Il thema decidendum del processo
Il contenzioso in parola traeva origine dall’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate di Genova della sentenza n° 78/05 emessa dalla Commissione Tributaria della Regione Liguria, la quale aveva rigettato l’appello proposto sempre dall’Ufficio, confermando la decisione di primo grado.
In particolare, i giudici di prime cure avevano annullato l’avviso di accertamento - notificato nei confronti di un soggetto, esercente l’attività commerciale - in ordine al quale erano stati recuperati a titolo di Irpef (per l’anno di imposta 1993) maggiori redditi determinati in misura pari alle movimentazioni bancarie effettuate dal conto corrente intestato “formalmente” alla moglie.
I giudici di merito disconoscevano la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.) assenti nella tesi “accusatoria” avanzata dall’Amministrazione finanziaria a supporto della riferibilità al contribuente delle “somme transitate sul conto del coniuge”, poiché detta presunzione “non assurgeva a prova certa”: non poteva escludersi che talune movimentazioni registrate sul conto fossero state compiute dal coniuge nel proprio interesse e quindi che non fossero riconducibili all’esercizio dell’attività “aziendale” del marito.
La decisione della Corte di Cassazione
Come noto - in tema di accertamento delle imposte, a mente dell’art. 32, n° 7 del D.P.R. 600/73, nonché dell’art. 51 del D.P.R. 633/72 - l’Amministrazione finanziaria è autorizzata a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini “su conti correnti formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente” acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari[1] o quando comunque gli stessi conti siano stati utilizzati per occultare operazioni commerciali (rectius: gestione extra – contabile) con il fine di evasione fiscale[2].
Non solo: i precedenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione hanno sostenuto (sia sotto il profilo delle imposte sui redditi, sia alla luce dei principi vigenti in tema di Iva) la piena legittimità delle indagini finanziarie estese ai conti bancari di terzi, reputando che lo stretto rapporto familiare – o la particolare composizione societaria/vincolo commerciale tra il terzo ed il contribuente – integrano elementi indiziari sufficienti a giustificare (salvo prova contraria) la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate sui conti correnti intestati ad altri soggetti.
In altre parole – applicando siffatto percorso logico al caso in parola – i giudici ermellini sono approdati alla conclusione che il mero c.d. rapporto familiare[3] (“stretta contiguità familiare”) è sufficiente a “cristallizzare” la riconducibilità al contribuente delle movimentazioni rilevate sui conti “ufficialmente” intestati ai congiunti, laddove vi sia una ingiustificata capacità reddituale di questi ultimi nel periodo di imposta verificato.
A ben vedere, fermo restando che incombe sul contribuente l’onere prova[4], la S.C. ha precisato che le somme rinvenute sui conti dei familiari possono essere riferite al soggetto accertato qualora sussista: a)  frequenza e notevole entità delle somme movimentate sul conto bancario, b) assenza di redditi propri dichiarati dal coniuge, c) esigua entità dei ricavi dichiarati negli anni di imposta accertati e d) mancanza di giustificazione fornite dal contribuente e dal coniuge in ordine alle predette movimentazioni ed alla provenienza dei relativi importi.
Di Federico Marrucci
Avvocato Tributarista in Lucca
(presso Studio Legale e Tributario Etruria)
 


[1] cfr. Cass. n° 8683/02, n° 27032/07; [2] cfr. Cass. n° 374/09; [3] cfr. Cass. n° 27947/09; [4] cfr. Cass. n° 26173/11;