Il D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 agosto 2003 n. 187, costituisce "attuazione della direttiva 2000/78/ CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro". Dalla lettura della relazione governativa a tale provvedimento legislativo emerge che la citata direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o l'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. A tale scopo, quindi, il d.lgs. n. 216/2003 fornisce, all'art. 2, c. 1, la definizione di discriminazione diretta (lettera a) e indiretta (lettera b); nell'art. 2, inoltre, vengono ricomprese tra le discriminazioni anche le molestie, intese come comportamenti indesiderati che violano o ledono la dignità di una persona o creano un clima intimidatorio e ostile. Può, pertanto, ritenersi che, adottando tale nozione di molestie, il legislatore abbia inteso ricomprendere nel concetto di discriminazione anche quel fenomeno definito correttamente con il termine di derivazione anglosassone, mobbing.

Va, però, precisato che, seppure il c. 3 dell'art. 2 stabilisce che sono considerate discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati «aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo», e quindi anche i comportamenti cosiddetti mobbizzanti tuttavia, per espresso disposto normativo, tali comportamenti lesivi devono pur sempre essere «posti in essere per uno dei motivi di cui all’art. 1”, cioè devono essere connotati finalisticamente e teleologicamente in ragione della religione professata dal soggetto leso, ovvero delle sue convinzioni personali, dell’handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale.

Da quanto sopra discende che per potersi configurare la violazione delle norme sopra richiamate è necessario che il lavoratore risulti vittima di comportamenti vessatori e prevaricatori (anche non autonomamente sanzionabili) da parte di colleghi e superiori,  ripetuti in maniera frequente e duratura, al fine di danneggiarlo, principalmente in ragione dell’handicap di cui lo stesso è portatore,  della religione professata dal soggetto leso, ovvero delle sue convinzioni personali, dell’età o dell’orientamento sessuale.

Tutte le condotte a danno del lavoratore, contrari ai più elementari canoni di buona fede e correttezza contrattuale, devono essere realizzate scientemente per mortificare il lavoratore dimostrando, che egli, in quanto portatore di handicap, per la religione professata, ovvero per le sue convinzioni personali, in ragione dell’età o dell’orientamento sessuale conta tanto poco da non meritare neppure di essere informato su scelte che lo riguardano direttamente (di sovente progressioni o avanzamenti nell’ambiente lavorativo).

Tali comportamenti, se costituiscono una vera e propria strategia coerente e premeditata ai danni di una vittima ben precisa con l’intento lesivo di distruggerlo, allontanarlo, degradarlo, rientrano in quello che comunemente viene definito mobbing.

L’attuale psicologia del lavoro (i primi studiosi sono stati Hans Leymann ed in Italia Harold Ege) indica con questo termine una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, la reputazione e/o la professionalità della vittima.

Costituiscono elementi imprescindibili al fine di potere configurare il mobbing stesso secondo gli studiosi della materia: la reiterazione delle condotte (costituite da negozi, atti, meri comportamenti), non necessariamente illecite se considerate in sé, per un arco di tempo apprezzabile (almeno sei mesi, secondo alcuni studiosi) e la loro intenzionalità (da non considerarsi come coscienza specifica del fine ma come finalità riprovevole in relazione alla lesione dei beni della dignità personale e della salute psico-fisica).

Dalle scienze del lavoro (psicologia e sociologia applicate) si ricava la definizione dello stesso e si individuano i suoi caratteri fenomenologici; dal loro esame, deve riconoscersi che ciò che differenzia il mobbing da altre figure di illeciti, come anzi visto, è dunque la sua capacità di unificare in una fattispecie unitaria illecita una pluralità di azioni, atti, negozi e comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere anche neutri, ma il cui (reale) fine (dannoso ed illecito) si apprezza soltanto se letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica complessiva.

Il mobbing, pertanto, va visto come fenomeno capace di rappresentare unitariamente una fattispecie complessa e di dare ai suoi comportamenti un significato unitario.

Secondo la Giurisprudenza della Suprema Corte, portando il discorso sul piano giuridico, si osserva che, allo stato attuale della legislazione, la fattispecie del mobbing si presenta in contrasto con alcuni fondamentali precetti costituzionali: di certo, con quello dell’art. 2, che tutela la dignità dell’uomo (anche) nella formazione sociale ambiente di lavoro; ma anche con quello dell’art. 3, 1° comma Cost., che vieta discriminazioni in ragione delle diverse condizioni personali, nonché con l’anzi richiamato d.lgs. 216/2003.

Il mobbing si pone, inoltre, in contrasto con il principio di tutela della salute sancito dall’art. 32 Cost. essendo evidente che il fenomeno in esame può incidere negativamente sul benessere psico-fisico (si parla al riguardo, per descrivere gli effetti del mobbing sulla salute, di sindrome post-traumatica da stress).

Nessun dubbio sull’applicabilità della figura anche al settore dell’impiego pubblico particolarmente dopo la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la devoluzione conseguente al giudice del lavoro delle relative controversie. Non si deve dimenticare che la tutela costituzionale del lavoro è estesa dall’art. 35 Cost. a tutte le forme dello stesso, quindi anche alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni; in questo settore potrà richiamarsi  l’art. 97 Cost. e la regola generale del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione, concetti in evidente contrasto con il fenomeno del mobbing ed incompatibili con lo stesso (Trib. di Forlì 28.1.2005 Est. Sorgi).

