Autore: Avv. Daniele Pomata del Foro di Genova
d.pomata.studiolegalepomata@gmail.com
 
Commento a Cass. Pen. SS. UU. n.46625 del 24/11/2015. La circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale, contemplata dal comma 2 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992 non può essere contestata al conducente che rifiuti l’accertamento ai sensi del comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, che può pertanto accedere ai lavori di pubblica utilità previsti dal comma 9 bis della medesima disposizione.
 
L’aggravante di aver provocato un incidente stradale, prevista dal comma 2 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, che preclude la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità ai sensi del comma 9 bis della medesima disposizione, è configurabile anche in capo al conducente che rifiuti l’accertamento dello stato di ebbrezza?. Le Sezioni Unite, con una sentenza gravida di ricadute applicative e che è certamente destinata a far discutere, effettuano una coraggiosa scelta di campo.
 
I termini della questione.
Nell’ambito della fattispecie di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186 D. L.vo 285/1992, il comma settimo della predetta fattispecie incriminatrice delinea un’ipotesi peculiare rispetto a quelle previste ai commi precedenti, che sanzionano diversamente e in misura graduata il conducente che “…guida in stato di ebbrezza…” con un tasso alcolemico compreso tra 0,51 e 0,80 g/l (lett. A, sanzione amministrativa), tra 0,81 e 1,50 g/l (lett. B, ammenda da Euro 800 ad Euro 3.200 e arresto fino a sei mesi) ed oltre 1,50 g/l (lett. C, ammenda da Euro 1.500 ad Euro 6.000 e arresto da sei mesi a due anni).
La ratio della norma incriminatrice che prevede la punibilità della condotta di chi conduce il veicolo in stato di ebbrezza è, infatti, quella di tutelare l’incolumità degli utenti della strada così come quella dello stesso conducente.
Nel testo dell’art. 186 D.L.vo 295/1992, tuttavia, vi è un’ulteriore, distinta ipotesi di reato, che presenta evidenti peculiarità che l’hanno a più riprese resa oggetto di interesse da parte degli interpreti così come dello stesso legislatore: è la fattispecie di cui al comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992 che, nella sua attuale formulazione, sanziona il conducente con “…le pene di cui al comma 2 lett.C…” “…in caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3,4 e 5…”.
La peculiarità di quest’ultima fattispecie rispetto alle altre tre (lett.a, b, c) che la precedono è evidente: in primis, il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice non è tanto, nel caso della previsione di cui al settimo comma dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, l’incolumità degli utenti della strada (bene privatistico) quanto piuttosto il rispetto dell’ordine dell’autorità (bene pubblicistico).
In seconda battuta, la punibilità della condotta contemplata dal settimo comma dell’art. 186 D. L.vo 295/1992 prescinde, già dal punto di vista definitorio, dall’accertamento dello stato di ebbrezza del conducente, costituendo anzi, lo stesso rifiuto di sottoporsi all’accertamento la condotta punibile, equiparata solamente quoad poenam all’ipotesi più grave di guida in stato di ebbrezza “propria”, ovvero quella di cui all’art. 186 c.2 lett. C D. L.vo 285/1992.
In ragione di quanto precede, non stupisce se la natura peculiare e, per così dire, “ibrida” della fattispecie di cui all’art. 186, c.7, D. L.vo 285/1992 ha, fin dall’introduzione della predetta fattispecie nell’articolato del Codice della Strada, suscitato vivaci discussioni tra gli interpreti, divisi, ad esempio, tra quanti (una minoranza della dottrina) ne ritenevano la natura circostanziale e quanti altri (la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza) ne rivendicavano invece il carattere di autonoma fattispecie di reato.
 
Le implicazioni pratiche.
Se il dibattito sulla fattispecie di cui all’art. 186, c.7, D. L.vo 285/1992 era già vivo prima dell’introduzione, avvenuta con la L. 120/2010 (G.U. n.175 del 29/7/2010), dei commi 2 bis e 9 bis dello stesso art. 186, le particolari preclusioni introdotte dal combinato disposto dei due nuovi commi anzidetti hanno addirittura reso necessario in subjecta materia un intervento, a lungo invocato, delle Sezioni Unite della Cassazione, demandato dalla Quarta Sezione Penale del Supremo Collegio con Ordinanza di Rimessione n.620/2015 del 9/4/2015 e concretizzatosi nella Sentenza a Sezioni Unite n.46625 del 24/11/2015.
