infatti, a mente dell’art. 1, co. 20 del d.d.l., che la norma che incrimina l’omicidio sia posta a tutela dei diritti o a rafforzamento degli obblighi derivanti dall’unione civile stessa (a meno di non voler sostenere che l’obbligo di assistenza materiale e morale comprenda o presupponga quello di non uccidere il partner!). Senonché, a ben vedere, ben si potrebbe intervenire direttamente sull’art. 577 c.p. per parificare, quanto a conseguenze sanzionatorie, l’omicidio del coniuge a quello della parte dell’unione civile.
  • Sequestro di persona (art. 605 c.p.) e sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.). L’art. 605, co. 2 c.p. prevede un’aggravante se il fatto è commesso contro il coniuge. Anche in questo caso ci sembra che, contro l’estensione dell’aggravante alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, valgano considerazioni analoghe a quelle esposte in relazione all’omicidio. Quanto poi al sequestro di persona a scopo di estorsione, ci si potrebbe domandare se il sequestro dei beni utilizzabili per pagare il riscatto, che deve essere disposto nei confronti del coniuge, lo debba essere anche nei confronti delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La riposta sembra anche in questo caso negativa, atteso che la misura, prevista dall’art. 1, co. 1 del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, non è finalizzata alla tutela dei diritti o all’adempimento degli obblighi nascenti dall’unione stessa, come richiede l’art. 1, co. 20 del d.d.l.
  • Induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (artt. 3, 4 l. n. 75/1958). L’art. 4, co. 1, n. 3 della Legge Merlin prevede un aggravante qualora i delitti in esame siano commessi dal “marito”. L’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà sembrerebbe comportare l’estensione dell’aggravante al partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (‘marito’, infatti, è agli effetti della disciplina in esame termine equivalente a ‘coniuge’). A sostegno di questa soluzione, senza forse sconfinare nel divieto di analogia a sfavore del reo, potrebbe (?) valorizzarsi il profilo degli obblighi di assistenza materiale e morale, con il cui “pieno adempimento” mal si conciliano, verosimilmente, condotte di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. 
  • Violenza sessuale aggravata (art. 609 ter c.p.) e stalking(art. 612 bis c.p.). Gli artt. 609 ter, co. 5 quater e 612 bis, co. 2 prevedono come aggravante, rispettivamente della violenza sessuale e degli atti persecutori, la realizzazione del fatto contro il coniuge (anche separato o divorziato). In questo caso, tuttavia, il problema dell’estensione delle aggravanti all’ipotesi del fatto commesso contro il partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso non si pone atteso che le citate disposizioni già contemplano quale possibile vittima del reato aggravato, accanto al coniuge, la persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. (Un’analoga disposizione – che configura come aggravante la realizzazione del fatto da parte del “coniuge o convivente” – è prevista dall’art. 602 ter, co. 6 c.p. in relazione ai delitti di prostituzione minorile e pornografia minorile nonché, se realizzati nei confronti di minorenni, in relazione ai delitti riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). Il delitto può essere commesso, ai sensi dell’art. 323 c.p., dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che omettendo di astenersi in presenza di un interesse di un “prossimo congiunto” intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. La definizione legale di “prossimo congiunto”, agli effetti della legge penale, è contenuta nell’art. 307, co. 4 c.p., che vi ricomprende il coniuge. Approvata la Legge Cirinnà sarà configurabile un abuso d’ufficio per omessa astensione in presenza di un interesse del partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso? La risposta sembra anche in questo caso negativa, non essendo la disposizione finalizzata a tutelare diritti e a rafforzare obblighi nascenti dall’unione stessa, come richiede l’art. 1, co. 20 del d.d.l. Ciò non toglie che il legislatore ben potrebbe e potrà intervenire sull’art. 323 c.p. estendendo l’ambito applicativo della norma nel senso anzidetto e, in modo corrispondente, la tutela degli interessi della pubblica amministrazione.
 
 B) Possibili effetti in bonam partem
Viene per lo più in rilievo la possibile estensione alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, con effetti in bonam partem, di circostanze attenuanticause di esclusione della punibilità e scusanti; tutte disposizioni contemplate in modo tassativo, in relazione alle quali quella estensione è preclusa dal divieto di analogia.
 
  • Procurata evasione (art. 386, co. 4, n. 1 c.p.). Si prevede un’attenuante per il prossimo congiunto (compreso pertanto il coniuge) che procura o agevola l’evasione di una persona legalmente arrestata o detenuta per un reato. L’estensione dell’attenuante al partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso sembra da escludere: la disposizione non è infatti volta a tutelare diritti o rafforzare obblighi nascenti dalle unioni stesse, come richiede l’art. 1, co. 20 del d.d.l.
