L'inquadramento normativo del delitto di diserzione.  La decisione che si annota offre l'occasione per fare il punto su alcune questioni controverse giunte all'attenzione della giurisprudenza in tema di diserzione, nonché per tracciare un'analisi della casistica sulle eventuali cause di esclusione dell'elemento psicologico.

Nell'ambito del complesso quadro normativo che delinea i reati di assenza dal servizio la miglior dottrina (Brunelli - Mazzi, Diritto penale militare, II ed. Giuffrè 1998) distingue le fattispecie penali a seconda che il fatto consista nella mancata assunzione del servizio ovvero nell'arbitraria interruzione dello stesso.

Nella prima ipotesi l'art. 151 c.p.m.p. punisce con il delitto di mancanza alla chiamata "il militare, che, chiamato alle armi per adempiere al servizio di ferma, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso".

   Nel secondo caso, invece, l’arbitraria interruzione del servizio può riflettersi in due condotte: l'una attiva consistente nell'allontanamento dal servizio senza autorizzazione; l'altra omissiva costituita dalla mancata riassunzione del servizio stesso, senza giusto motivo, al termine di una legittima assenza.

In entrambe le accennate condotte l'assenza superiore a cinque giorni integra il reato di diserzione (art. 148 nn. 1 - 2 c.p.m.p.), mentre quella per un giorno il meno grave delitto di allontanamento illecito (art. 147 c.p.m.p.).

Appare, quindi che l'arbitraria interruzione del servizio venga punita secondo un modello sanzionatorio progressivo, a seconda della durata dell’assenza.

A tali conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui i reati di allontanamento illecito e di diserzione si diversificano fra loro solo per la maggior durata dell'assenza arbitraria, che nell'ipotesi di cui all'art. 148 c.p.m.p. è di cinque giorni consecutivi, avendo in comune tutti gli altri caratteri fondamentali (cfr. Cass. Pen. 21/1/1994 – Cass. Pen. 6/6/1986).

Alcuni profili problematici nella prassi giurisprudenziale. Come è noto, l'art. 148 c.p.m.p. testualmente dispone che "commette il reato di diserzione 1° il militare, che, essendo in servizio alle armi, se ne allontana senza autorizzazione e rimane assente per cinque giorni consecutivi; 2° il militare, che, essendo in servizio alle armi e trovandosi legittimamente assente, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso".

Orbene, la norma testè richiamata prevede due diverse forme di diserzione che vengono tradizionalmente definite diserzione propria e diserzione impropria.

Secondo l'interpretazione costante della giurisprudenza la distinzione consiste, sotto il profilo della condotta, nel fatto che l'assenza arbitraria del militare dal servizio alle armi per cinque giorni consecutivi (costituente l'elemento materiale comune ad entrambe le ipotesi di reato) dipende, nella diserzione cd. propria, dall'allontanamento dal servizio senza autorizzazione mentre, nella diserzione cd. impropria, dalla mancata ripresentazione al servizio senza giusto motivo da parte del militare legittimamente assente (cfr. Cass. Pen. 28/3/1988 – Cass. Pen. 31/3/1994).

   Nell’ambito della diserzione cd. impropria un profilo di particolare interesse ha suscitato l’individuazione del concetto di giusto motivo, che è stato variamente interpretato.

Sul punto, la dottrina ha affermato che deve trattarsi di un impedimento di natura transitoria ed improvvisa, che può avere carattere sia fisico sia morale, senza però giungere ad integrare gli estremi della forza maggiore o dello stato di necessità essendo piuttosto sufficiente “che, secondo l’apprezzamento del giudice, vi sia stato un condizionamento della condotta per cui l’assenza appaia priva del disvalore ad essa attribuito” (cfr. Veutro, Manuale di diritto e procedura penale militare, Giuffrè 1976).