In buona sostanza, l’art. 9 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, nel prevedere che non possano essere ammessi allo svolgimento dei lavori di pubblica utilità i conducenti “…nei casi di cui al comma 2 bis del presente articolo…”, ovvero i conducenti “…che…in stato di ebbrezza…provochino un incidente stradale…”, lascia clamorosamente aperta –già dal punto di vista logico e concettuale, prima che ancora che giuridico- la questione circa la possibilità di ricomprendere “…nei casi di cui al comma 2 bis…” e nelle conseguenti preclusioni il conducente che abbia rifiutato l’accertamento dello stato di ebbrezza alcolica e che abbia altresì cagionato un incidente stradale.
I benefici della peculiare previsione di cui al comma 9 bis art. 186 D. L.vo 285/1992, infatti, come oramai noto anche a chi non è propriamente un operatore del diritto, sono molteplici e di rilevanza assoluta: l’esito positivo del programma di lavori di pubblica utilità sostitutivi della sanzione penale per la guida in stato di ebbrezza garantisce all’indagato/imputato che ne fruisca l’estinzione del reato, il dimezzamento del periodo di sospensione della patente di guida e, in caso di confisca del veicolo, la revoca del provvedimento ablatorio.
Il comma 2 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, introdotto con la medesima novella (L.120/2010) che ha innestato nel corpo della predetta disposizione il comma 9 bis che prevede e disciplina i lavori di pubblica utilità mutuati a loro volta dalla disciplina della L.274/2000, esclude dalla possibilità di fruire dell’istituto dei lavori di pubblica utilità –e dei conseguenti effetti premiali- i conducenti in stato di ebbrezza che abbiano “…provocato un incidente stradale…” e, secondo un’interpretazione della predetta disposizione invalsa nei primi tempi di applicazione della norma, addirittura i conducenti di cui all’art. 186 bis D. L.vo 285/1992, ovvero, sostanzialmente, quanti abbiano conseguito la patente di guida da meno di tre anni e i conducenti professionali.
In tempi più recenti, la Corte Costituzionale si è fatta carico di precisare che anche i “neopatentati” e conducenti professionali di cui all’art. 186 bis D. L.vo 285/1992 potevano accedere, salva l’ipotesi in cui gli stessi avessero cagionato un incidente stradale, all’istituto dei lavori di pubblica utilità ([1]), essendo la ratio della previsione di cui al comma 2 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992 quella di escludere dal beneficio le condotte maggiormente generatrici di allarme sociale e dotate della maggiore idoneità lesiva nei riguardi del bene giuridico tutelato.
Rimanevano a questo punto esclusi dall’accesso ai lavori di pubblica utilità di cui all’art. 186 c. 9 bis D. L.vo 285/1992 i soli conducenti in stato di ebbrezza che avevano “…provocato un incidente stradale…”.
Va detto, per completezza di analisi, che la predetta esclusione, da più parti tacciata di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 della nostra Carta Fondamentale nella misura in cui escludeva (peraltro in ambito penale) l’accesso ad un regime sanzionatorio più favorevole (che conduce addirittura all’estinzione del reato!) per una sola categoria di rei e per di più in ragione di una condizione non sempre riconducibile alla colpevolezza della condotta degli stessi nonchè, in definitiva, alla suitas stessa della condotta, ha retto infine al vaglio della Corte Costituzionale che ne ha definitivamente sancito la legittimità, sia pure con argomentazioni non del tutto convincenti ([2]).
La questione dell’esclusione dall’accesso ai lavori di pubblica utilità dei conducenti che rifiutino l’accertamento etilometrico dunque, lungi dal configurarsi come meramente definitoria e squisitamente dottrinale è al contrario gravida di rilevanti ricadute applicative, dal momento che estendere l’equiparazione, introdotta, quantomeno quoad poenam, dall’art. 186, c.7, D. L.vo 285/1992, dei conducenti che rifiutino l’accertamento dello stato di ebbrezza alcolica a quelli che versino in stato di ebbrezza accertato significherebbe altresì, in caso di incidente stradale, precludere, in forza del combinato disposto dei commi 2 bis e 9 bis D. L.vo 285/1992 la praticabilità dei lavori di pubblica utilità (e dei conseguenti, rilevanti effetti premiali), tanto ai secondi quanto ai primi che pure non versano, in senso proprio, in stato di ebbrezza accertato ai sensi dei commi 3, 4 e 5 della medesima disposizione.