  • Sottrazione consensuale di minorenni (art. 573, co. 2 c.p.). La legge prevede un’attenuante se il fatto è commesso “per fine di matrimonio”. L’estensione dell’attenuante all’ipotesi in cui il fatto sia realizzato col fine di costituire un’unione civile tra persone dello stesso sesso sembra da escludere: anche in questo caso, infatti, la disposizione non è infatti volta a tutelare diritti o rafforzare obblighi nascenti dalle unioni stesse, come richiede l’art. 1, co. 20 del d.d.l.
  • Delitti contro il patrimonio (art. 649 c.p.). Si tratta della già citata causa di esclusione della punibilità per i delitti contro il patrimonio commessi a danno del coniuge non legalmente separato (se il coniuge è invece legalmente separato è prevista, per i delitti stessi, la procedibilità a querela). Sono punibili il furto, piuttosto che la truffa, realizzati nei confronti del partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso?La risposta sembra affermativa, dovendosi escludere l’estensione applicativa della causa di esclusione della punibilità. Per quanto la ratio dell’art. 649 c.p. possa essere controversa, la disposizione non è certo volta a tutelare diritti o a presidiare l’adempimento di obblighi nascenti dall’unione civile, come ancor prima dal matrimonio. Senonché l’approvazione della Legge Cirinnà dovrebbe rappresentare oggi, per il legislatore, una storica occasione per riflettere sulla perdurante attualità delle ragioni politico-criminali di opportunità (ispirate all’unità della famiglia) che stanno alla base della causa di non punibilità in esame, nonché sul relativo ambito di applicazione (eventuale estensione alle parti dell’unione civile e/o ai conviventi more uxorio).
  • Delitti contro l’amministrazione della giustizia (art. 384 c.p.). Viene in considerazione la scusante accordata – con garanzia di impunità – a chi commette numerosi delitti contro l’amministrazione della giustizia (tra gli altri: omessa denuncia di reato, falsa testimonianza, autocalunnia, false informazioni al p.m., falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale, favoreggiamento personale) essendovi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto (compreso il coniuge) da un grave e inevitabile nocumento alla libertà o all’onore. Quando l’art. 1, co. 20 della Legge Cirinnà sarà in vigore ci si interrogherà in merito all’estensione della scusante al partner dell’unione civile (estensione ad oggi negata, dalla prevalente giurisprudenza, in relazione al convivente more uxorio). La risposta sembrerebbe dover essere negativa, salvo non voler vedere nell’art. 384 c.p. un mezzo per tutelare l’adempimento di obblighi di assistenza morale nascenti dall’unione. Un intervento chiarificatore da parte del legislatore sarebbe quanto mai opportuno. Si tratterebbe in sostanza di valutare, in una prospettiva penalistica (affatto diversa da quella dell’art. 1, co. 20 del d.d.l.), se le ragioni connesse all’inesigibilità di una condotta diversa, da parte dell’agente, siano riferibili (come a noi pare) anche alle parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
  • Sequestro di persona a scopo di estorsione (artt. 1, co. 4 bis e 3, co. 2 d.l. n. 8/1991). La legge prevede, in relazione all’ipotesi di favoreggiamento reale ex art. 1, co.4 d.l. n. 8/1991, una scusante che esclude la rilevanza penale del fatto per chi si adopera, con qualsiasi mezzo, al fine di far conseguire il riscatto agli autori di un sequestro di persona a scopo di estorsione realizzato ai danni di un prossimo congiunto, compreso pertanto il coniuge (arg. ex art. 307, co. 4 c.p.). Un’altra scusante è prevista poi dall’art. 3, co. 2 del medesimo d.l. n. 8/1991 per chi, in favore di un prossimo congiunto, omette di denunciare fatti concernenti un sequestro di persona o circostanze relative al pagamento del riscatto.  La riferibilità di queste scusanti al partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso sembra dubbia. Potrebbe essere forse affermata con un’interpretazione assai lata del contenuto degli obblighi di assistenza materiale e morale scaturenti dall’unione stessa, il cui adempimento le disposizioni in esame concorrerebbero a garantire. Valgono per il resto, de jure condendo, considerazioni analoghe a quelle sopra svolte in relazione all’art. 384 c.p.
  • Assistenza ai partecipi di associazioni sovversive o con finalità di terrorismo, anche internazionale, e di eversione dell’ordine democratico (art. 270 ter, co. 3 c.p.); ai partecipi di cospirazione o banda armata (art. 307, co. 3 c.p.), ovvero di un’associazione per delinquere (art. 418 c.p.). In tutte queste ipotesi la legge configura una scusante, che parimenti esclude la rilevanza penale del fatto, per chi lo realizza in favore di un prossimo congiunto, compreso pertanto il coniuge. Valgono, in proposito, anche de jure condendo, le medesime considerazioni svolte in relazione all’ipotesi precedente.
