Con un'attesa decisione della Corte di cassazione, giunta giovedì scorso (18 novembre 2014), è calato il sipario sul processo Eternit, travolto sulla linea del traguardo dalla declaratoria di prescrizione del reato di disastro doloso (art. 434 c.p.), oggetto di contestazione. Per quel reato, come è noto, nel giugno del 2013 la Corte d'Appello di Torino aveva condannato a diciotto anni di reclusione Stephan Schmidheiny, amministratore (tra il 1974 e il 1986) di Eternit S.p.A., che già il Tribunale di Torino aveva ritenuto responsabile di un disastro ambientale dal quale sono conseguite malattie professionali e morti per asbestosi o tumore polmonare di migliaia di persone, a lungo esposte a polveri di amianto negli ambienti di lavoro e in quelli circostanti: a Casale Monferrato (AL), a Cavagnolo (TO), a Rubiera (RE), e a Napoli (Bagnoli).
La decisione della Cassazione ha suscitato molto clamore, e ha occupato le prime pagine dei media. Non poteva che essere così: in un colpo quella decisione ha fatto esplodere come una bolla di sapone - anche agli effetti civili - il più importante processo penale celebrato nel nostro Paese per morti e malattie amianto-correlate; un processo gravato dal peso del dolore di migliaia di persone, che dopo due condanne nei giudizi di merito hanno inaspettatamente visto sfumare al fotofinish l'esito atteso. Ed è un dolore ancor più acuto perché i tempi di latenza del terribile e incurabile male (il mesotelioma pleurico) fanno sì che ancora oggi a morte si assommi morte, impedendo al trascorrere del tempo di rimarginare ferite che resteranno indelebili, per chi le ha subite.
L'opinione pubblica si è per lo più indignata per la decisione della Cassazione, certamente impopolare. E la politica, sempre più incline alla raccolta del facile consenso, si è per lo più associata all'indignazione e allo sconcerto per tante morti rimaste senza condanna, preannunciando subito una riforma dell'istituto della prescrizione del reato. Tutto questo - ça va sans dire - senza l'ombra di alcuna autocritica per non aver riformato prima un quadro normativo che, a torto o a ragione, ha consentito ai giudici della Cassazione di dichiarare la prescrizione del reato.
Al giurista compete naturalmente valutare la decisione e la vicenda che ne è seguita sulla base dei principi e delle norme che reggono il sistema. E' evidente che una simile valutazione non può prescindere dalle motivazioni della sentenza, che allo stato non si conoscono. Alcune riflessioni a margine della vicenda sono però possibili sin d'ora, a caldo.
L’esito del giudizio di terzo grado, impone alcune riflessioni suscitate dall'epilogo della vicenda Eternit, al netto della sua rappresentazione mediatica, non tralasciando, tuttavia, alcune considerazioni al problema tecnico-giuridico - centrale ai fini dell'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione del reato - relativo all'individuazione del momento consumativo del disastro in ipotesi di dispersione di polveri di amianto.
La vicenda Eternit segna indubbiamente una frattura tra la giustizia pubblica, amministrata in nome del popolo, e la sete di giustizia delle vittime dell'amianto e dei loro familiari, rimasta inappagata. Una sentenza della Suprema Corte che in nome del popolo italiano dichiara prescritto il reato contestato a chi, nei due precedenti gradi del giudizio, è stato invece ritenuto responsabile di fatti gravissimi, che hanno comportato la morte di migliaia di persone e altrettante malattie incurabili, ha inevitabilmente nella percezione sociale il sapore dell'ingiustizia. Può ben darsi - ed è questa la mia personale impressione - che vi siano forti ragioni per argomentare la correttezza, in punto di diritto, della decisione della Suprema Corte. Ed è fuor di dubbio, in un diritto penale retto dai principi di legalità dei reati e delle pene, che la sete di giustizia dei cittadini non deve essere soddisfatta sempre e comunque, facendola prevalere sulla forma.