Per contro, escludere l’applicabilità della preclusione allo svolgimento dei lavori di pubblica utilità nei riguardi dei conducenti che provochino un incidente stradale e che rifiutino l’accertamento dello stato di ebbrezza alcoolemica potrebbe rappresentare, utilizzando le parole del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, “…un’improvvida premialità…” proprio nei riguardi di quei soggetti che, nell’ambito delle differenti ipotesi di reato contemplate dall’art. 186 D. L.vo 285/1992, tengono la condotta maggiormente offensiva (non a caso equiparata quoad poenam all’ipotesi più grave di guida in stato di ebbrezza “propria”) ed elusiva del controllo dell’autorità.
Diversamente opinando, escludere dall’accesso ai lavori di pubblica utilità i conducenti che provochino un incidente stradale e che rifiutino l’accertamento significherebbe obiettivamente introdurre una fictio juris (quella, appunto, già prevista quoad poenam tra il conducente che rifiuti l’accertamento e quello che versa nel più grave stato di ebbrezza accertato) in malam partem, dal momento che non solo il conducente verrebbe considerato “…in stato di ebbrezza…” ancorchè di tale stato non si abbia obiettivamente prova strumentale/oggettiva alcuna, ma addirittura allo stesso si applicherebbe una preclusione (quella, appunto, prevista dal comma 9 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, consistente nell’aver provocato, guidando in stato di ebbrezza alcolica, un incidente stradale) espressamente riservata ai conducenti “…in stato di ebbrezza…”.
E’ evidente che si assiste alla contrapposizione tra ovvie esigenze di politica criminale, che impongono di equiparare le condotte che pongono maggiormente in pericolo i beni giuridici protetti dall’art. 186 D. L.vo 285/1992 e il divieto di estensione analogica in malam partem di una disciplina fortemente penalizzante (prima ancora che punitiva in senso proprio) per il reo.
Così, non si può non rilevare che sarebbe incoerente e ben poco nomofilattica, nell’ambito del sistema delineato dall’art. 186 D. L.vo 285/1992, l’interpretazione giurisprudenziale della norma incriminatrice che, da un lato, esiga un sempre maggior rigore nelle modalità di accertamento strumentale dello stato di ebbrezza, richiedendo, ad esempio, che venga provato che lo stato di alterazione sussistesse proprio al momento della guida, e dall’altro, non esiti a sacrificare il divieto di analogia in malam partem (e lo stesso rigore logico nell’interpretazione della norma interpretatrice) accettando senz’altro l’equiparazione, gravida di conseguenze sfavorevoli per il reo, tra il soggetto che guidi in accertato stato di ebbrezza e quello che semplicemente rifiuti l’accertamento ma venga nondimeno considerato “…in stato di ebbrezza…” laddove abbia cagionato un incidente stradale.
Ancora, non sfuggirà come se può essere ritenuto accettabile e conforme ai principi generali in materia penale, istituire un’equiparazione quoad poenam tra due categorie di rei, ben diverso è estendere, sic et simpliciter, le conseguenze preclusive di una previsione riservata a chi guida “…in stato di ebbrezza…” anche nei riguardi dei soggetti in capo ai quali, obiettivamente, detto “…stato di ebbrezza…” non può dirsi provato o magari, nonostante il rifiuto di sottoporsi al relativo accertamento, non sussiste affatto.
Si comprende allora, in quest’ottica, come la giurisprudenza non abbia mostrato, in subjecta materia, un orientamento univoco e che si sia reso necessario il recente intervento delle Sezioni Unite, invocate con la già citata Ordinanza di Rimessione n.620/2015 del 9/4/2015.
