Se da un lato la persona condannata ha utilizzato il proprio profilo personale, è comunque evidente come la particolarità dello strumento usato sia idoneo a rendere pubblico il contesto, risultando altresì chiara la potenziale ed incontrollata diffusione della comunicazione.

(Tribunale di Livorno, ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza n. 38912/12)

I fatti: Una ragazza viene assunta presso un centro estetico, ma l’ esperienza lavorativa ha purtroppo breve durata, forte la rabbia della ragazza verso i titolari del centro estetico.
Rabbia che viene sfogata con alcuni post sul proprio profilo personale di Facebook:
vi consiglio vivamente di non andare al centro xxxxxxxx”,
sono dei pezzi di m#####”, ed ancora rivolgendosi direttamente al titolare del summenzionato centro estetico:
sei un albanese di m#####”.
 
La difesa della ragazza: Si è trattato di un “furto d’identità online”, la ragazza è totalmente estranea ai fatti
La decisione del Giudice delle indagini preliminari: Il Gip non accoglie la tesi del “furto di identità on line”. Nel profilo della ragazza, infatti, sono state rinvenute affermazioni (come quella relativa al fatto di non avere ancora riscosso le retribuzioni arretrate) che riconducono al trascorso rapporto lavorativo con il centro estetico.
E’ invece evidente la volontà di rendere pubblici quei post. Gli utenti del social network  sono consapevoli del fatto che altre persone possano prendere visione delle comunicazioni scambiate in rete.
Consequenziale è l’affermazione della «penale responsabilità» della ragazza e la condanna al pagamento di € 1.000,00 di multa ed al versamento di € 3.000,00 come risarcimento danni in favore dell’ex datore di lavoro.
Cosa fare per tutelarsi e per non incorrere in errori simili?Non bisogna utilizzare i social network come valvola di sfogo personale, infatti, le cose scritte sulle bacheche e/o su gruppi-pagine di Facebook equivalgono ad affermazioni riferite ad una pluralità di destinatari. Prima di scrivere sui social network bisogna sempre ricordarsi che il comportamento “on line” riceve le stesse tutele di quello “off-line”. Non sussiste nessuna zona franca per lo “spazio pubblico on-line”.
La sentenza per esteso:
Con richiesta di rinvio a giudizio depositata dal P.m. il 5.1.2012 M.
R. veniva tratta a giudizio con l'accusa di avere commesso il reato di cui all'art. 595 comma 3 c.p. pubblicando si Facebook i messaggi offensivi descritti nel capo d'imputazione in epigrafe trascritti, a proposito del centro estetico gestito a Livorno dal querelante G.P..
Quest'ultimo, ritenendosi leso nella sua reputazione, in data 10.5.2011 proponeva atto di querela contro la M. affinché venisse perseguita penalmente per il reato di cui all'art. 595 e all'udienza preliminare si costituiva parte civile.
Il difensore dell'imputata nel corso dell'udienza preliminare otteneva che il procedimento venisse trattato con le forme del rito abbreviato e all'odierna udienza, udita la discussione e le conclusioni delle parti, veniva pronunciata sentenza mediante lettura del dispositivo.
Nell'atto di querela la persona offesa rappresentava in particolare che l'odierna prevenuta aveva prestato attività lavorativa alle sue dipendenze presso il centro estetico ma il rapporto aveva avuto breve durata essendo stata la dipendente licenziata per le inadempienze nello svolgimento delle mansioni lavorative.
Lamentava il querelante che il successivo 9 maggio 2011 la ex dipendente aveva pubblicato un messaggio sulla "bacheca" del proprio profilo Facebook dal contenuto volgare e tenore chiaramente denigratorio a proposito dell'aspetto della professionalità del centro estetico (...) ("sono persone che non lavorano seriamente” … "fa onco ai bai (1)") sconsigliando a chiunque di frequentarlo (cfr. doc. n. 5 allegato alla querela).
La M., inoltre, nel conversare con altri "amici" sempre su facebook si esprimeva con epiteti offensivi con riferimento al gestore del centro estetico ("sei proprio un a.....e di merda (2) ... sono dei pezzi di merda ").
Valuta questo G.U.P. che le risultanze istruttorie siano idonee a fondare l'ipotesi accusatoria.
Non v'è dubbio che le espressioni sopra riportate provengano da M.R..
Le argomentazioni difensive svolte in sede di discussione finale si sono incentrate essenzialmente sulla pretesa impossibilità di attribuire con certezza la paternità di uno scritto o un messaggio al titolare "apparente" del "profilo" dalla cui fonte quello scritto proviene potendo sotto quella apparente identità celarsi un soggetto autore diverso dal titolare del profilo che avrebbe operato sostanzialmente un "furto d'identità", scrivendo sotto falso nome utilizzando indebitamente l'altrui profilo.
La tesi difensiva non ha pregio.
È pacifico e non è contestato dalla difesa il presupposto antefatto e cioè che la M. abbia lavorato presso il suddetto Centro Estetico ed infatti uno dei partecipanti alla conversazione si rivolge a R. M. - che aveva appena pubblicato sulla propria bacheca la frase: "vi consiglio vivamente di non andare x chi lo conosca al centro estetico (...) perché fa onco ai bai, sono persone che non lavorano seriamente" - dicendole: " perché? Non ci lavoravi?." e la M. risponde: " si, ma ora è un mesetto che non ci lavoro più, e meno maleV e poi, aggiunge la frase sopra riportata: "sei proprio un a******e di merda" (cfr. a pag 5 del fascicolo delle indagini preliminari).