Secondo un primo orientamento della S.C., nel reato di diserzione impropria - ai fini della configurabilità del giusto motivo che legittima la mancata presentazione nei cinque giorni successivi a quello prefissato per il rientro al reparto - l’eventuale impedimento alla presentazione deve trarre origine da una situazione transitoria ed improvvisa, non potendo ricondursi ad uno stato fisico o, comunque, ad un’esigenza permanente, preesistente all’inizio dell’assenza dal servizio (cfr. Cass. Pen. sez. I, 20/5/1998, D’Antimi).

Nel caso di specie, è stato ritenuto che non costituisse giusto motivo la condizione di tossicodipendente; tale situazione, infatti, incide sull’attitudine in sé del soggetto a prestare il servizio militare, e non sulla presenza al reparto tutelata dalla norma incriminatrice, rispetto alla quale assume efficacia scriminante soltanto un impedimento contingente.

In tema di situazioni personali, economiche e familiari del disertore si è statuito che le disagiate condizioni economiche della famiglia possono portare, ove ne ricorrano i presupposti, ad una dispensa dal compiere la ferma di leva, ma non costituiscono giusto motivo (cfr. Cass. Pen., 28/6/1990, Biscotti).

Ed ancora, perché un’infermità psichica abbia rilevanza come giusto motivo, per l’esclusione del reato di diserzione, è necessario che essa concreti un impedimento, ancorché non assoluto né tale da costituire pericolo di danno grave alla persona, di entità tale da costringere o anche solamente indurre l’imputato ad omettere di riassumere il servizio (cfr. A. Mil. Napoli, 4/5/1991, Caccavale).

Quanto alla natura giuridica del giusto motivo in una decisione non recentissima è stato sancito che esso non costituisce un'esimente, bensì un elemento integrativo della fattispecie, per cui non si applica nemmeno il regime previsto dall’art. 59 secondo cpv. c.p. per le scriminanti putative.

Ne deriva, ulteriormente, che il giusto motivo non può essere confuso né con la forza maggiore (art. 45 c.p.), né con lo stato di necessità (art. 54 c.p.) i quali invece afferiscono ad un reato già perfetto (cfr. Cass. Pen., 10/3/1986, Lazzini).

   La distinzione tra diserzione propria ed impropria, sopra riferita, rileva anche ad altri effetti.

Infatti, una questione che ha tenuto a lungo impegnata la giurisprudenza è stata quella relativa al militare che omette di rientrare dalla libera uscita.

Per lungo tempo, la Corte di Cassazione ha qualificato tale condotta come diserzione propria, sul presupposto che il militare in tale occasione dovesse esser comunque considerato in servizio.

Si è sostenuto, in particolare, che la libera uscita pur consentendo al militare di allontanarsi momentaneamente dalla caserma, non può integrare un'ipotesi di legittima assenza dal reparto, in quanto il  soggetto, anche se fisicamente assente dalla caserma, deve essere considerato legittimamente in servizio e, quindi, presente al reparto di appartenenza ad ogni effetto giuridico; ne consegue che l'assenza protrattasi per un periodo di tempo superiore a cinque giorni deve essere qualificata come diserzione propria, atteso che tale assenza manca di una legittima autorizzazione iniziale (cfr., da ultimo, Cass. Pen. 31/3/1994).

Tuttavia l'indirizzo giurisprudenziale è mutato in tempi più recenti giungendosi ad affermare che il militare in libera uscita deve considerarsi legittimamente assente dal servizio, con la conseguenza che in caso di allontanamento dal reparto per oltre cinque giorni consecutivi egli potrà esser chiamato a rispondere del reato di diserzione impropria (cfr., in senso conforme, Cass. Pen. sez. I, 20/4/1999, Cusano - Cass. Pen. 3/6/1999 n. 621 - Cass. Pen. 23/9/1999 n. 5131 - Cass. Pen. 8/11/1999 n. 950 - Cass. Pen. 14/2/2000 n. 1009 - Cass. Pen. 16/3/2000 n. 1993).