Ci si muove, d’altronde, nell’ambito di fattispecie che presentano una certa diffusione nelle corti nazionali, costituendo, anzi, dati alla mano, alcune tra le ipotesi di reato più comunemente contestate dalle Procure, rispetto alle quali risolvere la questione interpretativa in un senso anziché nell’altro comporta rilevanti ricadute applicative, per non dire vere e proprie incidenze sociali dal  momento che, ad oggi, numerosissimi sono i soggetti incensurati che, incorsi nella contestazione di cui all’art. 186 D. L.vo 285/1992 rimangono tali proprio in virtù della sostituzione della pena mediante l’istituto dei lavori di pubblica utilità.
Ebbene, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrano nutrire piena consapevolezza delle ricadute applicative di dirimere la vexata quaestio in un senso o nell’altro e conferiscono dunque un taglio assai pratico alla parte motiva della Sentenza n.46625 del 24/11/2015.
 
Il caso sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite.
Lo spunto derivava, nel caso sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, da una vicenda in cui l’imputato, chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 186, comma settimo, D. L.vo 285/1992, in presenza di un incidente stradale cagionato dal predetto, chiedeva l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., con sostituzione della sanzione ex art. 186 c.9 bis D. L.vo 285/1992 con il lavoro di pubblica utilità.
Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Macerata investito della valutazione di congruità della richiesta di applicazione della pena riteneva coerente tanto la sanzione quanto la sua sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, “…sul duplice rilievo che non era compiutamente dimostrato lo stato di ebbrezza del conducente che aveva procurato il sinistro stradale e che il rinvio effettuato dal comma 7 al comma 2, lett. c), deve ritenersi solo quoad poenam…”.
 
Proponeva ricorso per Cassazione avverso la predetta sentenza il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Macerata dolendosi del fatto che il Giudice a quo avesse disposto la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità nonostante la condizione ostativa posta dallo stesso comma 9 bis dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, che prevede il divieto di sostituzione per i conducenti che, in stato di ebbrezza, abbiano provocato un incidente stradale.
Ad avviso del Pubblico Ministero ricorrente, infatti, il conducente che rifiuti l’accertamento in merito alla sussistenza del suo stato di alterazione, incorrendo in tal modo nella fattispecie di cui all’art. 186, comma settimo, D. L.vo 285/1992, “…è da considerarsi conducente in stato di ebbrezza ex lege, tanto che è assoggettato alle pene previste dal comma 2, lett. C), dell’art. 186 citato…”.
A ben vedere, e in maniera forse un pò paradossale, il Giudice a quo e il Pubblico Ministero ricorrente muovono dal medesimo punto di vista, giungendo però ad opposti approdi argomentativi: entrambi, infatti, muovono dal dato, ricognitivo, dell’equiparazione del conducente che rifiuti l’accertamento dello stato di ebbrezza e che abbia cagionato un incidente stradale a quello che versi in stato di ebbrezza accertato.
Tuttavia, mentre il Pubblico Ministero ricorrente ritiene detta equiparazione quoad poenam sufficiente a fondare addirittura un’equiparazione “…ex lege…” tra il conducente che rifiuti l’accertamento e quello che versi in stato di ebbrezza accertato, il Giudice a quo individua proprio nell’equiparazione quoad poenam i limiti applicativi dell’equiparazione, richiedendo, ai fini dell’accesso alle ulteriori condizioni preclusive contra reum che discendono dall’applicazione della circostanza aggravante di aver cagionato un incidente stradale, che lo stato di ebbrezza del reo che rifiuti l’accertamento venga provato “…compiutamente...”.
L’interpretazione della norma incriminatrice fatta propria dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Macerata sembra, obiettivamente, maggiormente conforme ai principi di tassatività, di divieto di analogia in malam partem, di legalità e, comunque, di “coerenza sintattica” della norma stessa.
Per contro, è innegabile che l’interpretazione fatta propria dal Pubblico Ministero ricorrente risulti maggiormente conforme ad un’elementare esigenza di politica criminale, ovvero quella di non legittimare prassi “premianti” nei riguardi dei soggetti che pongono in essere le aggressioni più gravi ai beni giuridici protetti dall’art. 186 D. L.vo 285/1992, incentivando il conducente che abbia cagionato un incidente stradale e che sia consapevole di essere in stato di ebbrezza a rifiutare l’accertamento strumentale.