Se ciò è vero, è anche vero che non è affatto facile assicurare credibilità al sistema evitando il disorientamento dell'opinione pubblica di fronte a una sentenza pronunciata da giudici di legittimità - fisiologicamente lontani dalle vittime e dai fatti -, che pone nel nulla due condanne consecutive pur sempre pronunciate in nome del popolo italiano nei giudizi di merito, da parte di giudici invece immersi nei fatti e vicini allo sguardo delle vittime e dei loro familiari. Quando nell'ultimo grado del giudizio si afferma la prescrizione del reato, decorsa già all'epoca dell'avvio del procedimento penale, si certifica in sostanza l'inutilità del procedimento stesso. Delle due l'una: o la declaratoria di prescrizione del reato da parte dei giudici della Cassazione non è giuridicamente corretta, oppure è stata infelice la scelta, da parte della Procura di Torino, di contestare ai responsabili di Eternit un reato già prescritto. In ogni caso, agli occhi dell'opinione pubblica e delle vittime l'apparato giudiziario ha prodotto una in-giustizia
Preliminarmente, è opportuna sfatare un equivoco che stampa e tv hanno alimentato: l'epilogo del processo Eternit non dipende dalla disciplina della prescrizione del reato, ma dal momento consumativo del contestato disastro. - All'indomani della sentenza della Cassazione autorevoli esponenti delle istituzioni e della politica hanno puntato il dito sulla disciplina dell'istituto della prescrizione del reato, preannunciandone la riforma. Senonché, come ha subito notato un attento osservatore come Luigi Ferrarella (su Il Corriere della Sera), non si deve "illudere la gente che la prescrizione sia dipesa dalla lentezza della giustizia (tre gradi di giudizio in appena 4 anni?) o dai guasti della per molto altro nefanda legge ex Cirielli". Sia chiaro: ben venga una riforma della prescrizione, che il Governo aveva peraltro annunciato già nell'agosto di quest'anno, e che la dottrina invoca da dieci anni (tanto è passato, ormai, dalla citata riforma del 2005, che come tutti sanno ha generalmente ridotto i termini di prescrizione dei reati più gravi, falcidiando un enorme numero di procedimenti penali).
E' però ben difficile che un novellato assetto della prescrizione del reato - compreso un eventuale raddoppio dei termini per il disastro doloso, come già l'art. 157, co. 5 c.p. stabilisce per il disastro colposo -possa mettere al sicuro le sorti dei procedimenti per morti da malattie amianto-correlate, che normalmente si verificano a distanza di decenni dalla cessazione delle attività produttive implicanti la dispersione delle polveri di amianto, e talora anche dalla intervenuta opera di bonifica dei siti inquinati (in senso analogo, nel commentare la vicenda Eternit, si è espresso anche il prof. Mauro Catenacci su Il Messaggero).
Come dimostra la vicenda Eternit - al giurista è ben chiaro; non anche, purtroppo, all'opinione pubblica - la prescrizione dipende in quei procedimenti dal momento consumativo del reato oggetto di contestazione. Se si contestano l'omicidio o le lesioni personali, nulla quaestio: i tragici eventi, purtroppo ancora attuali, segneranno il dies a quo del termine prescrizionale, sicché l'ultima morte o malattia professionale terrà in piedi il processo, evitandone la prescrizione. Se però, come nel caso di Eternit, si contesta il disastro (il macro-evento che ha messo in pericolo la vita e l'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, poi effettivamente colpite da malattia e morte per patologie correlate all'esposizione all'amianto) quel termine sarà verosimilmente decorso - quale che sia il futuro assetto della disciplina della prescrizione del reato - nella misura in cui si affermi il principio, evidentemente seguito dalla Cassazione, secondo cui il disastro si consuma con la cessazione della condotta (venti, trenta o quaranta anni fa), e non finché si producono gli effetti (malattie/morti).