Tale diversa e, per certi aspetti, più favorevole interpretazione giuridica consente al giudice anche di poter valutare l'eventuale sussistenza di un giusto motivo quale scriminante dell'assenza contestata (cfr. Trib. Mil. Napoli, 14/5/1998, Romano su Riv. Pen., 1998, 701 con nota di Nunziata).

Altre questioni rilevanti. La dottrina dominante ritiene che la diserzione abbia la natura giuridica di reato permanente, dimodochè esso si perfeziona quando l'arbitraria assenza raggiunge il termine minimo richiesto dalla norma, protraendosi ininterrottamente finchè non cessa la condotta antigiuridica  a seguito di presentazione spontanea, arresto o collocamento  in congedo del militare.

Anche la giurisprudenza ha costantemente attribuito alla diserzione la natura di reato permanente.

Infatti, è stato affermato che la condotta penalmente sanzionata dall'art. 148 c.p.m.p. consiste nell'assenza arbitraria dal servizio protrattasi per un certo tempo, indicato dalla norma incriminatrice in cinque giorni (cfr. Cass. Pen. sez. I, 3/4/1997, Morelli).

Il delitto in questione, dunque, si realizza con l'inutile spirare di tale termine, il quale decorre dal momento dell'allontanamento arbitrario o dall'ingiustificata inosservanza della data fissata per il rientro, che si pongono come punti di partenza di una condotta antigiuridica avente carattere di continuità e la cui protrazione è rimessa alla volontà dell'agente.

Dette componenti - perdurare nel tempo del comportamento delittuoso e possibilità, per il soggetto che lo pone in essere, di far cessare la situazione dannosa - caratterizzano il reato permanente il quale è connotato, altresì, dal progressivo aumento del pregiudizio del fatto iniziale.

La particolare struttura del reato di diserzione dispiega, altresì, i propri effetti sulla durata dell'assenza che, se superiore a sei mesi ovvero inferiore a quindici giorni, determina rispettivamente l’applicazione di un’aggravante obbligatoria o di un’attenuante facoltativa (art. 154 c.p.m.p.).

   Ma la natura di reato permanente ha suscitato l'attenzione della giurisprudenza anche con riferimento ai casi in cui l'assenza possa cessare.

Un'ipotesi di cessazione dell'assenza che presenta profili di particolare interesse è quella cd. giudiziale.

In pratica, si è posto il problema dell'efficacia della sentenza di condanna come causa interruttiva dell'assenza e della rilevanza penale della porzione di condotta successiva alla sentenza stessa.

La Corte di Cassazione è del costante avviso, sulla scorta della natura permanente del reato, che il protrarsi dell’assenza ingiustificata dal servizio successivamente al fatto  interruttivo della permanenza, rappresentato dalla sentenza di condanna, dà luogo alla commissione di un nuovo ed autonomo reato di diserzione, distinto dal primo ed a questo unificato in virtù del vincolo della continuazione (cfr., in senso conforme, Cass. Pen. sez. I, 15/12/1998, Montalto – Cass. Pen. 2/12/1997 n. 1757 – Cass. Pen. sez. I, 16/5/1997, Sannino – Cass. Pen. sez. I, 3/4/1997, Grasso – Cass. Pen. 13/11/1992 – Cass. Pen. 13/12/1991).    

Da ciò deriva che la condotta omissiva, susseguente ad un’eventuale precedente sentenza di condanna, non può che ritenersi passibile di un’autonoma e diversa valutazione penale, con la conseguente possibilità che, dopo una prima condanna, si possa configurare un ulteriore reato storicamente distinto da quello precedente.

   Un'altra questione affrontata dalla giurisprudenza è stata quella relativa alla possibilità di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all'espletamento del servizio militare.

Sul punto, l'orientamento della Suprema Corte sembra propendere per la soluzione negativa.

Infatti, è stato affermato che in tema di diserzione, l'obbligo di presentarsi al distretto militare, non potendo essere ricondotto alla categoria degli obblighi di cui all'art. 165 c.p. in quanto non diretto all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, non può essere assunto a condizione della sospensione condizionale della pena (cfr. Cass. Pen. sez. I, 4/2/1992, Lopes).