  • Divieto di espulsione dello straniero (art. 19 t.u. immigrazione). Ai sensi dell’art. 19, co.2, lett. c) d.lgs. n. 286/1998 (t.u. immigrazione) non è consentita l’espulsione dello straniero convivente con il coniuge di nazionalità italiana. La disposizione non è applicabile all’espulsione amministrativa disposta dal Ministro dell’Interno, ex art. 13, co. 1 t.u. imm., per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato; è invece applicabile in relazione all’espulsione disposta a titolo di misura di sicurezza (art. 15 t.u. imm.) ovvero di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione (art. 16 t.u. imm.). Ci si può chiedere se il divieto si estenderà, a Legge Cirinnà approvata, anche alle parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. La risposta affermativa potrebbe essere argomentata, alla luce dell’art. 1, co. 20 del d.d.l., valorizzando gli obblighi di assistenza morale e materiale, al cui pieno adempimento risulterebbe funzionale il divieto di espulsione.
 
 Riflessi su disposizioni processuali.
  • Incompatibilità del giudice per ragioni di coniugio e obbligo di astensione (artt. 35 e 36 c.p.p). Ai sensi dell’art. 35 c.p.p. nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi. L’art. 36 c.p.p. individua poi i casi in presenza dei quali il giudice ha l’obbligo di astenersi: ad es., se il coniuge è persona offesa o danneggiato dal reato, ovvero svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero. Orbene, a noi pare che la clausola dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà non produca effetto rispetto alle disposizioni richiamate, che pure potrebbero – e dovrebbero – ragionevolmente essere modificate estendendo l’incompatibilità e l’obbligo di astensione in relazione al partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. E’ vero, quanto all’obbligo di astensione del giudice ex art. 36 c.p.p., che questo potrebbe comunque fondarsi sulle “gravi ragioni di convenienza” alle quali fa riferimento la lett. h); ma è anche vero che la mancata astensione in presenza di quelle gravi ragioni di convenienza, a differenza dell’omessa stensione in presenza di un rapporto coniugale, non costituisce un motivo di ricusazione ai sensi dell’art. 37 c.p.p.
  • Incompatibilità dell’interprete (art. 144 c.p.p.). Nel caso di partecipazione del sordomuto o del sordo ad atti del procedimento (art. 119 c.p.p.), la qualità di interprete può essere assunta da un prossimo congiunto (normalmente incompatibile con la funzione di interprete). Per effetto dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà la disposizione a nostro avviso riguarderà anche le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso: l’esercizio della funzione di interprete, infatti, costituisce manifestazione della doverosa assistenza materiale e morale al quale le parti sono tenute.
  • Nomina del difensore di fiducia della persona fermata, arrestata o in custodia cautelare (art. 96, co. 3 c.p.p.). Finché non vi provvede la persona stessa, la nomina può essere fatta da un prossimo congiunto: dal coniuge, oggi, e, domani, per effetto dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà, dal partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. A noi pare, infatti, che provvedendo alla nomina del difensore la parte dell’unione eserciti la propria assistenza materiale e morale nei confronti dell’altra parte, in stato di privazione della libertà personale.
  • Testimonianza e facoltà di astensione dei prossimi congiunti (art. 199 c.p.p.). I prossimi congiunti dell’imputato non sono di norma obbligati a deporre (salvo talune eccezioni). Riteniamo che la disposizione – che in qualche modo coinvolge gli obblighi di assistenza morale nei confronti dell’imputato prossimo congiunto – si estenderà per effetto dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà anche alle parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Senonché la portata innovativa della riforma è limitata: il co. 3, lett. a) dell’art. 199 c.p.p., infatti, già estende la facoltà di astensione a chi convive o abbia convissuto con l’imputato, limitatamente però ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza.
  • Allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.).Domanda:la misura cautelare in esame sarà applicabile in ipotesi di reato (ad es., maltrattamenti in famiglia) commesso a danno del partner di un’unione civile tra persone dello stesso sesso? La risposta sembra dover essere affermativa per almeno due ragioni. Anzitutto, perché la misura cautelare è applicabile anche in ipotesi di fatto realizzato contro i prossimi congiunti (compreso il coniuge) o, comunque, contro il convivente (cfr. in particolare l’ultimo comma dell’art. 282 bis c.p.p.). Secondariamente, perché il co. 3 dell’art. 282 bis c.p.p. prevede la possibile ingiunzione del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Ed è una misura, questa, che ci sembra funzionale a garantire l’adempimento degli obblighi di assistenza materiale ai quali fa riferimento l’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà.
  • Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti (art. 282 ter c.p.p.). La misura cautelare sarà pacificamente riferibile alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso: con formulazione assai ampia, il co. 2 dell’art. 282 ter c.p.p., infatti, già oggi prevede che possa essere disposta anche in relazione a luoghi determinati abitualmente frequentati dai prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione di affettività.
