Il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo il contributo richiesto agli stranieri per il rilascio del permesso di soggiorno (contributo compreso tra un minimo di € 80 e un massimo di € 200), in quando troppo oneroso e come tale idoneo ad ostacolare i diritti degli stessi (Consiglio di Stato, sentenza del 26 ottobre 2016, n. 4487).
In particolare il Consiglio di Stato svolge le seguenti considerazioni.
Il contributo in questione è previsto dall'articolo 5, comma 2-ter del Decreto Legislativo n. 286/1998, introdotto dall'articolo 1, comma 22, lettera b, della Legge 15 luglio 2009, n. 94 (recante «Disposizioni in materia di pubblica sicurezza»).
Tale norma prevede che "la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno, che stabilisce altresì le modalità del versamento nonché le modalità di attuazione della disposizione di cui all'articolo 14-bis, comma 2", mentre "non è richiesto il versamento del contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari".
In attuazione di tali previsioni, è stato emanato il Decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011, di concerto con il Ministero dell'Interno, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 304 del 31 dicembre 2011, concernente il "Contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno".
Il Decreto in questione ha fissato gli importi dei contributi da versare per il rilascio e il rinnovo di un permesso di soggiorno nel modo seguente:
  • € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi ed inferiore o pari ad un anno;
  • € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni;
  • € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 27, comma 1, lett. a), del Decreto Legislativo n. 286/1998.
Orbene, il Consiglio di Stato ha richiamato la sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2015, dove si evidenzia che i singoli importi dei contributi non si riferiscono tutti e soltanto al rilascio dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, ma sono ben diversificati in base alla specifica finalità e alla singola tipologia del permesso (€ 80,00 per i permessi di più breve durata, € 100,00 per i permessi di "media" durata, ed € 200,00 per i permessi di lunga durata e quelli di cui all'articolo 27, comma 1, del Decreto Legislativo n. 286/1998).
La Corte di Giustizia rileva che "l'incidenza economica di un contributo siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest'ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all'importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l'obbligo di versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla summenzionata direttiva"
La Corte di Giustizia muove dal presupposto che, a norma del diritto europeo (art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE) e nazionale (art. 9, comma 1, del Decreto Legislativo n. 286/1998), il conseguimento del permesso UE per lungosoggiornanti possa essere richiesto in Italia solo dallo straniero che, oltre agli altri requisiti richiesti dalla legge, sia "in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità".
La necessità di richiedere il rinnovo dei permessi di più breve durata, perché maturi il quinquennio di legale permanenza sul territorio italiano richiesto dall'art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE e dall'art. 9, comma 1, del Decreto Legislativo n. 286/1998, impone allo straniero di pagare quantomeno, inizialmente, un contributo minimo di € 80,00 e via via, nel corso della sua regolare permanenza, quelli successivi per il rinnovo dei permessi, anche per il superiore importo di € 120,00, fino al pagamento dell'importo finale, pari ad € 200,00, per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.
La Corte di Giustizia ha osservato che ad aggravare tale sistema "contributivo" – già di per sé oneroso per molti dei cittadini di Paesi terzi intenzionati a stabilizzare la propria posizione in Italia quale approdo di una situazione esistenziale che, sovente, li vede muovere da una condizione di pressoché totale indigenza o anche solo di grave difficoltà economica nei Paesi di provenienza – si aggiungono gli ulteriori oneri fissi, complessivamente ammontanti ad € 73,50, richiesti in Italia per il rilascio e il rinnovo di ogni singolo titolo di soggiorno (€ 27,50 ed € 30,00, relativi al servizio di accettazione delle istanze, svolto da Poste Italiane s.p.a., e infine l'imposta di bollo, pari ad € 16,00).
Il giudice europeo - sulla base di una valutazione complessiva del sistema vigente in Italia per i contributi richiesti agli stranieri che intendano stabilizzarsi e richiedere il permesso UE per il lungo soggiorno - è pervenuto alla conclusione che "la direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che impone ai cittadini di paesi terzi che chiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro considerato di pagare un contributo di importo variabile tra € 80,00 ed € 200,00, in quanto siffatto contributo è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita ed è atto a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima".
In questo modo la libertà di stabilimento, che pure la direttiva n. 2003/109/CE mira a proteggere, diverrebbe puramente teorica finendo di fatto per essere vanificata, perché – mediante l'introduzione di una legislazione nazionale relativa ai permessi di più breve durata, sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale – l'obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata sarebbe un traguardo irraggiungibile e illusorio per molti di essi, per quanto in possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa eurounitaria, con evidente elusione delle finalità perseguite dalla stessa direttiva n. 2003/109/CE.
Al riguardo, va richiamata anche un'altra sentenza della Corte di Giustizia del 26 aprile 2012 in C-508/10,  in cui si legge: "gli Stati membri possono subordinare il rilascio di permessi e titoli di soggiorno ai sensi della direttiva 2003/109 al pagamento di contributi e che, nel fissare l'importo di tali contributi, essi dispongono di un margine discrezionale", precisando tuttavia che il potere discrezionale esercitabile dagli Stati membri in base alla direttiva n. 2003/109/CE non è illimitato, poiché questi ultimi "non possono applicare una normativa nazionale tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e, pertanto, da privare quest'ultima del suo effetto utile".
Tale fondamentale principio è stato affermato dalla stessa Corte di Giustizia, proprio con riferimento alla delicata materia dell'immigrazione e proprio nei confronti dell'Italia, nel caso El Dridi, nella sentenza del 28 aprile 2011, in C-61/11, laddove la Corte di Giustizia, nel ritenere disapplicabile l'art. 14, comma 5-ter, del d. lgs. 286 del 1998, il quale puniva con la pena della reclusione lo straniero che si fosse trattenuto illegalmente nello Stato nonostante l'ordine di espulsione emesso dal Questore, ha precisato che, "se è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrano, in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito giuridico può nondimeno incidere il diritto dell'Unione", perché tali Stati «non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest'ultima del suo effetto utile".
La Corte di Giustizia, in questo caso, affermò che il giudice nazionale debba disapplicare qualsiasi disposizione di legge (anche di diritto penale, tradizionalmente rientrante nelle attribuzioni degli Stati membri), quando essa frustri gli obiettivi della legislazione eurounitaria e li privi del loro effetto utile.
Tale principio vale anche per le previsioni della legislazione italiana relative ai contributi, quali prestazioni patrimoniali imposte (articolo 23 della Costituzione), richiesti per i soggiorni di breve durata che, inscindibilmente legate alla concessione dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, incidono fortemente, nel lungo periodo, sulla realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE.
In ragione di tali principi fondamentali e degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, i contributi richiesti ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, da un minimo di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, sono da considerarsi illegittimi in quanto, per il loro importo eccessivamente elevato,  sono di ostacolo all'esercizio dei diritti dei cittadini stranieri stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri e intenzionati a richiedere il permesso UE di lungo soggiorno.