Capita a volte che, dopo una lunga attesa da parte dello straniero per poter finalmente fare richiesta per la concessione della cittadinanza italiana rispettando i termini prefissati dalla legge, vi sia da attendere un ulteriore lasso di tempo che rende faticosa la via per raggiungere la tanto agognata cittadinanza.
 

Infatti, sia che si tratti di richiesta di cittadinanza per “residenza” (che può essere promossa dall’extra-comunitario ex art. 9 c. 1 lett. f, della Legge 91 del 5 febbraio 1992 solo dopo 10 anni di residenza in Italia), sia che si tratti di richiesta di cittadinanza per “matrimonio” (che può essere promossa ex art. 5 della Legge 91 del 5 febbraio 1992 solo dopo 2 anni di residenza o dopo 3 anni dalla data del matrimonio), lo straniero che abbia depositato la domanda di cittadinanza si ritrova ad attendere in media altri quattro anni (raramente solo due anni, ma spesso se ne devono attendere anche sei) prima di avere una risposta definitiva alla propria richiesta di concessione.
 

Vengono indicati in questa sede i due tipi di domanda più diffusi per aver la cittadinanza italiana, ma chiaramente quanto si riferirà in questo articolo è valido anche per gli altri casi.
 

La richiesta di cittadinanza deve seguire un lungo iter prima di arrivare alla conclusione.
 

Infatti la suddetta domanda deve passare al vaglio dei diversi controlli eseguiti dagli uffici della Prefettura del luogo di residenza dove la stessa viene accolta,  dalla Questura competente, dal Ministero dell’Interno di Roma, dal Consiglio di Stato per ritornare infine alla Prefettura che notificherà il decreto di concessione di cittadinanza.
 

La legge italiana n. 362 del 18.04.1994 prevede all’art. 3 che il procedimento sopradescritto venga  definito in settecentotrenta (730) giorni, ovvero in due anni.

Purtroppo questo non avviene quasi mai. Infatti la strada che porta alla definizione del procedimento è irta di pericoli e ostacoli di vario genere.
 

Spesso e volentieri le pratiche “K” (codice di riferimento attribuito a questo genere di dossier) si bloccano in attesa dei “pareri necessari alla definizione della pratica” da parte degli organi competenti, che normalmente sono gli stessi che hanno ricevuto la domanda (Prefettura) o altri (Questura).
 

Questi “ostacoli” portano di norma a dover attendere ben oltre i due anni previsti dalla legge per avere delle risposte e talvolta si arriva addirittura a periodi di sei anni dalla presentazione della domanda.
 

Deve comunque farsi una premessa importante: la cittadinanza non è un diritto dello straniero, ma una concessione che viene, a seguito della verifica di alcuni requisiti, conferita al richiedente.
 

Questa precisazione non giustifica comunque le lungaggini a cui ci ha abituato la burocrazia italiana. Infatti, una risposta – che sia di accoglimento o di rigetto della domanda – deve in ogni caso essere rilasciata nei due anni previsti dalla legge.
 

Nella mia esperienza personale ho constatato “codici K” per cui, nonostante la domanda fosse stata presentata nel 2007/2008, sul sito web del Ministero dell’Interno alla pagina per la consultazione dello stato della domanda, risultava a tutt’oggi che: “L’istruttoria è  stata avviata. Si è in attesa dei pareri necessari alla definizione della pratica”.


Pareri che, in mancanza di sollecitazioni, potrebbero non essere licenziati per molto tempo.

 

Altri casi sembravano migliori presentando dichiarazioni quali: “L’istruttoria è in fase di valutazione finale” o simili; ma anche in questo caso le pratiche rimanevano sospese per lunghi periodi di tempo.
 

Le ragioni di questa lentezza sono tra le più svariate:
 

vi è una carenza di personale negli uffici competenti; spesso le pratiche vengono dimenticate in qualche angolo a scapito di altre più recenti; o, ancora, è possibile che vi siano dei problemi relativi ai requisiti richiesti.
 

Capita che lo stesso richiedente non sappia di avere avuto dei precedenti penali (perché magari non li riteneva tali) o anche che sia stato disperso un documento da parte dell’ufficio che ha preso in carico la domanda.
 

Per tutti i motivi sopra indicati vi è una semplice soluzione: diffidare formalmente (ai sensi della Legge 241/90 sulla trasparenza amministrativa) gli organi competenti.
 

Infatti, risulta spesso inutile effettuare telefonate (inoltre il Ministero ha eliminato il servizio call center) per conoscere lo stato della propria pratica e chiedere a più riprese di sbloccare quell’iter troppo lungo.
 

L’unica soluzione esistente, qualora dopo due anni non vi siano ancora sviluppi sul proprio “codice K”, è inviare una formale diffida sia alla Prefettura sia al Ministero dell’Interno. A volte è utile inviarla anche alla Questura di riferimento.
 

L’istanza di sollecito deve essere trasmessa per mezzo raccomandata A/R, PEC o a mano.
 

La stessa può essere presentata dal diretto interessato, ma se si vuole la garanzia di una maggior efficacia ci si deve avvalere della competenza di un legale che, oltre ad essere un professionista che conosce la materia, possa esercitare una maggiore pressione sugli organi competenti che, per timore di affrontare un futuro ed eventuale giudizio amministrativo, saranno esortati a portar avanti la pratica con maggiore speditezza.
 

L’esperienza insegna che difficilmente si arriva realmente a citare in causa l’amministrazione pubblica (cosa comunque non rara), mentre l’invio di una formale diffida porta ad una quasi “immediata” risposta da parte dell’amministrazione, che consente di individuare quali siano i problemi che non consentono alla pratica di procedere.

Individuato il problema e l’organo competente a risolverlo ci si può mettere direttamente in contatto con quest’ultimo per agevolarlo nell’espletamento delle sue funzioni ed avere, finalmente in tempi utili, la tanto agognata cittadinanza italiana.

Avv. Giorgio Bianco