In senso sostanzialmente conforme si è sostenuto che “il principio di legalità e quello di tassatività escludono che la sospensione condizionale della pena possa essere sottoposta ad obblighi diversi da quelli espressamente indicati dall'art. 165 c.p., con la conseguenza che l'obbligo di regolarizzare la propria posizione militare, non rientrando tra le condizioni consentite dal citato articolo, perché non diretto ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, non può essere imposto come condizione a cui subordinare la sospensione condizionale della pena” (cfr. Cass. Pen. sez. I, 18/6/1992, Varone - Cass. Pen. 18/9/1992).

In altra decisione, è stato chiarito che la clausola con la quale si subordini la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di diserzione alla riassunzione del servizio entro una certa data è illegittima, collocandosi al di fuori dell'ambito di quelle consentite dall'art. 165 c.p. (cfr. Cass. Pen. sez. I, 7/5/1992, Zito).

L’elemento psicologico. L’elemento soggettivo del reato di diserzione è il dolo generico, consistente “in un concreto atto di volizione dell’allontanamento o del mancato rientro in servizio, posto  in essere con la rappresentazione del proprio status di militare, cioè con la coscienza di realizzare l’assenza che interrompe l’attualità del servizio alle armi” (cfr. Campanelli – Mancanza alla chiamata e diserzione vol. I – II – III Giuffrè 1964, 1974 e 1986).

La casistica, sul punto, è sterminata e non sempre omogenea.

In primo luogo, si è osservato che l’elemento psicologico del reato di diserzione propria è costituito dalla coscienza e volontà dell’allontanamento dal reparto senza autorizzazione, seguito dall’assenza della durata prevista dalla legge di cinque giorni consecutivi, non occorrendo l’intenzione di abbandonare definitivamente il servizio.

Non si richiede, in altri termini, un fine specifico e determinato, essendo sufficiente il dolo generico (cfr. Cass. Pen., 24/5/1989, Giordani). 

Mentre i motivi, in quanto causa di determinazione della volontà, estrinseca rispetto al dolo ed inefficace ad eliminarlo, possono essere presi in considerazione solo per determinare la misura della pena (cfr. Cass. Pen. 10/3/1986, Palestro).

Nel caso di specie, era stata ravvisata la diserzione nella condotta del militare che, pur consapevole dell’obbligo di ritornare al corpo, aveva invocato come causa di esclusione del dolo il trauma derivatogli dalla comunicazione di notizie relative al suo stato di salute.

E’ stato, altresì, affermato che nel delitto di diserzione propria è possibile ravvisare l’elemento soggettivo nel dolo eventuale allorquando, per l’estrema brevità del tempo a disposizione (ventiquattr’ore) e la notevole lontananza del luogo che si intende raggiungere (paese estero), il soggetto si rappresenti la probabilità di non poter riprendere tempestivamente il servizio (cfr. Cass. Pen., 10/3/1986, De Leonardis).

In un'altra sentenza è stato chiarito che, versandosi pacificamente in ipotesi di reato permanente, l'eventuale stato di ignoranza incolpevole giustificativo dell'esclusione dell'elemento intenzionale del reato, deve protrarsi per l'intera durata dell'assenza (cfr. Cass. Pen., 26/1/1990, Teta).

Secondo l’interpretazione corrente della giurisprudenza, non fa venir meno il dolo della diserzione impropria neppure l’erronea convinzione dell’esistenza di un giusto motivo quando sia fondata su un’opinione personale, non essendo applicabile il regime delle esimenti, ivi comprese quelle putative (cfr. Cass. Pen., 10/3/1986, Lazzini), ovvero la convinzione di avere diritto all’esonero dal servizio militare, poiché traducendosi in un’ignoranza dei doveri militari essa non può essere invocata a propria giustificazione dal disertore, stante il divieto di cui all’art. 39 c.p.m.p. (cfr. Cass. Pen., 28/10/1985, Ferrara).