E' chiaro che la politica cerca oggi di sfruttare l'occasione della sentenza Eternit per vincere le difficoltà (interne alla politica stessa) a riformare l'istituto della prescrizione del reato (uno dei temi più scottanti tra quelli all'ordine del giorno nell'ambito della riforma della giustizia penale). Sarebbe però un errore concentrare le attenzioni su quel solo versante, dimenticando che è attualmente all'esame del Senato un disegno di legge (S. 1345, Realacci e altri: "Disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente") già approvato dalla Camera nel febbraio del 2014, che per la prima volta introduce in un nuovo art. 452 ter del codice penale un delitto di disastro ambientale, ad oggi figura di creazione giurisprudenziale ricondotta al c.d. disastro innominato previsto dall'art. 434 c.p. (la cui versione, come tutti sanno, risale al 1930).
La nuova incriminazione (che non brilla per precisione e sufficiente tipizzazione del fatto incriminato) è accompagnata da una definizione legale del concetto di disastro, comprensiva della "offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza oggettiva del fatto per l'estensione della compromissione ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo". Quale migliore occasione per riflettere su come implementare la prevenzione e la repressione dei fenomeni di più grave inquinamento da sostanze tossiche?
Come si diceva, il vero nodo problematico al quale è legata la ghigliottina della prescrizione caduta sul processo Eternit è rappresentato dal momento consumativo del contestato delitto di disastro innominato. A quanto pare - stando a un comunicato stampa della S.C., riportato dai quotidiani all'indomani della sentenza - la Cassazione avrebbe fissato il dies a quo del termine di prescrizione del reato nel 1986, data della chiusura degli stabilimenti Eternit.
Solo dalla motivazione della sentenza sapremo se ciò dipende dalla qualificazione della fattispecie di cui all'art. 434, co. 2 c.p. come circostanza aggravante, piuttosto che dalla configurazione del disastro come reato (eventualmente) permanente, nel quale la permanenza del reato cessa al cessare della condotta (l'attività industriale), ovvero da altro ancora.
Nell'attesa delle motivazioni possiamo solo limitarci a qualche breve riflessione, utile anche in considerazione del fatto che il problema ha portata generale: coinvolge, oggi più che mai, tutti i procedimenti per morti o malattie legate all'amianto o ad altre sostanze tossiche, nei quali siano stati contestati i delitti di disastro innominato doloso (art. 434 c.p., come nei noti casi Ilva e Tirreno Power) o colposo (artt. 434, 449 c.p.).
 Una prima riflessione è improntata a sano realismo: la tesi accolta dalla Cassazione fa evidentemente cadere una mannaia sulla strategia processuale dell'accusa, che nel processo Eternit, al pari di altri processi più o meno noti e relativi a vicende analoghe, ha scelto di contestare ai responsabili delle attività industriali correlate all'amianto non già (anche o solo) i singoli omicidi/lesioni personali, bensì (solo) un macro-evento di disastro. E' una scelta che semplifica l'onere probatorio: l'accusa non deve infatti dimostrare in relazione ai singoli eventi il nesso di causalità con l'esposizione alle fibre di amianto. E' però una strategia processuale ad alto rischio suicida, come conferma la sentenza Eternit della Cassazione, non priva peraltro di precedenti, anche recentissimi, nella giurisprudenza di legittimità (mi riferisco alla sentenza Sacelit, depositata a maggio di quest'anno - clicca qui per il testo - con la quale, dopo aver anche in quel caso fissato il momento consumativo del reato in quello della cessazione dell'attività industriale, è stato dichiarato prescritto il disastro colposo da dispersione nell'ambiente di polveri di amianto).
Se si dovesse consolidare il principio della cessazione dell'attività industriale come momento consumativo del reato, la gran parte dei processi in corso per malattie professionali correlate ad attività industriali cessate da oltre un decennio è destinata allo stesso epilogo di Eternit. E lo è perché la Cassazione non ha stravolto la propria giurisprudenza sul momento consumativo del disastro, accogliendo le diverse tesi sostenute nei giudizi di merito dal Tribunale e dalla Corte d'Appello di Torino. E' questa, nella sostanza, la novità da segnalare: una novità che verosimilmente porterà i rappresentanti della pubblica accusa a modificare, dove possibile, le contestazioni di disastro (doloso o colposo), a favore della contestazione (sola o congiunta) dei singoli eventi di morte o lesioni personali (nell'ambito della stessa vicenda Eternit, d'altra parte, si è avuto notizia nei giorni scorsi di nuove contestazioni per 256 omicidi).
