Il personale dirigenziale pubblico è, secondo la vigente normativa legislativa e pattizia, soggetto ad una triplice tipologia di responsabilità.   1) La peculiare responsabilità dirigenziale gestionale come prevista dall’art. 21 D.Lgs. n. 165/01: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.   2)  la responsabilità amministrativa che si configura in presenza dei seguenti peculiari elementi: - comportamento caratterizzato da dolo o della colpa grave; - sussistenza di danno erariale; - accertata violazione di regole di condotta amministrativa ed in particolare dalla violazione delle norme sostanziali e procedimentali poste a guida della attività gestionale.   3) quella disciplinare.   Le due ultime sono comuni, peraltro, a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.   La così detta responsabilità dirigenziale, peculiare come si accennava ai dirigenti, costituisce diretta conseguenza della netta separazione di compiti e ruoli tra il vertice politico e quello amministrativo delle pubbliche amministrazioni: quest’ultimo costituito dalla dirigenza cui è stata integralmente affidata la attività di gestione volta al conseguimento degli obiettivi programmati dai vertici politici e degli specifici interessi pubblici cui è preposta la singola amministrazione.     Allo scopo il dirigente deve, dunque, essere in grado di utilizzare al meglio le risorse umane, finanziarie e strumentali poste a sua disposizione, operando sempre, e contestualmente, nel rispetto del principio di legalità, buona amministrazione e imparzialità oltre che dei criteri di efficacia, speditezza, economicità, pubblicità e trasparenza.   Al potere gestionale affidato alla dirigenza, da esercitare secondo i su indicati principi per poter realizzare quanto prefissato dagli organi di indirizzo politico, si contrappone una maggiore responsabilizzazione del personale burocratico amministrativo posto all'apice dell' organizzazione pubblica con la conseguenza che il dirigente, nel realizzare gli obiettivi assegnati ed al fine di non disperdere inutilmente risorse finanziarie pubbliche (con probabile anche danno all'erario) deve perseguire una sana gestione tale da concretizzare le direttive al medesimo impartite dal competente organo politico.   Nell’analisi del tema rileva da un lato, la valutazione delle prestazioni del dirigente e cioè il cosa è stato ottenuto in termini di risultato dell’azione amministrativa e di gestione, tenendo in considerazione non solo l’ordinaria attività amministrativa ma anche l’attività progettuale sostanziata; dall’altro, nel nuovo sistema dei controlli, la valutazione del personale dirigenziale ha ad oggetto le competenze organizzative espresse, cioè il come i risultati sono stati ottenuti, verificando i comportamenti dirigenziali sotto il profilo dello sviluppo delle risorse professionali, umane ed organizzative.   La disciplina della responsabilità dirigenziale si fonda su una clausola generale ed in alcune disposizioni specifiche della prima.   La prima è costituita dall'art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui i dirigenti «sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati»; affiancata da previsioni specifiche contenute nell'art. 21 del D.Lgs. n. 165/2001 e nel D.Lgs. n. 286/1999.   Il testo dell'art. 21, come riformulato dalla legge n. 145/2002, nel mantenere una graduazione delle forme di responsabilità, non la collega più a diverse ed articolate fattispecie, bensì ad una sola coppia di ipotesi, individuate nel "mancato raggiungimento degli obiettivi" e nella "inosservanza di direttive", che danno luogo a diverse misure in ragione della loro gravità.   In relazione a detta gravità il legislatore prevede tre diverse sanzioni individuate rispettivamente nell'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale di cui il soggetto è titolare nel caso di responsabilità lieve; nella revoca dall'incarico, con collocazione del dirigente in disponibilità nel ruolo della pubblica amministrazione, nel caso di responsabilità media; nel recesso dell'amministrazione, da attuare secondo le disposizioni della contrattazione collettiva nel caso di responsabilità grave.   In dottrina è stata individuata come ulteriore fattispecie di responsabilità dirigenziale risulterebbe, altresì delineata dalla legge n. 4/2004 recante “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici” il cui articolo 9 espressamente prevede che l'inosservanza delle disposizioni ivi contenute comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare ai sensi degli articoli 21 e 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ferme restando le eventuali responsabilità penali e civili previste dalle norme vigenti con espresso riferimento alla inosservanza delle disposizioni della legge stessa.   