Con la legge in commento, il legislatore è intervenuto (ancora parzialmente, vista la delega contenuta nell'art. 3 in favore del Governo, per la predisposizione di ulteriori testi di legge che, in maniera più approfondita e puntuale, intervengano sulla normativa in materia di filiazione anche collaterale – ad esempio in tema di adottabilità) per eliminare definitivamente (sebbene nel tempo vi fossero state numerose aperture da parte della dottrina e della giurisprudenza in tal senso) la distinzione fra figli naturali e figli legittimi.

Tale distinzione è figlia di un modo di pensare, soprattutto sociale ma inevitabilmente anche giuridico, piuttosto risalente e legato ad una concezione della nostra società secondo cui la famiglia era solo quella fondata sul matrimonio, con la conseguenza che ogni evento che non rientrasse in tale schema (figli avuti fuori dal matrimonio o prima dello stesso) andava discriminato, quasi punito (inizialmente), poi comunque “contrassegnato” rispetto alla filiazione legittima; tanto che il figlio nato fuori del matrimonio andava riconosciuto, o “legittimato” per susseguente matrimonio, quasi che altrimenti potesse non essere considerato un essere umano (se non riconosciuto, come se il mancato riconoscimento ne negasse l'esistenza) o nella migliore delle ipotesi essere ritenuto un errore, una “irregolarità amministrativa” che andava regolarizzata attraverso un apposito procedimento (fra l'altro di natura amministrativa ma dinanzi ad un giudice, a significare la particolare pregnanza e importanza richiesta per porre rimedio a quello che era stato originato da un rapporto “proibito” o fuori dei canoni della “famiglia normale”).

Ebbene, è evidente che un tale substrato di pensiero non appartenga più ai comuni valori condivisi dall'attuale società italiana. Col risultato che, dovendo adeguare il legislatore la propria normativa ai valori comunitari, si è reso necessario intervenire congruamente per eliminare, anche sotto nome di norma, tale substrato ormai superato nei fatti.

Nell'approfondimento di oggi ci occuperemo sia della ridefinizione del concetto di “parentela”, sia del procedimento di riconoscimento giudiziale della filiazione.

Quanto al primo aspetto, il concetto era oggetto di una stringata definizione di cui all'art. 74 del Codice Civile: “La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite.”.

Per effetto della novella di cui alla legge 219, oggi il medesimo articolo ha il seguente contenuto:”La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti”.

Possiamo notare dunque che il concetto di parentela (molto importante per diversi istituti del diritto civile, ad esempio quanto al divieto di nozze fra consanguinei o per l'individuazione delle categorie di successibili nelle successioni legittime) viene chiarito (più che esteso): si fa espressa menzione, ed equiparazione, fra le categorie dei figli legittimi (nati fra coniugi all'interno – ossia durante – del matrimonio), dei figli naturali (nati fra coniugi prima del matrimonio, o fra persone non sposate) e dei figli adottivi. A tale ultimo proposito, viene precisato che non sorge parentela quando l'adozione avviene nei confronti di un soggetto maggiore di età (ma questa precisazione può essere considerata come una eccessiva premura da parte del legislatore, non essendovi dubbi che il maggiore di età non instauri rapporti di parentela con i parenti del proprio adottante).

Quanto alla disciplina del procedimento di riconoscimento dei figli, anzitutto il procedimento stesso non è più inteso al riconoscimento “dei figli naturali” ma “dei figli” tout court.

Legittimati a proporre l'azione di riconoscimento sono, come già in precedenza, i genitori della persona interessata, sebbene non uniti in matrimonio fra di loro all'epoca del concepimento (rectius: sebbene eventualmente uniti in matrimonio con altre persone all'epoca del concepimento). Nulla da questo punto di vista è cambiato quindi, se non una “inversione” terminologica dei soggetti legittimati: prima “il padre e la madre”, adesso “la madre e il padre”. Modifica, ad avviso dello scrivente, di significato prettamente ideologico, per dare maggiore importanza alla scelta della madre in un tale contesto: importanza simbolica, giacchè in verità la norma consente, adesso come prima, che il riconoscimento venga effettuato anche da uno solo dei genitori (rimanendo quindi tuttora irrilevante che entrambi lo facciano, salvo le precisazioni di cui più avanti al riguardo).

Di maggiore interesse sono le altre modifiche all'art. 250 del Codice Civile che si occupa appunto del riconoscimento.

E così anzitutto si segnalano le modifiche apportate al secondo e terzo comma, accomunate dall'aver abbassato l'età minima (dai sedici ai quattordici anni) richiesta affinchè, rispettivamente, l'assenso del figlio da riconoscere sia rilevante (a pena di inefficacia dello stesso riconoscimento) o non sia consentito ad uno solo dei genitori effettuare il riconoscimento se l'altro genitore che lo ha già fatto non è d'accordo (nel caso che il figlio non abbia ancora compiuto l'età minima richiesta).