 Una seconda riflessione è correlata alla prima: l'epilogo della vicenda Eternit mostra quanto - de jure condito - sia irta di difficoltà la strada che porta a inquadrare la dispersione di polveri di amianto nella fattispecie del disastro (doloso o colposo che sia). E' infatti difficile individuare il momento consumativo di un simile disastro - che pacificamente, nella struttura di una fattispecie di evcento, segna il momento consumativo del reato - perché già a livello normativo - a causa dell'imprecisione della legge penale - non sono chiari i confini del disastro innominato, cioè dell'accadimento che pone in pericolo la pubblica incolumità.
E' noto come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 327 del 2008, abbia fornito attraverso una sentenza interpretativa di rigetto la sola interpretazione dell'espressione "altro disastro" (art. 434 c.p.) conforme al principio di precisione (o determinatezza) della legge penale (art. 25, comma 2 Cost.). Il disastro innominato, secondo l'interpretazione conforme a Costituzione, scolpita nella citata pronuncia della Corte costituzionale, deve essere concepito come species del genus disastro, delineato dalle figure delittuose comprese nel capo I del titolo VI del codice penale: si tratta di "un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri" contemplati nelle suddette figure di reato. Dal contesto dei delitti contro l'incolumità pubblica, e in particolare dall'analisi delle caratteristiche delle diverse figure delittuose collocate nel titolo VI del codice penale, emergerebbe dunque una nozione unitaria di disastro, che si caratterizzerebbe per un duplice concorrente profilo: "da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto diun evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie in questione (la 'pubblica incolumità') - un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti".
Alla luce di una siffatta nozione, il reato di disastro innominato si realizza se, e nel momento in cui, in conseguenza di una condotta (dolosa o colposa) si produce un evento che possiede i menzionati tratti distintivi (dimensionale e offensivo). Senonché, con riferimento alla dispersione nell'ambiente di polveri di amianto o di sostanze tossiche e inquinanti, correlata a processi produttivi protrattisi per un lungo arco temporale, la riconducibilità alla nozione di 'disastro', come sopra delineata, è ancor più problematica. La Corte, che si è pronunciata in un giudizio incidentale relativo a un caso di 'disastro ambientale', ha sottolineato la necessità di ricostruire il 'disastro innominato' come species del genusricavabile dalle figure 'nominate', alle quali deve risultare omogeneo. E proprio con riguardo al 'disastro ambientale', talora ricondotto "con soluzioni interpretative non sempre scevre da profili problematici al paradigma punitivo del disastro innominato", la Corte stessa ha auspicato un intervento del legislatore, volto a introdurre "specifiche figure criminose" a tutela della salute e dell'integrità fisica, come quella oggi all'esame del Parlamento, e di cui si è detto. Proprio in considerazione del monito rivolto dalla Corte al legislatore è quantomeno problematico ricondurre al tipo legale del 'disastro innominato' la dispersione nell'ambiente di polveri di amianto o di sostanze tossiche o inquinanti, realizzata in un lungo arco temporale nell'ambito dell'attività d'impresa.
E' vero - e lo conferma la sentenza della Cassazione nella vicenda Eternit - che il c.d. diritto vivente è consolidato nel ritenere configurabile il disastro innominato, sub specie di disastro ambientale, a fronte di gravi fatti d'inquinamento ambientale connessi all'attività d'impresa, comportanti l'insorgere di malattie professionali e/o la morte di numerose persone. Senonché - come la dottrina non ha mancato di osservare - nel 'disastro' che si assume realizzato dalla dispersione nell'ambiente di sostanze tossiche e nocive per la salute assumono profili meno definiti almeno due requisiti strutturali che caratterizzano i disastri nominati:
a) una causa violenta che inneschi il verificarsi dell'evento, da ravvisarsi in una condotta violenta, comportante cioè impiego di energia fisica (non si dimentichi l'intitolazione del capo I, titolo VI del codice penale: "delitti di comune pericolo mediante violenza");
b) un accadimento naturalistico a carattere istantaneo, o comunque con un inizio e una fine determinati, il cui manifestarsi - come nel caso dell'incendio, della frana, della valanga, dell'inondazione, ecc. - fa immediatamente sorgere il pericolo per l'incolumità pubblica.