Sussiste, altresì, il dolo nel reato di diserzione qualora il militare faccia pervenire certificati medici al corpo e sia convinto, erroneamente, di aver adottato una valida procedura amministrativa.

In tal caso, infatti, il militare deve conoscere l'iter per l'invio dei certificati e l'ignoranza relativa non può essere invocata a scusa, ostandovi ancora una volta il disposto dell'art. 39 c.p.m.p. (cfr. Cass. Pen., 7/12/1983, Perfetto).

In alcune decisioni, tuttavia, è stata sostenuta una soluzione di segno contrario escludendosi l’esistenza del dolo nel caso del militare che, trovandosi legittimamente assente, non sia rientrato al corpo a causa di sopravvenuta malattia, quando abbia provveduto a porsi a disposizione dell’autorità militare avvisando l’Arma dei Carabinieri (cfr. Cass. Pen. sez. I, 13/11/1992, Esposito).

La sentenza in dettaglio. Alla stregua di quanto sopra esposto può compiutamente esaminarsi la motivazione posta dal Tribunale Militare di Napoli a fondamento della pronuncia assolutoria.

Dalla lettura della sentenza, benvero succinta, e degli atti processuali è stato possibile ricostruire la vicenda nei termini seguenti: un militare, poco dopo essere stato arruolato al reparto, aveva contratto una malattia.

Tale situazione aveva determinato una lunga serie di ricoveri, tesi in un primo momento alla formulazione della diagnosi e, successivamente, alla somministrazione di un'adeguata terapia per la cura della patologia.

Il giovane, comunque, era convinto di essersi ammalato proprio in costanza del servizio di leva, per cui - anche provato dai frequenti e lunghi ricoveri, che ne avevano determinato il collocamento nella cd. forza assente - gliene era derivata una forma di sindrome ansioso-depressiva che lo aveva spinto, allo scadere dell'ennesima licenza di convalescenza, a non fare rientro al reparto.

Ascoltato nel corso del dibattimento aveva dichiarato di essersi indotto ad assentarsi arbitrariamente non per l'intenzione di volersi sottrarre agli obblighi di leva, quanto piuttosto per aver elaborato una sorta di "rifiuto" nei confronti del luogo che egli reputava essere stato la causa della sua malattia e, conseguentemente, della sindrome depressiva.

Deve precisarsi, a questo punto, che la depressione lamentata dall'imputato - sia pure come effetto indiretto dell'accertata patologia - era stata poi puntualmente riscontrata dai medici militari e finanche posta a fondamento di un provvedimento di riforma.

Il Tribunale, preso atto dell'intervenuta riforma dal servizio di leva ed in base alla considerazione che i presupposti per la concessione della stessa esistessero già in data anteriore a quella dell'inizio dell'assenza, ha assolto l'imputato con l'uso della formula "perché il fatto non costituisce reato", ritenendo che mancasse la prova dell'elemento psicologico, inteso come volontà di sottrarsi deliberatamente al servizio militare.

Per mero dovere di completezza, si segnala che - in una vicenda analoga - la Suprema Corte aveva affermato che in un reato di assenza dal servizio, uno stato di malattia ritualmente riconosciuto dalle competenti autorità sanitarie, con conseguente provvedimento di riforma, prima ancora di incidere sull'elemento soggettivo, rende insussistente l'elemento oggettivo del reato, costituito dal mancato rientro ingiustificato, sicchè l'imputato dev'essere assolto con la formula "perché il fatto non sussiste",  e non con quella "perché il fatto non costituisce reato" (cfr. Cass. Pen., 18/2/1993, Tomassi).   

Orbene, la soluzione adottata da tale ultima decisione sembra - a parere di chi scrive - preferibile, giacchè l'esistenza di un provvedimento di riforma va effettivamente ad incidere sull'esistenza del reato sotto il profilo oggettivo, prima ancora che sul piano dell'elemento psicologico.