L'abbassamento dell'età risponde evidentemente al mutamento dei tempi, che vedono ora una maggiore maturità in soggetti più giovani che in passato e, in ragione di ciò, si viene a mitigare il rischio che un genitore impedisca il conseguimento degli eventuali benefici derivanti al figlio dal riconoscimento anche da parte dell'altro genitore, per ragioni non rispondenti ad un effettivo interesse del figlio al non essere riconosciuto anche dall'altro genitore (ma meramente egoistiche): preoccupazione questa del legislatore che, se in passato poteva dirsi meritevole di tutela fino al compimento dei sedici anni di età da parte del minore (il quale a quel punto diventa il vero “arbitro” del suo destino, dando o negando il suo assenso ad essere riconosciuto tout court), oggi viene anticipata ai quattordici anni (in quanto, appunto, adesso si ritiene che già dal compimento dei quattordici anni la piena efficacia del riconoscimento – di uno o entrambi i genitori – debba dipendere dalla volontà del minore).

Di notevole importanza, a completamento delle considerazioni appena fatte de iure conditum, è l'ampliamento del penultimo comma dell'art. 250: comma che in precedenza si “limitava” a descrivere, in modo scarno e da “colmare” attraverso la buona prassi giudiziale, un mini-procedimento per il caso che uno dei genitori fosse contrario al riconoscimento da parte dell'altro e, quindi, si dovesse innescare una verifica dinanzi al tribunale sulla rispondenza all'interesse del minore del secondo riconoscimento.

Oggi tale mini-procedimento viene descritto compiutamente:

- se un genitore nega (rifiuta) il suo consenso al riconoscimento effeuttato dall'altro genitore, quest'ultimo, evidentemente ritenendo che il proprio atto risponde all'interesse del figlio, propone ricorso al giudice competente;

- il giudice emette un decreto con cui invita il genitore ricorrente a notificare il proprio ricorso al genitore che rifiuta

- quest'ultimo ha 30 giorni di tempo, dalla ricezione della notifica, per proporre a sua volta (non è chiaro se mediante ricorso – rispetto al quale sarà necessaria l'emissione di un decreto di fissazione udienza da parte del giudice, decreto quindi da notificarsi insieme all'opposizione al primo genitore – o mediante atto di citazione – notificato direttamente al primo genitore, che verrà quindi invitato a comparire dinanzi al giudice a certa data fissa; tuttavia, data la sommarietà del procedimento descritto, ritagliata sulla falsariga dei procedimenti cautelari, si ritiene sommessamente che l'opposizione andrà proposta sotto forma di ricorso; questo aspetto è rilevante ai fini del rispetto del termine di 30 giorni, che si ritiene compiuti in momenti diversi a seconda che si opti per il ricorso o per la citazione) una opposizione al riconoscimento dell'altro genitore

- se viene proposta opposizione, il giudice, sulla base di sommarie informazioni e ascoltato il minore già ultradodicenne (o addirittura infradodicenne se particolarmente “maturo” rispetto alla propria età), adotta provvedimenti provvisori e urgenti allo scopo di creare la relazione fra il genitore e il minore (quindi cautelarmente favorevole al genitore a cui viene rifiutato dall'altro genitore il riconoscimento) a meno che, già sommariamente, il giudice ritenga che effettivamente l'opposizione poggi su motivi più che validi (quale una evidente inidoneità del genitore a cui è rifiutato il riconoscimento, e su questo soccorreranno i contributi dottrinari e giurisprudenziali in materia);

- tanto nel caso di mancata opposizione, quanto in quello di opposizione, il mini-procedimento si concluderà con una sentenza, che avrà l'effetto di sostituire il consenso del genitore (che ha già riconosciuto) che si è opposto, se il giudice dovesse ritenere infondata la sua opposizione beninteso;

- la eventuale sentenza pronunciata in tal senso, il giudice disporrà anche in merito al mantenimento e all'affidamento del minore, nonché all'assunzione da parte di questi del cognome.

L'ultimo comma dell'art. 250 è stato ridisegnato nel senso di consentire che il genitore che effettua il riconoscimento potrebbe avere anche meno di sedici anni se il giudice valuta positivamente le circostanze addotte nel caso specifico (ad esempio la particolare maturità del genitore che effettua il riconoscimento, o il contesto familiare “allargato” di riferimento) e la rispondenza del riconoscimento all'interesse del figlio (tale valutazione era preclusa in precedenza).

Viene rivisitato anche l'art. 251, che disciplina l'ipotesi del riconoscimento dei figli nati fra consanguinei. A partire anzitutto dalla “rubrica” dell'articolo, che è semplicemente “Autorizzazione al riconoscimento”, mentre prima era, significativamente, “Riconoscimento di figli incestuosi”.

In secondo luogo, viene consentito il riconoscimento se vi è l'autorizzazione del giudice, sulla base di un riscontrato interesse del figlio nonché dell'opportunità di evitargli qualsiasi tipo di pregiudizio; in precedenza, invece, nonostante potessero esservi tali interesse ed opportunità, il riconoscimento sarebbe stato vietato se fosse stata constatata una piena conoscenza del vincolo di parentela da parte di uno o entrambi i genitori, all'epoca del riconoscimento.

Si è precisata, inoltre, la competenza del tribunale per i minorenni ad autorizzare il detto riconoscimento, se la persona da riconoscere è minore di età.


 

Da ultimo, il primo comma dell'art. 258 prevede ora che il riconoscimento del figlio ha efficacia non solo nei confronti di chi lo abbia effettuato, ma anche nei confronti dei suoi parenti.