La Libia, oggi al centro dell’interesse mediatico internazionale per la sua sanguinosa Rivoluzione, è sempre stata particolarmente legata all’Italia, anche e soprattutto durante l’assoggettamento (durato circa mezzo secolo) all’occupazione coloniale italiana; tuttavia è forse meno conosciuta la politica di cittadinanza che l’Italia ha adottato nei confronti delle popolazioni libiche.

Dal 1911 al 1939 si sono succedute tre leggi sulla cittadinanza libica: il r.d. 315 del 6 aprile 1913, la legge 1013 del 26 giugno 1927 ed il d.l. 70 del 9 gennaio 1939; tali strumenti legislativi avevano l’unico scopo di confinare il libico in uno status di cittadino minoris juris, cioè titolare di minori diritti rispetto a quelli riconosciuti ai cittadini italiani metropolitani residenti in colonia. A questo fine ultimo si arrivò in maniera graduale e direttamente proporzionale all’espandersi dell’idea totalizzante di colonialismo fascista: infatti le prime due leggi prevedevano, seppur limitata, la possibilità per alcuni soggetti (particolarmente meritevoli agli occhi dell’amministrazione coloniale di Roma) di optare per la cittadinanza italiana metropolitana. L’ultima norma, invece, aveva sostituito questa possibilità con una differente forma di cittadinanza, quella denominata “italiana speciale”, per cui il richiedente non poteva materialmente divenire italiano a tutti gli effetti e doveva accontentarsi della paternalistica premialità di tale nuovo istituto.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, con la perdita della maggior parte del suo effimero Impero coloniale, l’Italia si è vista in posizione arretrata riguardo ai problemi sorgenti dal movimento di decolonizzazione, rispetto ad altri Paesi europei come Belgio, Francia e Gran Bretagna; in tali Stati, infatti, una delle questioni più pressanti ed attuali era quella del riconoscimento o meno della cittadinanza agli ex-sudditi coloniali migrati nella ex-madrepatria.

Il fenomeno migratorio tra Sud del Mondo e vecchia Europa prese, infatti, le mosse proprio negli anni Sessanta del Secolo scorso, come risposta ad un deterioramento ulteriore e più grave delle condizioni di vita in Africa ed Asia ed alle sempre più frequenti guerre e rivoluzioni in quelli che cominciavano ad essere definiti come Paesi emergenti.

Nonostante la nostra lontananza da simili problemi di politica internazionale, anche il Belpaese ebbe (e continua ad avere) una nutrita giurisprudenza riguardo alla richiesta di cittadinanza degli ex-cittadini delle Isole Italiane dell’Egeo nei possedimenti greci, italiani-libici ed italiani speciali nella colonia libica.

La prima sentenza nazionale riguardante la condizione giuridica dei libici residenti in Italia, che non optarono per la nuova cittadinanza del Regno di Libia (1951) venne resa dalla prima sezione della Corte d’Appello di Napoli il 21 aprile 1959. La materia del contendere riguardava tale Kemali Rashid, cittadino italiano libico residente nel capoluogo partenopeo, che si era vista rigettare la domanda di cittadinanza dal Ministero degli Interni perché non in possesso di cittadinanza italiana metropolitana, bensì solamente di quella coloniale. Il ricorrente, allora, nonostante la disparità tra queste due tipologie di status civitatis e la contrarietà di quella minoris juris rispetto al principio costituzionale di uguaglianza sostanziale, si vide riconoscere la cittadinanza repubblicana solo ed esclusivamente per  ”eliminare il deprecato fenomeno dell’apolidismo”, nel quale sarebbe ricaduto se non fosse diventato cittadino italiano.

In sostanza la Corte di Napoli confermava gli antichi pregiudizi e, soprattutto, l’antica distinzione tra cittadini italiani (di serie A) e cittadini italiani libici (di serie B), creatrice di un vero e proprio sistema di apartheid, appena quindici anni prima sull’altra sponda del Mediterraneo.

Più recentemente, si possono citare due esempi di giurisprudenza di legittimità, il primo del 1999 e l’altro del 2000, nel quale ex-cittadini italiani libici richiedevano il riconoscimento della nazionalità italiana.

Nel primo caso una donna ed i suoi due figli, residenti a Roma nonostante fossero nati in Israele da genitori cittadini italiani libici, si vedevano rigettare per ben due gradi di giudizio la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana per via giudiziale (il Ministero aveva tuttavia consentito la praticabilità della normale via amministrativa per l’ottenimento della cittadinanza), possibilità che veniva riconosciuta in Cassazione, dal momento che i ricorrenti potevano vantare una comprovata ascendenza italiana, sebbene non metropolitana.

L’ultima sentenza resa dalla Suprema Corte riguardava quattro fratelli nati in Libia da padre tunisino e da madre cittadina italiana libica, secondo il Ministero dell’Interno naturalizzata tunisina iure connubii in un secondo momento. I giudici d’ultima istanza optarono per l’overruling, rispetto ai due precedenti dinieghi del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano, argomentando la loro decisione di riconoscimento con il fatto che, in primo luogo, la madre non avrebbe potuto perdere la sua cittadinanza italiana libica per il solo fatto di sposare un cittadino tunisino e, in ultimo luogo, con il fatto che la cittadinanza italiana libica si era automaticamente convertita in cittadinanza italiana piena per il solo fatto dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana nel 1948.

Tale recente giurisprudenza può quindi renderci edotti sul perdurare degli effetti dell’occupazione italiana della Libia fino ai giorni più recenti, giurisprudenza che rende l’opportunità di ottenere la cittadinanza italiana estremamente appetibile per coloro che vogliano abbandonare un Paese in guerra, dove il proprio futuro e quello dei propri cari non sarebbe garantito in un clima di pace e di rispetto dei più basilari valori di rispetto ed eguaglianza.

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Avv. Giorgio Bianco
Dott. Fabio Spina
Per lo Studio Legale G Law