Ammesso dunque che sia possibile individuare una condotta violenta quale causa della dispersione delle polveri di amianto nell'ambito dell'attività d'impresa, occorre comunque identificare - il che ha primario rilievo nella prospettiva del tempus commissi delicti - un evento, originato da quella condotta, che abbia il carattere subitaneo proprio dei disastri nominati, che complessivamente considerati delineano la figura generale del 'disastro'.
In linea teorica, una soluzione rispettosa del canone della legalità/precisione della legge penale è quella di riscostruire il disastro innominato come evento di natura istantanea e, pertanto, omogeneo rispetto al genus desumibile dalle figure di disastro nominato. Al di là delle difficoltà di ordine probatorio, ci sembra infatti in via di principio individuabile unmomento nel quale la concentrazione di polvere di amianto in un determinato ambiente assume dimensioni tali da esporre a pericolo la pubblica incolumità: in quel momento si realizza un disastro; si innesca una fonte di pericolo per la vita e l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone, realizzando il tipo di fatto penalmente rilevante. Ilmomento iniziale e finale dell'evento è proprio quello dell'innesco della fonte di pericolo, che in ipotesi di attività produttiva cessata non può che essere anteriore alla data di cessazione dell'attività stessa.
E' chiaro, d'altra parte, che una simile ricostruzione, sostenuta e anzi forse imposta da un'interpretazione conforme a Costituzione, condanna a morte i processi per esposizione a sostanze tossiche relativi, come nel caso di Eternit, ad attività industriali cessate da decenni.
 
Una diversa tesi, seguita dalla giurisprudenza, mette tra parentesi le indicazioni della Corte costituzionale e configura il disastro da polveri da amianto prescindendo dall'individuazione di un evento a carattere subitaneo. Il disastro, così configurato, avrebbe natura di reato permanente - una natura eterogenea rispetto ai disastri nominati - e il termine prescrizionale decorrerebbe, ai sensi dell'art. 158 c.p., dal giorno in cui è cessata la permanenza.
Le soluzioni variano, a questo punto, a seconda di cosa si intenda per 'cessazione della permanenza' e, ancor prima, per 'disastro permanente'.
 
a) Secondo una prima impostazione - accolta ad esempio nella citata vicenda Sacelit dal G.U.P. di Barcellona Pozzo (clicca qui per il testo della sentenza, datata 11 marzo 2013) - nell'ipotesi di dispersione nell'ambiente di sostanze tossiche il disastro può dirsi permanente a condizione che l'evento-disastro perduri nel tempo per effetto di una persistente condotta del reo. Si tratta - corretta o meno che sia - di un'impostazione fedele alla tradizionale e più generale nozione di reato permanente, accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. Ciò che caratterizza il reato permanente è, infatti, la volontaria e ininterrotta protrazione della condotta tipica oltre il momento di perfezione del reato, cui corrisponde la protrazione dello stato antigiuridico creato dall'agente e, con esso, dell'offesa al bene giuridico tutelato, sul presupposto che questo possa essere solo compresso e non distrutto. Chi ha realizzato un sequestro di persona, tradizionale figura di reato permanente, continua a violare la fattispecie di cui all'art. 605 c.p., e a realizzare il fatto tipico della privazione della libertà personale del sequestrato, fintanto che la condotta volontaria stessa non cessi. Ciò che permane nel reato permanente è, allora, la fase di consumazione, in corrispondenza - questo è il punto - di una permanenza della condotta tipica, la cui cessazione segna l'esaurimento della fase di consumazione del reato e, quindi, della permanenza stessa. A tale caratteristica realizzazione del fatto tipico l'ordinamento collega effetti giuridici diversi, tutti comunque ispirati all'idea per cui la permanenza della condotta tipica e dell'offesa devono ricevere adeguato trattamento, diverso da quello previsto per l'ipotesi di istantaneità della condotta stessa e dell'offesa. Così, l'art. 382 comma 2 c.p.p. dispone che nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza, e l'art. 158 c.p. prevede che, per il reato permanente, il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza. Ancora, la permanenza della fase di consumazione fa sì che "legge del tempo in cui fu commesso il reato", a norma dell'art. 2 c.p., possa essere considerata, senza violazione del principio di irretroattività, quella più sfavorevole sopravvenuta nel corso della permanenza, come pacificamente si ammette, anche da parte della giurisprudenza. Conseguenze giuridiche di un tale rilievo possono giustificarsi, si badi bene, solo alla luce della sopra esposta caratteristica volontaria protrazione della condotta tipica e dell'offesa, propria del reato suscettibile di permanenza.