La Giurisprudenza ha così ricostruito l’intera materia:   L'individuazione delle funzioni (e delle connesse responsabilità) dirigenziali risponde alla necessità di razionalizzare l'organizzazione della pubblica amministrazione e raffigura un nuovo modo di concepire il ruolo dirigenziale, improntato ad una logica privatistica di valutazione del rapporto costi/benefici e finalizzato, quindi, all'emersione dei profili di responsabilità, quali indici della peculiarità della funzione dirigenziale. In tale contesto, all'Amministrazione risulta attribuito in sostanza un potere- dovere di adeguare la propria struttura organizzativa (nel rispetto dei principi di legalità, imparzialità, efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa fissati dall'art. 97 Cost.), individuando le funzioni necessarie dell'ente in rapporto ai servizi da rendere ai cittadini ed accertando così le effettive funzioni dirigenziali, da graduare poi in considerazione della loro rilevanza per la struttura dell'ente stesso (T.A.R. Trentino Alto Adige Bolzano, 08 agosto 2008, n. 290).   Nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni la durata minima dell'incarico dirigenziale a termine - prevista originariamente in due anni ed attualmente fissata in tre anni (art. 19, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001 come mod. dall'art. 14-sexies l. n. 168 del 2005) - comporta solo che il termine apposto al contratto non può essere inferiore a quello previsto dalla legge, ma non implica alcuna insensibilità del rapporto al verificarsi di una situazione di giusta causa di recesso per accertata responsabilità dirigenziale prima della scadenza di tale termine minimo, così da configurare come illegittima l'anticipata risoluzione del rapporto stesso (Cassazione civile, sez. lav., 19 giugno 2007, n. 14186).   La durata minima dell'incarico dirigenziale a termine, prescritta in generale (originariamente) dall'art. 19 comma 2 d.lg. n. 165 del 2001, ed attualmente fissata in tre anni ai sensi dell'art. 14 sexies d.l. n. 115 del 2005, conv., con modificazioni, nella l. n. 168 del 2005, sta solo a significare che il termine apposto al contratto non poteva essere inferiore a due anni, ma non implicava alcuna insensibilità del rapporto al verificarsi di una situazione di giusta causa di recesso per accertata responsabilità dirigenziale in virtù dell'art. 21 dello stesso d.lg. n. 165 del 2001 prima della scadenza di tale termine minimo del rapporto, sicché si configurava come legittima, in tale evenienza, l'anticipata risoluzione del rapporto stesso (Cassazione civile, sez. lav., 19 giugno 2007, n. 14186).   Nel nuovo sistema del lavoro c.d. "privatizzato", ovvero contrattualizzato, alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la qualifica dirigenziale non esprime più una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una "carriera" e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente, che tale qualifica ha conseguito mediante il contratto di lavoro stipulato all'esito della prevista procedura concorsuale. Il dirigente svolge le funzioni inerenti alla qualifica solo per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale attraverso un provvedimento al quale accede un contratto individuale abilitato a definire il corrispondente trattamento economico, il tutto in vista di determinati obiettivi. La legge (come previsto già dall'art. 21 del d.lg. n. 29 del 1993, poi sostituito dall'art. 14 del d.lg. n. 80 del 1998, quindi recepito nell'attuale art. 21 del d.lg. 30 marzo 2001 n. 165), a seconda della gravità dei casi, legittima la p.a. datrice di lavoro a rimuovere il dirigente dall'incarico dirigenziale senza toccare il sottostante rapporto di lavoro, ovvero a recedere sia dall'incarico che dal rapporto di lavoro; ma se il recesso è inefficace, la posizione giuridica del dipendente, sia nell'uno che nell'altro rapporto, resta quella che era prima del recesso illegittimamente operato (Cassazione civile, sez. lav., 20 febbraio 2007, n. 3929).   A differenza del rapporto dirigenziale privato, dove vige il principio della recedibilità ad nutum a norma dell'art. 2118 c.c., nel pubblico impiego il mancato raggiungimento degli obiettivi comporta tre sbocchi graduati a seconda della gravità del caso, tutti causali: l'impossibilità di rinnovo dell'incarico, la revoca dello stesso, o il recesso dal rapporto di lavoro (Cassazione civile, sez. lav., 01 febbraio 2007, n. 2233).   Poiché la disciplina della dirigenza privata non è sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica, e il rapporto dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, a quello della categoria impiegatizia, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ed è assoggettata, ex art. 51 comma 2 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165 alla disciplina dello statuto dei lavoratori; pertanto, il dirigente illegittimamente licenziato dall'Amministrazione ha diritto alla reintegrazione ex art. 18 st. lav. (Cassazione civile, sez. lav., 01 febbraio 2007, n. 2233).   