La sentenza n. 250/2013 emessa dal Tribunale di Napoli, boccia il redditometro perchè esso “determina la soppressione definitiva del diritto del contribuente e della sua famiglia ad avere una vita privata, a poter gestire il proprio denaro, a essere quindi libero nelle proprie determinazioni senza dover essere sottoposto a invadenza del potere esecutivo".

Il predetto strumento induttivo attraverso il quale viene rideterminato il reddito delle famiglie, confligge con l'art. 2 della Costituzione, il quale prevede l'obbligo della legge di proteggere la privacy del cittadino oltre che con gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamenti dell'Unione Europea ("diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, nonché alla protezione dei dati di carattere personale").

"Non può esservi", secondo il giudice che ha emesso la citata sentenza, Antonio Lepre,"né dignità, né libertà ove non vi sia protezione e piena autonomia che comporta ovviamente il non dover giustificarsi delle proprie scelte se non in casi di assoluta eccezionalità e in presenza di circostanze specifiche, concrete e determinate". A questo principio è strettamente legato poi, secondo il giudice, quello di proporzionalità il quale "vieta alla P. A. di sacrificare la sfera giuridica dei privati, al di là di quanto sia strettamente necessario per il raggiungimento dell'interesse generale in concreto perseguito perchè  vi deve essere nell'azione amministrativa proporzione tra mezzi e fini perseguiti".

Ma la sentenza, fa emergere alcuni punti deboli del redditometro già sollevati, in verità di recente  dalla Corte di Cassazione, con la sentenza nr. 23.554 del 20 dicembre 2012, nella quale il massimo organo della Giustizia ha stabilito che l’onere della prova non può essere addossato al contribuente, ma dovrà essere sempre il Fisco a dimostrare con prove alla mano che c’è stata in effetti un’evasione fiscale. Una sentenza che, seppur pronunciata sulla base di un esposto presentato nel lontano 1994, chiama pesantemente in causa tanto il vecchio redditometro, quanto il nuovo.

Conformemente al predetto orientamento, il redditometro, per come è stato concepito, violerebbe, secondo quanto emerge dalla sentenza in commento, il diritto di difesa, perché “renderebbe impossibile fornire la prova di aver speso meno di quanto risultante dalla media Istat” e tutto ciò porterebbe il contribuente a dover affrontare un procedimento “inquisitorio e sanzionatorio”.
 
Ne consegue che il decreto ministeriale del 24.12.2012 n. 65648, istitutivo del redditometro è, ad avviso del Tribunale di Napoli, non solo “illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21 septies L. 241/1990, perché “conferisce all’Agenzia governativa un potere che va, manifestamente oltre quello della ispezione fiscale consentito astrattamente dall’art. 14, 3° comma Cost.”, inoltre “viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità in quanto, a ben vedere, non è strumento idoneo a raggiungere in modo adeguato i prefissi obiettivi di repressione fiscale”.
 
Il redditometro è iniquo, inoltre, perché finisce per accomunare situazioni territoriali differenti, in quanto altro è la grande metropoli, altro è il piccolo centro e altro ancora è vivere in questo o quel quartiere”. Infatti osserva il giudice, all’interno della medesima Regione e, anzi, della medesima provincia vi sono fortissime oscillazioni del costo concreto della vita, così come altrettanto forti oscillazioni vi possono esser all’interno di un’area metropolitana e i contribuenti delle zone più disagiate perderanno anche il vantaggio di poter usufruire di un costo della vita inferiore, in quanto gli sarà imputato in ogni casi il valore medio Istat delle spese”.
 
Nonostante, in definitiva, l’Agenzia delle Entrate abbia negli anni affinato considerevolmente la tecnica degli strumenti induttivi di rideterminazione del reddito, sostituendo i vecchi “parametri” con uno strumento più sofisticato e di maggiore impatto come il redditometro, tuttavia, neanche il predetto si sottrae alle medesime censure mosse ai “parametri” e agli “studi di settore”, ossia di essere poco “credibili” perché farebbe riferimento a tabelle Istat che generalizzano in maniera grossolana le presunzioni di redditi.