Aderendo a questa impostazione, la citata sentenza del G.U.P. di Barcellona Pozzo di Gotto, nel dichiarare l'intervenuta prescrizione del reato, ha affermato che "la cessazione della condotta lesiva per fatto volontario del reo (1975) [nd.r.: data della cessata inosservanza delle contestate regole cautelari] oppure comunque per fatto a lui esterno che ne ha reso impossibile la perpetrazione (1993) [n.d.r.: anno della chiusura dello stabilimento Sacelit], segna il momento consumativo del delitto (permanente) di disastro innominato colposo".
E' chiaro che anche questa impostazione, in relazione ai casi di attività industriali cessate da decenni, vanifica per lo più gli sforzi tesi a inquadrare i fatti di esposizione a sostanze tossiche nella figura del disastro.
 
b) Secondo una diversa impostazione, accolta dal Tribunale di Torino nel giudizio di primo grado relativo al caso Eternit, il protrarsi dell'evento-disastro allungherebbe il periodo di consumazione del reato, nel senso che questo sarebbe permanente finché dura l'esposizione a pericolo della pubblica incolumità. In applicazione di questo principio di diritto il Tribunale ha affermato la permanenza del reato di disastro innominato doloso (escludendone la prescrizione) con riferimento ai soli fatti - relativi agli stabilimenti di Casale Monferrato e Cavagnolo - che hanno comportato la dispersione di polveri di amianto nell'ambiente esterno (in ragione della prassi dell'utilizzo dei residui di produzione per la costruzione di strade e abitazioni), con conseguente - ancora perdurante - esposizione della popolazione. Viceversa, il Tribunale di Torino ha ritenuto cessato il pericolo per la pubblica incolumità - e con esso la permanenza del suddetto reato, dichiarato prescritto - con riferimento ai fatti (relativi agli stabilimenti di Bagnoli e Rubiera) per i quali l'inquinamento era essenzialmente legato all'attività lavorativa, sicché, cessata questa, "è cessata quella situazione di forte e grave pericolo per l'incolumità pubblica e la salute che caratterizza il disastro".
Senonché, la tesi che fa dipendere la permanenza del disastro dal perdurare del pericolo per la pubblica incolumità - essa sì funzionale a escludere la prescrizione del reato - non persuade perché confonde la permanenza degli effetti del reato con la permanenza del reato e, ancor prima, sul piano teorico-sistematico, l'offesa al bene giuridico (il pericolo per la pubblica incolumità: c.d. evento giuridico) con l'evento (il disastro, c.d. evento naturalistico).