Si comprende, in ragione di quanto precede, il motivo per cui la giurisprudenza che ha preceduto la pronuncia delle Sezioni Unite non sia mai riuscita ad esprimere negli anni un orientamento univoco, propendendo ora per l’interpretazione fatta propria dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Macerata ([3]), deducendo essenzialmente i predetti motivi di ordine testuale e sistematico, ora per l’interpretazione promossa dal Pubblico Ministero ricorrente ([4]).
Alla Suprema Corte non è sfuggita, va detto, la perplessità applicativa che ha recentemente caratterizzato l’articolato dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, oggetto di reiterati interventi innovativi da parte del legislatore in cui non era sempre immediato cogliere la ratio legis, tanto è vero che lo stesso intervento normativo (L.120/2010) che ha introdotto l’aggravante di cui al comma 2 bis dell’art. 186 e che ha dischiuso le porte, con l’introduzione del comma 9 bis della medesima disposizione, all’applicazione del lavoro di pubblica utilità già contemplato dal D. Lgs. 274/2000 ha tuttavia depenalizzato, degradandole ad illecito amministrativo, le condotte rientranti nella prima “fascia” contemplata dall’art. 186 D. L.vo 285/1992, riservata ai conducenti che guidano con un livello alcoolemico non superiore a 0,8 g/l.
 
La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.
Con consapevolezza della scivolosità del terreno su cui ci si muove e delle rilevanti (non fosse altro per il notevolissimo numero di procedimenti pendenti riguardanti le fattispecie de quibus) ricadute applicative di decidere nell’un senso o nell’altro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione muovono da una prima argomentazione di natura “formale”, forse dotata di minore forza, rilevando che il comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992 “…richiama espressamente il solo comma 2 lett. C dello stesso art. 186…e non anche il comma 2 bis…” che prevede, appunto, l’aggravante di aver provocato un incidente stradale.
In seconda battuta, ancora sotto il profilo formale-sistematico, il Supremo Collegio valorizza il “…collocamento sistematico della norma relativa all'aggravante subito dopo il comma 2 e si esclude che il mancato esplicito richiamo dell'art. 186, comma 7, cod. strada, alla circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale sia il portato di un difetto di coordinamento tra le diverse modifiche normative che hanno interessato le fattispecie di guida in stato di ebbrezza e di rifiuto, posto che entrambe le contravvenzioni sono state oggetto di reiterati e contestuali interventi riformatori…”.
Addentrandosi nell’analisi della problematica sottoposta al suo vaglio, la Suprema Corte perviene, finalmente, alla sostanza del problema, ovvero l’ammissibilità (sotto il profilo logico, sistematico, di coerenza con i principi generali, ecc.) di un’equiparazione, spinta fino alle conseguenze dell’estensione delle sanzioni accessorie e delle preclusioni nell’accesso ai benefici premiali, tra il soggetto che versi in accertato stato di ebbrezza e quello che rifiuti l’accertamento.
Ebbene, la decisione cui pervengono le Sezioni Unite è quella di rilevare una diversità addirittura “…ontologica…” tra “…il concetto di conducente in stato di ebbrezza…e quello di conducente che si rifiuti di sottoporsi all’accertamento…” poiché, come rileva con argomentazione incontrovertibile il Supremo Collegio, lo status di conducente che si rifiuti di sottoporsi all’accertamento “…presuppone la mancanza di accertamento dello stato di ebbrezza…”.
L’argomentazione è talmente ossequiosa del rigore logico da apparire quasi ovvia, restando allora da domandarsi come mai si sia dovuto attendere, a cinque anni dall’introduzione della norma de qua, l’intervento delle Sezioni Unite per dirimere il contrasto interpretativo e, conseguentemente, quello applicativo.
La Suprema Corte nella parte motiva della sentenza in commento fa leva, per accreditare ulteriormente l’interpretazione fornita, su una rigorosa analisi strutturale della fattispecie (della quale si dà per pacifica la natura autonoma e non circostanziale) di cui al comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992.
Nell’ottica che precede, infatti, vengono richiamate alcune precedenti pronunce del Supremo Collegio che avevano valorizzato la natura di reato istantaneo della predetta fattispecie, che “…si perfeziona con la manifestazione di indisponibilità da parte dell’agente…”.