Alla luce di quanto sopra, dunque, non par dubitabile che possa già riconoscersi allo stato attuale della legislazione protezione dal mobbing, risolvendosi esso in una figura idonea ad unificare fattispecie di danno patrimoniale ove (com’è nella specie) possano individuarsi comportamenti e atti idonei a configurarlo, nonché di danno non patrimoniale sub specie di danno biologico (temporaneo e permanente), di danno alla dignità e personalità morale, di danno all’immagine ed all’onore del prestatore di lavoro (già oggi pacificamente risarcibili) ed anche situazioni  che, avulse dal contesto in cui si iscrivono, non sarebbero illecite.

La Suprema Corte ha al riguardo, specificato che la responsabilità può essere sia contrattuale, per violazione dell’art. 2087 c.c., sia extra contrattuale, per violazione dell’art. 2043, c.c., sia concorrente nonché derivante dalla violazione dei diritti soggettivi primari.

In conclusione può esservi un concorso tra responsabilità contrattuale ed extra contrattuale che si risolve di fatto nel cumulo delle due azioni in quanto la responsabilità contrattuale dell’imprenditore derivante dall’art. 2087 c.c. di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei dipendenti, può concorrere con la responsabilità extracontrattuale dello stesso datore di lavoro che sussiste qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro (lesione della salute, della personalità, ecc. ecc.)

La fattispecie di responsabilità va così ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quali il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio (Cass. Civ. SS.UU. 4.5.2004 n. 8438).

La condotta del datore di lavoro finisce quindi con il ledere un interesse tutelato non solo nello specifico rapporto di lavoro ma anche in una norma quale l’art. 2043 c.c. che si rivolge alla totalità dei consociati.

Infatti, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., deve fare tutto quanto è in suo potere per prevenire situazioni di possibile nocumento morale dei lavoratori (secondo il principio della massima sicurezza possibile in un dato momento storico, su cui v., p. es. Cass. 29 dicembre 1998, n. 12863; Id. 3 aprile 1999, n.3234) e, se tali situazioni si presentano, attivarsi per farle cessare il prima possibile, ripristinare lo stato salutare e risarcire l’eventuale danno cagionato.

Da ciò discende la responsabilità del datore anche ove  (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia stato posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (Cass. Sez. Lav. 9.9.2008 n. 22858).

Ne segue, peraltro,  che la prova liberatoria incombe sul datore di lavoro, il quale, ai sensi dell’art. 1218, c.c., dovrà provare che l’inadempimento è dipeso “da causa a lui non imputabile”, mentre il lavoratore dovrà dimostrare il danno ed il nesso casuale tra l’evento sofferto ed il comportamento datoriale; al riguardo, il datore dovrà rigorosamente dedurre e provare di aver espletato adeguata e costante sorveglianza e, più in generale, di aver preso tutte le misure e precauzioni per evitare il pericolo d’insorgenza della situazione dannosa.

Nella categoria del danno non patrimoniale, poi, superata la bipartizione nelle componenti del danno morale  e del danno biologico, la figura aggiuntiva del danno esistenziale si presta a salvaguardare il profilo relazionale-sociale dell’individuo, che viene così protetto in tutte le attività e manifestazioni espressive della personalità anche esteriori laddove il danno morale è inteso come dolore, interiore sofferenza, patimento o stato di angoscia secondo la definizione fornita dalla Corte Costituzionale.

Fermo restando che per Giurisprudenza pacifica della Suprema Corte la qualificazione giuridica della responsabilità spetta al Giudice indipendentemente dalla qualificazione prospettata dal danneggiato sub specie di responsabilità contrattuale, extracontrattuale o da contatto sociale: è pertanto, irrilevante, come la richiesta di risarcimento sia stata qualificata (cfr. da ultim. Cass. Civ. SS.UU. 22.2.2010 n. 4063).

Sulla scorta di tali principi, il lavoratore vittima del mobbing ha diritto alla riparazione di tutti gli aspetti non patrimoniali dei danni sofferti, nonché dei danni patrimoniali derivanti dagli atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro.

Nella maggior parte dei casi il mobbing produce conseguenze negative sul piano della sfera neuropsichica della vittima.

Si può anzi affermare che il danno psichico è il tipico danno subito dalla vittima di mobbing; il danno biologico (o danno psichico o danno biologico di natura psichica, temporaneo e permanente) il danno morale ed il danno esistenziale sono tutte categorie che possono dare ospitalità ai pregiudizi di ordine psichico.

Deve al proposito osservarsi che, come ritenuto da pacifica Giurisprudenza, ai fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come conseguenza certa ed inequivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata (Cass. Civ. 116.2009 n. 1353; Cass. Civ. 30.11.2009 n. 25236; e da ult. Cass. Civ. Sez. Lav. 17.6.2011 n. 13356).

Chiara e lapidaria in proposito la Suprema Corte:

I provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità professionale e la vita di relazione del lavoratore danno. Il danno non patrimoniale in subiecta materia deve essere appunto inteso come categoria ampia comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, che non si esaurisca nel danno morale e che non sia correlato alla qualifica di reato. Il danno da dequalificazione professionale attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall'art. 2 cost., avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell'ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di "chances" per futuri lavori di pari livello.”(Cass. Lav. 10157/2004).

La Suprema Corte a Sezioni Unite ha di recente precisato come nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti, spettando al lavoratore il risarcimento dei danni non patrimoniali comprensivo di tutti i pregiudizi subiti (Cass. Civ. SS. UU. 22.2.2010 n. 4063).