 
c) Secondo una tesi ancora diversa, sostenuta dalla Corte d'Appello di Torino nel caso Eternit, il disastro innominato sarebbe un reato a consumazione prolungata, che si consumerebbe con la cessazione del fenomeno epidemico (inteso come eccesso numerico delle morti e delle malattie professionali nell'area interessata, che rappresenterebbe l'evento disastroso). Avendo nel caso di specie rilevato la mancata cessazione del fenomeno epidemico in tutte le aree interessate dalla vicenda Eternit - comprese quelle nelle quali l'inquinamento è risultato limitato agli ambienti di lavoro (Bagnoli e Rubiera) - la Corte d'Appello di Torino ha riformato la sentenza di primo grado e affermato in ogni caso la permanenza del reato, escludendone l'intervenuta prescrizione. Questa tesi - anch'essa funzionale a escludere la prescrizione, ma evidentemente non accolta dalla Cassazione - confonde a nostro avviso l'evento costitutivo del disastro (il pericolo per la pubblica incolumità) con gli eventi dei delitti di lesioni (la malattia) e di omicidio colposo (la morte). Valgono perciò le considerazioni critiche che ci accingiamo a svolgere appresso (anche volendo prescindere dalla circostanza che nell'ipotesi di esposizione ad amianto il momento di cessazione del pericolo è antecedente a quello di cessazione del fenomeno epidemico, stante, il notorio periodo di latenza che caratterizza le malattie derivanti da tale esposizione).
 
d) Un'ultima tesi, infine, è del tutto funzionale all'obiettivo di escludere la prescrizione perché sgancia la consumazione del disastro dalla condotta, sostenendo la necessità di fare invece riferimento al perdurare dell'evento-disastro, che si realizzerebbe nel momento in cui le persone esposte alle polveri di amianto contraggono una malattia professionale e muoiono. E' però una tesi (sostenuta ad esempio dall'accusa nel citato caso Sacelit) in aperto contrasto con la nozione di disastro generalmente accolta, di recente con l'autorevole avallo della Corte costituzionale (sent. 327/2008), la quale ha sottolineato che un disastro è configurabile "senza che sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti". Il che significa che gli eventi morte o lesioni, correlati al disastro di cui si tratta, non possono segnare il momento consumativo del reato contro la pubblica incolumità, del quale non sono elementi costitutivi.
Se ne ha conferma d'altra parte nella giurisprudenza della Suprema Corte, che ammette il concorso tra il disastro colposo ex art. 449 c.p. e l'omicidio colposo o le lesioni personali colpose, e ciò proprio perché "la morte di una o più persone" (al pari delle lesioni) "non è considerata dalla legge come elemento costitutivo né come circostanza aggravante del reato di disastro, che costituisce un'autonoma figura criminosa". Il concorso formale di reati si giustifica d'altra parte in ragione del diverso bene giuridico tutelato: l'incolumità pubblica da un lato, la vita (o l'integrità fisica individuale) dall'altro.
Anche questa tesi, al pari di quelle considerate sopra sub c) e d), confonde l'evento pericoloso (l'evento naturalistico fonte di pericolo) con gli effetti conseguenti alla sua verificazione.
 Dietro al clamore mediatico della vicenda Eternit vi è dunque un complesso problema giuridico, che come abbiamo cercato di mostrare va oltre alla questione del dies a quo della prescrizione e svela il contrasto tra l'interpretazione costituzionalmente conforme del delitto di disastro innominato, fornita dalla Corte costituzionale nel 2008, e il diritto vivente, che ricorre a quella figura criminosa per sanzionare la causazione di eventi - come la dispersione prolungata nell'ambiente di fibre di amianto - disomogenei rispetto ai disastri nominati. Forte è il sospetto di una violazione del principio della riserva di legge, e dei suoi corollari.
L'auspicio è che proprio il clamore della vicenda Eternit possa contribuire da un lato a spingere gli operatori della giustizia ad una maggiore consapevolezza dei vincoli derivanti dalla fedeltà alla legge e ai principi costituzionali (già in sede di costruzione dei capi d'imputazione) e, dall'altro lato, a suggerire le necessarie riforme, in grado di realizzare un'adeguata prevenzione e repressione dei più gravi fatti di inquinamento ambientale, capaci di devastare la vita di noi tutti.