Altrettanto condivisibile è l’ulteriore argomentazione sulla cui scorta le Sezioni Unite pervengono ad affermare che “…il responsabile del reato di cui all’art. 186, comma settimo, cod. strada, non è da considerarsi conducente in stato di ebbrezza ex lege…”.
Evidenzia, infatti, ad abundantiam il Supremo Collegio al dichiarato fine “…di ulteriormente giustificare la diversità ontologica delle due fattispecie incriminatrici…” che il reato di guida in stato di ebbrezza, proprio nella misura in cui presuppone un accertamento della predetta condizione, è costruito sulla base di tre distinte ipotesi “…tutte qualificate dal quantum della condizione alterata dall’abuso dell’alcool…”.
Anche in ragione di quanto precede, come rilevano le Sezioni Unite, si tratta di ipotesi “…quale che ne sia la rilevanza, amministrativa o penale…” che “…si distinguono nettamente dal proprium della contravvenzione di rifiuto, laddove è punita solo la condotta omissiva del soggetto che ricusa l’accertamento, prescindendo dalla condizione, anche in ipotesi alterata, in cui tale soggetto si trovi…”.
Vi è ancora spazio, nella parte motiva del decisum della Suprema Corte, per una ricognizione dei confini applicativi della fattispecie omissiva di cui al comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, che sono più ampi di quanto si potrebbe in prima istanza ritenere.
Ai fini integrativi della fattispecie di rifiuto di sottoporsi all’accertamento de quo non è necessario, infatti, come evidenzia il Supremo Collegio, richiamando pronunce di legittimità già note ([5]), che la condotta si concretizzi in un espresso rifiuto verbale (che, peraltro, potrebbe dischiudere le porte all’applicazione di altre fattispecie, quali quella di cui all’art. 336 c.p.), essendo altresì idonea ai predetti fini “…anche una condotta indirettamente espressiva del rifiuto, quale quella di chi, pur edotto delle modalità di esecuzione del test e avvisato delle conseguenze del rifiuto, vi si sottoponga in modo strumentalmente inidoneo a consentire l’effettiva misurazione…”.
 
Riflessioni conclusive.
In buona sostanza, la Suprema Corte perviene ad affermare una vera e propria diversità di natura ontologica della due fattispecie, quella di guida in accertato stato di ebbrezza e quella di rifiuto di sottoporsi all’accertamento, improvvidamente costrette dal legislatore nell’ambito della medesima disposizione.
Nel pervenire alla predetta conclusione, già sollecitata a più riprese dagli operatori della prassi, il Supremo Collegio, decidendo a Sezioni Unite, può sembrare prima facie aver statuito in termini solenni un dato già presente nella lettera della legge.
Tuttavia, a ben vedere, così non è. In primo luogo, e ciò è evidente, prima di pervenire alla pronuncia risolutoria delle Sezioni Unite il contrasto giurisprudenziale tra le due impostazioni è stato lacerante senza che alcuna di esse riuscisse a portare a proprio favore argomentazioni di natura dirimente.
In secondo luogo e alla luce di un’analisi di più ampio respiro, che abbia riguardo all’argomento, comunque non del tutto estraneo alla pronuncia del Supremo Collegio, della tutela dei beni giuridici protetti dalla disposizione di cui all’art. 186 D. L.vo 285/1992, la sentenza in commento segna in realtà una piccola rivoluzione copernicana.
Ci si muove, infatti, dalla prevalente tutela in materia, in vigore prima della pronuncia ritenuta prevalente, di esigenze di politica criminale tipo general-preventivo, sul cui altare era considerato legittimo prima dell’intervento del Supremo Collegio sacrificare la stretta applicazione dei principi di tassatività, di legalità e di divieto di analogia in malam partem, allo spostamento, quantomeno per quanto concerne la fattispecie di cui al comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992, del baricentro della tutela alla garanzia del reo.
Non si tratta, ad avviso di chi scrive, di dato di poco conto, dal momento che il bene giuridico specificamente tutelato dalla fattispecie di cui al comma settimo dell’art. 186 D. L.vo 285/1992 è quello, di natura pubblicistica, di impedire “…il frapponimento di ostacoli nell’attività di controllo per la sicurezza stradale…” ([6]).
