Con la recente ed ormai nota pronuncia della Consulta (n° 228/14) è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma riguardante le indagini bancarie, in forza della quale (art. 32, D.P.R. n° 600/73) era prevista una c.d. presunzione legale a favore dell’Amministrazione finanziaria, laddove il professionista non fosse stato in grado di giustificare i prelevamenti dal proprio c/c.
Per quanto concerne le “controversie” pendenti (fase istruttoria pre – avviso di accertamento o fase a seguito dell’istanza di accertamento con adesione), sorge - in capo al contribuente - il diritto di chiedere all’Ufficio la disapplicazione del meccanismo “prelievi non giustificati = reddito non dichiarato”.
Orbene, in conseguenza a ciò, a parere dello scrivente, potrebbero aprirsi nuovi scenari “processuali”, relativamente alle verifiche bancarie “archiviate”, ossia chiuse all’esito dell’accertamento con adesione, di acquiescenza integrale al provvedimento notificato, nonché in caso di conciliazione giudiziale.
Di contro – per le sentenze già passate in giudicato – potrebbero emergere resistenze operative – da parte dell’Agenzia delle Entrate - atteso che il difensore chiederebbe la “riviviscenza” di una decisione giudiziale definitiva, pertanto non più “emendabile”.
In realtà, alcune posizioni della Corte di Giustizia[1] sembrerebbero ammettere la “revoca” del giudicato nazionale in difformità con il diritto comunitario: in detta ipotesi, difatti, nasce l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria “nazionale” di applicare il diritto europeo superando il menzionato il c.d. giudicato nazionale comunitario[2].
Ad ogni buon conto, in caso di “riapertura” dei controlli finanziari (definiti nella fase amministrativa) per un maggior reddito accertato in materia di prelevamenti bancari non giustificati, l’interessato potrebbe invocare l’applicazione dell’art. 2033 c.c. (“indebito oggettivo”) o dell’art. 2041 c.c. (“azione generale di arricchimento” senza causa), al fine di chiedere la restituzione delle somme versate a titolo di imposte, interessi e sanzioni.
A maggior chiarimento di quanto illustrato, la prima norma stabilisce il principio secondo cui “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”, mentre la seconda: “chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuta, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.
A ben vedere, al fine di legittimare tale domanda di restituzione/indennizzo, è ragionevole richiamare la ratio della richiesta di rimborso Iva, ossia – come confermato dalla sentenza della C.T.R. della Lombardia, n° 83/31/13[3] – in caso di versamento tributario (non dovuto) ad opera del contribuente, quest’ultimo ha diritto al rimborso, a mente dell’istituto civilistico (aventi riflessi fiscali) dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.).
In altre parole, il soggetto (contribuente), il quale ha pagato indebitamente una somma ad un altro (Amministrazione finanziaria) ha diritto di ottenere la restituzione di ciò che ha corrisposto: nasce così, in capo a chi ha ricevuto il pagamento, un’obbligazione di restituzione.
Si tratta di un incasso di somme che l’Agenzia delle Entrate trattiene “senza titolo”: ciò rappresenta un vizio sanabile, poiché l’ordinamento garantisce al soggetto la possibilità di ottenere il rimborso di dette somme.
Ma non solo: sempre in materia proprio di rimborso fiscale, la sentenza della Corte di Cassazione, n° 20526/13[4] ha ampliato lo scenario favorevole al contribuente, prevedendo anche la possibilità di avviare un procedimento “risarcitorio dell’amministrazione per condotta illecita nei confronti del contribuente ovvero indennitario per un indebito arricchimento” (art. 2041 c.c.), laddove il rigetto della richiesta rappresenti una ingiustizia giuridica.
In definitiva, i giudici della Suprema Corte hanno quindi statuito che in sede di c.d. rimborso di imposte corrisposte in eccedenza, sono pacificamente applicabili (entro 10 anni dal pagamento non dovuto[5]) sia l’istituto civilistico dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), sia quello dell’arricchimento senza giusta causa (art. 2041 c.c.): in tal modo, l’ordinamento assicura e garantisce al contribuente la concessione di una sanatoria derivante da un pagamento tributario non richiesto (e trattenuto nelle casse statali).
Entrambe le previsioni civilistiche, come insegnano le citate pronunce giurisprudenziali, trovano applicazione anche all’interno del contenzioso tributario, per cui l’interessato potrebbe presentare domanda di rimborso di quanto dovuto per effetto di un’indagine bancaria (in relazione ai prelevamenti non giustificati all’epoca dell’istruttoria o dell’emanazione della sentenza) al competente Ufficio, impugnando il diniego o il silenzio rifiuto innanzi alla Commissione Tributaria secondo le norme in vigore.
Di Federico Marrucci
Avvocato Tributarista in Lucca e Pisa (presso Studio Legale e Tributario Etruria)  [1] Corte di Giustizia, C – 119/05, 18.07.2007, causa Lucchini: il giudicato nazionale anticomunitario non è intangibile e, con la sussistenza di alcune condizioni, può essere superato a favore della corretta applicazione del diritto comunitario con la conseguente disapplicazione dell’art.2909 c.c. (“l’accertamento contenuto nella sentenza passato in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi causa”). In breve, laddove sussista un giudicato nazionale anticomunitario, nell’ipotesi di indebito tributario, può essere promossa l’azione di risarcimento dei danni da illecito comunitario;[2] Indebito comunitario e sistema tributario interno (Rossella Miceli), Edizioni Giuffrè, 2009;[3] Il processo in questione traeva origine da un errore (ai fini del versamento Iva) commesso dal contribuente italiano, il quale avendo eseguito lavori murali in un immobile ubicato nel territorio francese, provvedeva a corrispondere la relativa imposta a favore del fisco italiano; tuttavia, in seguito, l’Erario francese richiedeva legittimamente l’assolvimento dell’Iva per i servizi prestati dal soggetto, di conseguenza quest’ultimo si vedeva costretto a versare “nuovamente” il medesimo tributo alla Francia.
Per effetto di questa circostanza, il contribuente provvedeva a chiedere il rimborso dell’Iva versata “in eccedenza” a favore dell’Amministrazione finanziaria italiana (per gli anni di imposta 2007 e 2008), la quale tuttavia decideva per il diniego, rilevando la tardività della domanda, atteso che anche per il rimborso Iva trova operatività il regime biennale previsto dall’art. 21, comma 2, D. Lgs. 546/92;[4] In materia di rimborso Iva, una sentenza della Corte di Cassazione, n° 20526/13, ha rinviato la questione alla C.T.R., chiedendo formalmente che venga valutata la problematica riguardante l’obbligo “risarcitorio dell’amministrazione per condotta illecita nei confronti del contribuente ovvero indennitario per un indebito arricchimento” (art. 2041 c.c.), laddove il rigetto della richiesta di rimborso rappresenti una ingiustizia giuridica e fiscale, contraria come detto all’osservanza del precetto di capacità contributiva, art. 53 Cost.;5 Come noto, l’art. 2946 c.c. in tema di prescrizione, afferma che, in generale (primo elemento da esaminare), “i diritti si estinguono per prescrizione ordinaria” (ossia in 10 anni), “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente”. In parole concrete, i diritti sono sempre esercitabili nel termine di dieci anni, a meno che esistano particolari previsioni normative che affermino altre tempistiche;