  • Legittimazione alla querela in caso di diffamazione di un prossimo congiunto che sia deceduto (art. 597, co. 3 c.p.). La legge prevede che, in caso di morte della persona offesa prima della presentazione della querela, ovvero di offesa alla memoria di un defunto, la querela per il delitto di diffamazione possa essere proposta dai prossimi congiunti, compreso pertanto il coniuge. La disposizione potrebbe forse essere estesa al partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso qualora si includa la tutela dell’onore del partner, anche post mortem, nel fascio degli obblighi di assistenza morale scaturenti dall’unione.
  • Riparazione dell’errore giudiziario, in caso di morte (art. 644 c.p.p.). Il diritto alla riparazione, se il condannato muore, anche prima del procedimento di revisione, spetta al coniuge. Può dirsi, a mente dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà, che quel diritto spetterà anche al partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso? La risposta sembra dover essere affermativa. L’art. 643 c.p.p., infatti, commisura la riparazione, tra l’altro, alle conseguenze familiari derivanti dalla condanna. La riparazione, pertanto, ha anche una funzione compensativa dei riflessi negativi che l’errore giudiziario ha comportato sulla capacità del condannato di contribuire ai bisogni comuni e di prestare assistenza materiale e morale al partner.
  • Esercizio dei diritti e della facoltà della persona offesa dal reato, in caso di morte (art. 90, co. 3 c.p.p). La disposizione – che coinvolge l’obbligo di assistenza morale – attribuisce la titolarità all’esercizio di quei diritti e di quelle facoltà ai prossimi congiunti e pertanto, un domani, anche alle parti di un’unione civile. Senonché già oggi la disposizione stessa, che sostanzialmente non risulterà innovata, fa riferimento alle persone legate a quella offesa da relazione affettiva e con essa stabilmente conviventi.
  • Richiesta di revisione e richiesta di grazia (artt. 632, 681 c.p.p.). Le citate disposizioni del codice di rito legittimano i prossimi congiunti, compreso pertanto il coniuge, a presentare la richiesta di revisione o di grazia a favore del condannato. A nostro avviso la disposizione, che implica l’esercizio di un’attività di assistenza morale e materiale nei confronti del partner, in forza dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. legittimerà alle richieste in esame anche le parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

Convivenze di fatto. In assenza di una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 1, co. 20 del d.dl., risultano invece assai limitati i riflessi penalistici (potenziali o reali) della disciplina delle convivenze di fatto, che l’art. 1, co. 36 del d.d.l. così definisce (ai soli fini del d.d.l. stesso): si considerano conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Va subito detto che a nostro avviso la disposizione, quanto ai legami della coppia, sembra fotografare una situazione di fatto e, a differenza di quanto fa l’art. 1, co. 11 del d.d.l. per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, non costituisce una situazione di vero e proprio obbligo – di assistenza materiale e morale – rilevante quale fonte di una reciproca posizione di garanzia ex art. 40, co. 2 c.p.
Detto ciò, lungi dal disciplinare in modo organico i profili di rilevanza penale delle convivenze di fatto – o di delegare l’incombenza a un decreto da emanarsi successivamente – il d.d.l. Cirinnà si limita, nell’art. 1, co. 38 a un’enunciazione di principio che interessa il limitato ambito del diritto penitenziario: “i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. Il riferimento è alla l. n. 354/1975 (o.p.) e al relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. 230/2000: reg. o.p.). Si tratta di un’affermazione certamente importante sul piano di principio, che però non sembra per lo più innovativa. L’ordinamento penitenziario, infatti, parifica già oggi a diversi effetti i diritti del convivente a quelli del coniuge. E’ così, ad esempio, per quanto riguarda i colloqui (art. 37 o.p.), anche in caso di sorveglianza speciale (art. 14 quater o.p.) e nel contesto del regime del c.d. carcere duro (art. 41 bis o.p.); la corrispondenza telefonica (art. 39 o.p.); i permessi al detenuto/a per far visita al coniuge o convivente in imminente pericolo di vita o comunque in casi di particolare gravità (art. 30 o.p.), ovvero affetto da grave disabilità (art. 21 ter o.p.); l’invio di parte del peculio da parte del detenuto (art. 25 o.p.; art. 57 reg. o.p.).
L’efficacia innovativa della citata disposizione del d.d.l. Cirinnà sembra a conti fatti limitata all’art. 57 o.p., che estende la legittimazione alla richiesta di alcune misure alternative alla detenzione(affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, liberazione anticipata) ai “prossimi congiunti” del condannato (compreso pertanto il “coniuge”, a mente della definizione legale di cui all’art. 307, co.4 c.p., e un domani, per l’appunto, il convivente).