Si scalfisce, dunque, in estrema sintesi, la tutela prevalente dell’interesse di natura general-preventiva, di tipo pubblicistico, in favore di una tutela più intensa del diritto individuale al più stringente rispetto, da parte dell’Autorità, dei principi di tassatività, di legalità e di divieto di analogia in malam partem.
Nell’operazione ermeneutica portata a compimento dal Supremo Collegio sembra senz’altro guadagnarci, oltre alla tutela del singolo, la coerenza interna del sistema, messa a dura prova dalle analogie improvvide censurate nella sentenza in commento.
Certamente non mancherà chi, privilegiando le esigenze di politica criminale di tipo general-preventivo, sacrificate dalla sentenza in commento in favore dei diritti individuali e della coerenza interna del sistema, criticherà duramente il decisum delle Sezioni Unite, prospettando che ben potrebbe a questo punto il soggetto che conduca in stato di ebbrezza e che cagioni un incidente stradale rifiutare scientemente l’accertamento piuttosto che affrontare il riscontro dell’etilometro proprio al fine di poter beneficiare dei lavori di pubblica utilità e in tal modo estinguere il reato ed evitare la confisca del mezzo.
Indubbiamente in subjecta materia ogni scelta di campo comporta il sacrificio di qualche interesse e impone di correre dei rischi circa il futuro applicativo della nuova interpretazione fornita che avrà comunque, quantomeno, effetto deflattivo, nella misura in cui consentirà l’accesso al lavoro di pubblica utilità anche ai conducenti di cui al comma settimo di cui all’art. 186 D. L.vo 285/1992 che abbiano cagionato un incidente stradale.
In maniera altrettanto sicura, però, si può prevedere che, nella misura in cui l’opzione dei lavori di pubblica utilità per il soggetto che abbia rifiutato l’accertamento e che abbia cagionato un incidente consente a quest’ultimo l’accesso ad un beneficio precluso al soggetto che conduca in accertato, magari anche modesto, stato di ebbrezza e che ugualmente cagioni un incidente stradale, il prossimo approdo della questione ben potrà essere (nuovamente) quello della Corte Costituzionale, chiamata a contemperare ancora una volta la tutela di esigenze di tipo general-preventivo con quelle individuali e sempre più prevalenti, di legittima aspettativa del singolo in un agere della pubblica amministrazione che si dimostri rispettoso, nel caso concreto, del principio di legalità.
In conclusione, la sensazione degli operatori della prassi è quella che con la sentenza in commento le Sezioni Unite abbiano finalmente risolto e per di più in modo piuttosto coraggioso un contrasto interpretativo gravido di ricadute concrete, reclamando alla tutela dei diritti del reo un più attento presidio, ma, al contempo, abbiano dischiuso la porta alla possibilità di rimettere in discussione, alla luce del medesimo criterio, le altre differenziazioni nel trattamento sanzionatorio.
Insomma, come spesso avviene per le pronunce della Suprema Corte che segnano una decisa scelta di campo, non ci troviamo tanto a contemplare il tramonto dei contrasti interpretativi che avevano segnato il periodo precedente quanto piuttosto l’alba di nuove opzioni che impegneranno nuovamente, a breve, gli operatori della prassi applicativa e certamente, non molto avanti nel tempo, la stessa Corte di Cassazione. 
 
Avv. Daniele Pomata
Avvocato del Foro di Genova
d.pomata.studiolegalepomata@gmail.com   [1] Così Corte Cost., Sent. n.167 del 26/6/2012.[2] Così Corte Cost., Ord. n.247 del 25/9/2013.[3] Così Cass. Sez. 4, n. 22687 del 09/05/2014, Caldarelli, Rv. 259242.[4] Così Cass. Sez. 4, n. 43845 del 26/09/2014, Lambiase, Rv. 260602; Sez. 4, n. 9318 del 14/11/2013, dep. 2014, Stagnaro, rv. 258215.[5] Cass. Sez. IV^, n.5409 del 27/1/2015, Avondo, Rv.262162),[6] Così, Cass. Sez. IV^, n.6355 del 8/5/1997, Mela, rv.208222.