Vi sono inoltre altre affermazioni della M. (come quella riferita al fatto di non avere ancora riscosso le retribuzioni arretrate) che riconducono univocamente al trascorso rapporto lavorativo tra lei e il Centro estetico gestito dal querelante.
Non vi sono perciò dubbi sulla riferibilità soggettiva degli scritti incriminati all'odierna imputata e che i pregressi rapporti professionali tra le parti abbiano costituito il movente per l'uso improprio del mezzo informatico di comunicazione in danno del decoro e della reputazione del proprio ex datore di lavoro contro cui erano diretti i pubblici "sfoghi" manifestati dalla M. nel trattare l'argomento con altri soggetti partecipanti e facenti parte del medesimo gruppo di amici.
Ai fini della valutazione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione in contestazione giova premettere brevi notazioni sul funzionamento del sito web denominato "Facebook" che oggi è considerato il più diffuso e popolare dei social network ad accesso gratuito, vale a dire una cosiddetta rete sociale in cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet che tramite questo sito web entrano in relazione tra loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono visibili altri utenti facenti parte dello stesso gruppo o comunque a questo collegati. All'interno di esso gli utenti possono creare propri "profili personali" su cui pubblicare fotografie, video, informazioni personali e liste di interessi e aderire ad un gruppo di cosiddetti "amici". Per ciò che qui maggiormente rileva, Facebook consente agli utenti di fruire di alcuni servizi tra i quali l'invio e la ricezione di messaggi, rilascio di commenti, fino alla possibilità di scrivere sulla bacheca di altri amici, decidendo di impostare diversi livelli di condivisione di tali informazioni. È evidente che gli utenti del social network sono consapevoli, e anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto, del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete. Infatti, è nota agli utenti di "Facebook" l'eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell'attività di ed. "tagging" che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in "chat", che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell'autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network. L'uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva della reputazione del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network.
Lo specifico episodio in trattazione va più esattamente qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall'avere arrecato l'offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al comma terzo dell'art. 595 c.p. e equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo della stampa).
Della diffamazione sussistono tutti gli estremi essenziali:
- la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose (nel caso di specie la M. ha espressamente fatto riferimento al Centro Estetico ETEREA nel quale ha lavorato come dipendente);
- la comunicazione con più persone alla luce del cennato carattere "pubblico" dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione.
- La coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo.
Si giunge agevolmente a ritenere che l'utilizzo di Internet integri l'ipotesi aggravata di cui all'art. 595, co. 3, c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l'agente meritevole di un più severo trattamento penale.
Affermata conclusivamente la penale responsabilità dell'imputata in riferimento al reato a lei contestato, in ragione della sua incensuratezza e del concreto contesto da cui ha preso spunto il fatto nonché valutato il concreto grado del dolo ,possono riconoscersi alla M. le attenuanti generiche e quantificare la pena in quella di euro 1.000,00 di multa (per effetto della riduzione di un terzo per effetto della scelta del rito).
All'accertamento del reato consegue ex lege la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile nei termini di cui al dispositivo che segue.
P.Q.M.
Visti gli artt. 438 e ss., 533 e 535, c.p.p.
DICHIARA
M.R. colpevole del reato a lei ascritto e concesse le attenuanti generiche, la
CONDANNA
alla pena di euro  1.000,00 di multa. Visti gli artt. 163 e 175, c.p.
CONCEDE
All'imputata i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale a richiesta dei privati.
Visto l'art. 538 c.p.p.
CONDANNA
M.R. a risarcire il danno sofferto dalla parte civile costituita, P.G., che si liquida in euro  3.000,00 oltre interessi di mora al tasso legale dalla odierna liquidazione al saldo oltre alla rifusione delle spese di costituzione di parte civile che si liquidano in complessive euro  1.500 oltre IVA e CAP di legge Motivazione entro giorni 90.
(1) Espressione gergale tipica del dialetto livornese che può essere tradotto in questi termini "fa vomitare i bachi (vermi)"
(2) alludendo chiaramente alla nazionalità di G.P. che infatti è a(lbanes)e.