E’ legittimo il licenziamento disciplinare irrogato al dirigente sanitario che abbia violato gli obblighi di fedeltà, e non concorrenza, nonostante il parere contrario espresso dal comitato dei garanti (nella specie, il dirigente sanitario aveva reiteratamente invitato i pazienti a non avvalersi delle strutture dell'azienda sanitaria, prospettando lunghe liste d'attesa ed inadeguate professionalità) (Corte appello Firenze, 31 gennaio 2006).   I dirigenti, oltre ad una responsabilità disciplinare, sono soggetti ad un tipo di responsabilità specifica ed aggiuntiva, la quale sorge per l'inidoneità del dirigente a conseguire gli obiettivi indicati dagli organi di governo nell'esercizio delle loro funzioni di indirizzo politico-amministrativo. L'una e l'altra forma di responsabilità vanno accertate, in base a quanto disposto dalla indicata disposizione, secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, valutata, la responsabilità dirigenziale, sia sotto il profilo del mancato raggiungimento degli obiettivi che sotto quello dell'inosservanza delle direttive, con i sistemi e le garanzie dell'art. 5 d.lg. 30 luglio 1999 n. 286 (Tribunale Trapani, 26 novembre 2003).   L' art. 3, comma 7 l. 15 luglio 2002 n. 145 (che ha previsto la cessazione automatica a decorrere dal sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della legge stessa delle funzioni dirigenziali di livello generale e di quella di direttore generale degli enti vigilati dallo Stato), deve essere interpretato restrittivamente, in considerazione del suo carattere eccezionale. Esso stabilisce, in via transitoria, un'ipotesi di esonero dall'incarico dirigenziale che prescinde dal procedimento di valutazione dei risultati raggiunti, così come disciplinato negli art. 20 e 21 d.lg. n. 165 del 2001. L' art. 3, comma 7 l. 15 luglio 2002 n. 145, rinviene la propria "ratio" nell' esigenza di garantire una stretta sintonia tra il Governo e le massime articolazioni dell'amministrazione statale, tanto da far sì che tutti i dirigenti generali, che costituiscono lo "staff" di immediato riferimento del ministro, siano di sua stretta fiducia. Non è quindi applicabile nei confronti di enti pubblici (nella specie l' I.s.p.e.l.s.) dotati di autonomia organizzativa e di bilancio, nei cui confronti intervento del ministro si limita a mera vigilanza e quest'ultimo non ha come referente immediato il dirigente del dipartimento ma solo il direttore generale (Tribunale Roma, 25 novembre 2002).   L'art. 3, comma 7, l. 15 luglio 2002 n. 145 (che ha previsto la cessazione automatica a decorrere dal sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della legge stessa delle funzioni dirigenziali di livello generale e di quella di direttore generale degli enti vigilati dallo Stato), deve essere interpretato restrittivamente, in considerazione del suo carattere eccezionale. Esso stabilisce, in via transitoria, un'ipotesi di esonero dall'incarico dirigenziale che prescinde dal procedimento di valutazione dei risultati raggiunti, così come disciplinato negli art. 20 e 21 d.lg. n. 165 del 2001 (Tribunale Roma, 25 novembre 2002).   L'atto privatistico di conferimento non attribuisce alcun diritto all'assegnazione delle funzioni e del posto connessi all'incarico dirigenziale fino a quando non sia seguito dalla stipulazione del contratto di incarico, la cui conclusione vincola reciprocamente le parti, impedendo all'amministrazione di procedere alla sottrazione dell'incarico se non nei casi in cui ricorrano le condizioni per esercitare la facoltà di revoca. Prima della stipula del contratto il dirigente si trova nella stessa situazione di un qualsiasi contraente nella fase delle trattative (Corte appello L'Aquila, 08 gennaio 2002).   Gli atti di conferimento degli incarichi di livello dirigenziale non generale sono riconducibili alle misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, riservate agli organi preposti alla gestione, e sono assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, risultando ad essi inapplicabile la l. n. 241 del 1990 (Corte appello L'Aquila, 08 gennaio 2002).   La nomina dei dirigenti generali da parte della giunta regionale non costituisce atto di libera scelta con criterio fiduciario, e quindi scevro da qualsiasi limite, ma deve tradursi in un atto di nomina adeguatamente motivato, allorquando dal "curriculum" del nominato dirigente non emerga immediatamente il possesso di requisiti professionali idonei a costituire, ancorché per implicito, una congrua motivazione (Consiglio Stato, sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 246).