Con il termine “mobbing” (dall’inglese to mob attaccare o assalire), si intendono una serie di reiterati comportamenti di natura persecutoria adottati dal datore di lavoro a danno dei suoi dipendenti, in particolar modo di coloro che si ritengono “scomodi” (è il caso, piuttosto frequente, dei sindacalisti o di donne che hanno rifiutato delle avances di natura sessuale).

E’ bene precisare come, nonostante sia un tema di strettissima attualità e di notevole rilievo sociale e politico, a tuttoggi il mobbing non sia stato ancora inserito nel nostro codice penale, con l’evidente conseguenza che sussiste una grave lacuna legislativa a cui il Parlamento dovrà in tempi brevi porre rimedio.

Dal punto di vista penale, la Cassazione, con la sentenza n. 33624 del 29 agosto 2007, si è pronunciata su questo spinoso tema ed ha affermato che, all’interno del nostro sistema giuridico, non vi è alcuna norma di legge che sanzioni espressamente il mobbing.

La Suprema Corte ha ritenuto che il reato più vicino a tale forma di vessazione nei confronti del lavoratore, sia quello previsto dall’art. 572 c.p. in tema di maltrattamenti commessi da persone dotate di autorità nei confronti di un loro sottoposto.

La giurisprudenza ha precisato che costituiscono esempi di maltrattamenti gli atti di scherno e di disprezzo che cagionino, nei confronti di colui del lavoratore, un forte senso di frustrazione e di disagio che, non di rado, può sfociare in tentativi di suicidio o in atti autolesionistici. 

Inoltre, va osservato come i comportamenti persecutori posti in essere dal datore di lavoro debbano ripetersi nel tempo ed essere idonei a creare nel dipendente una sorta di timore reverenziale che, non di rado, lo costringe a rassegnare le dimissioni o accettare il demansionamento (da intendersi come passaggio a mansioni inferiori e peggiorative rispetto a quelle previste dal contratto collettivo di lavoro).

Ad avviso di chi scrive, è necessario che le varie condotte attuate dal datore di lavoro vengano differenziate, in quanto esse possono costituire diversi tipi di reati fra i quali possiamo ricordare:

1) percosse (art. 581 c.p.) intese come atti che procurano alla vittima una forte sensazione di dolore, non seguita da un periodo di malattia;

2) lesioni personali (art. 582 c.p.) intesa come lesione all’integrità fisica della persona cui segue un periodo di malattia;

3) ingiuria (art. 594 c.p.) intesa come lesione all’onore della persona;

4) minaccia (art. 612 c.p.) intesa come prospettazione di un male ingiusto e notevole nei confronti della vittima;

5) istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) intesa come volontà di rafforzare l’altrui proposito suicida ad esempio creando all’interno del luogo di lavoro un clima di forte ostilità che induca il dipendente a scegliere questa soluzione estrema. In quest’ultimo caso però risulta molto difficile fornire la prova che il datore di lavoro abbia volontariamente favorito il suicidio del lavoratore, per cui si ritiene un’ipotesi residuale e di interesse più teorico che pratico.

In concreto quindi, il lavoratore potrà presentare atto di denuncia-querela contro il proprio datore di lavoro specificando tutti comportamenti che caratterizzano le ipotesi di mobbing, è bene precisare che, qualora la durata della malattia sia superiore a venti giorni, il reato di lesioni personali di cui all’art. 582 c.p., è procedibile d’ufficio mentre la relativa competenza è attribuita al Tribunale in composizione monocratica anziché al Giudice di Pace.

L’analisi di questi reati dimostra chiaramente come lo strumento penale sia difficilmente percorribile perché insufficiente a garantire un’efficace tutela a favore dei dipendenti, incentivati, pertanto, a rivolgersi al Giudice civile per soddisfare le proprie pretese.

A tal proposito, va ricordato che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di provvedere all’adozione di tutte le misure indispensabili affinché, sul luogo di lavoro, venga salvaguardata l’integrità fisica e morale del lavoratore, corollario del diritto alla salute riconosciuto dall’art. 32 della nostra Costituzione.

Il lavoratore ha perciò la possibilità di citare il giudizio il proprio datore di lavoro, responsabile ai sensi dell’art. 2043 c.c., in base al quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto al risarcimento del danno”.

Il mobbing è certamente un fatto illecito in quanto tende a realizzare, con modalità particolarmente insidiose ed umilianti per colui che le subisce, l’emarginazione del lavoratore; un tipico esempio è costituito dal tentativo di sottoporre il dipendente ad un’attività estenuante ed usurante.

Sul datore di lavoro grava, pena la responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., l’obbligo di prevenire e scoraggiare eventuali condotte vessatorie poste in essere (anche dai suoi preposti e/o collaboratori) nei confronti dei lavoratori.

Un’interessante pronuncia del Tribunale di Forlì del 10 marzo 2005 ha differenziato tra ipotesi di mobbing orizzontale (azioni intimidatorie poste in essere dai colleghi di lavoro di pari grado) ed ipotesi di mobbing verticale (azioni intimidatorie poste in essere dai superiori)

Ricordiamo che, trattandosi di fatto illecito, compete al lavoratore-danneggiato provare la responsabilità del datore di lavoro-danneggiante richiedendo l’audizione di testi che confermino le condotte vessatorie e degradanti subìte dal dipendente.

Un problema che può porsi è rappresentato dal fatto che, qualora vengano indicate persone dipendenti della medesima azienda contro la quale è stata intentata la causa civile per mobbing, le stesse potrebbero chiedere di non testimoniare al fine di evitare possibili ritorsioni dirette a causare il licenziamento o il trasferimento immotivato ad altra sede produttiva.

Inoltre, al fine di rafforzare la richiesta di risarcimento danni, è utile munirsi di una perizia medico-legale redatta da uno specialista nel settore, il quale sottolinei il nesso di causalità tra i trattamenti umilianti inflitti al lavoratore e il danno biologico (danno alla salute) riportato a seguito di pratiche che hanno lo scopo di prostrare psicologicamente il sottoposto.

Infatti, il lavoratore a cui sistematicamente viene impedito di svolgere con professionalità la propria attività e che viene fatto oggetto di contegni aggressivi, subisce un grave pregiudizio che può compromettere in modo irreversibile la sua salute.

Di conseguenza, il Giudice civile chiamato a decidere sul merito della causa dovrà necessariamente tenere conto del danno alla salute che, essendo inquadrabile nel concetto di “danno biologico”, sarà liquidato tenendo conto di diversi fattori (numero episodi, conseguenze per il lavoratore, ecc.).   

Il mobbing si stia diffondendo notevolmente sia all’interno delle aziende private, sia all’interno delle aziende pubbliche; purtroppo, nonostante varie sollecitazioni da partiti e sindacati, a tuttoggi, non è stata previsto alcun efficace strumento legislativo per prevenire tale pratica.

In conclusione, è sicuramente auspicabile un intervento del legislatore che, alla stregua del reato di “stalking” introdotto con la recente Legge n. 38/2009, stabilisca con assoluta chiarezza le condotte poste in essere dal datore di lavoro che siano idonee a realizzare una forma di “terrore” di natura psicologica a carico del lavoratore.