Il reato di atti persecutori (il cosiddetto "stalking"), previsto dall'articolo 621 bis del Codice penale, presuppone la reiterazione nel tempo di condotte minacciose e/o moleste, tali da determinare nella vittima un grave stato perdurante di ansia o paura, o comunque il timore per l'incolumità propria o di un familiare o altra persona con cui si abbia un legame affettivo o ancora tale da costringere la vittima a modificare le sue abitudini di vita.

Riguardo l'elemento oggettivo della reiterazione delle condotte, si è posto il problema di una possibile "quantificazione" delle stesse.

La Cassazione ha affermato che anche due sole condotte di minaccia, in successione tra loro, pur se intervallate nel tempo, sono sufficienti ad integrare il concetto di “reiterazione” della condotta (Cassazione, sentenza del 23 maggio-14 novembre 2013, n. 45648).

Il delitto di atti persecutori, infatti, è reato abituale di evento, per la cui sussistenza è necessario e sufficiente che la condotta incriminata, reiterata, ma anche per sole due volte, abbia determinato la realizzazione di uno dei tre eventi alternativi richiesti ai fini della consumazione: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita (nello stesso senso, Cassazione, sentenza del 22 giugno 2010).

È appunto proprio la realizzazione di uno o più di questi eventi che ne fissa il momento consumativo.

La Cassazione ha inoltre precisato che lo stalking non è escluso quando la vittima abbia a sua volta tenuto condotte moleste o minacciose.

La reciprocità dei comportamenti molesti impone solamente un obbligo di motivazione più stringente per il giudice, il quale dovrà attentamente verificare la sussistenza dell'evento di danno nella vittima (ossia lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita).

In altri termini, nel caso di reciprocità dei comportamenti deve verificarsi se vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificare le iniziative minacciose o moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura: in tal caso, non potendosi accettarsi che la vittima sia necessariamente inerme, alla mercè del suo molestatore e incapace di reagire, la situazione di stress o di ansia in cui questa si trovi ben può ingenerare reazioni incontrollate anche nei riguardi del proprio molestatore, che non escludono la sussistenza del reato (nello stesso senso, Cassazione, sentenza del 5 febbraio 2010).

La prova del reato

Un altro problema è poi come dimostrare la sussistenza dell'evento (con particolare riferimento allo stato di ansia o paura).

In termini generali, la Cassazione afferma che la prova dell’evento del reato di stalking può essere ricavata dalle dichiarazioni della vittima oltre che dai suoi comportamenti, conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, e persino dalla condotta dell’imputato quale comportamento astrattamente idoneo a causare l’evento anche in relazione al contesto spazio-temporale in cui la condotta è stata posta in essere.

Poi, con specifico riguardo alla dimostrazione dello “stato di paura o di ansia”, la Cassazione ha anche precisato che, per l’integrazione del reato, non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, anche perchè altrimenti il reato di stalking diventerebbe una duplicazione del reato di lesioni (già previsto dall'articolo 582 del Codice penale), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (in senso conforme, Cassazione, sentenza del 10 gennaio 2011; Cassazione, sentenza del 28 febbraio 2012).

Conseguentemente non sarà necessario produrre in giudizio, ai fini probatori, una certificazione sanitaria, attestante una “patologia” determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva).
In questo contesto, tuttavia, pur potendosi escludere la stringente necessità del riscontro sanitario, è opportuno che il giudice ponderi adeguatamente gli elementi oggettivi a disposizione, scindendoli dalle mere percezioni della vittima.