La definizione anticipata del procedimento  è problematica comune all’ intera sistematica processuale penale, tendendo ad un fine di deflazione del dibattimento il quale, nell’ ottica del legislatore, dovrebbe essere addirittura residuale, limitato ad un ristretto numero di casi, dovendosi privilegiare - appunto - una serie di meccanismi tali da consentire una sostanziale accelerazione dei tempi processuali. In modo precipuo la necessità di prevedere forme particolari e specifiche di definizione anticipata è stata predisposta per il minore, proprio per la peculiarità dell’ indagato ( e dell’ imputato) alla luce di considerazioni ovviamente di natura non soltanto giuridica ma sociologica, culturale, educativa; considerazioni  tutte che  originano dalla devianza minorile, la analizzano e tendono a circoscriverla, quando non a risolverla.  
Principio fondante dell’ intero sistema processuale minorile è quello della minima offensività, che tende ad allontanare e proteggere, per quanto possibile, il minore dall’ intero sistema processuale penale mediante una sua sollecita fuoriuscita  dall’ intero circuito giudiziario penale,   fondante in quanto è il principio che dà attuazione allo scopo che il legislatore si è prefisso nel disciplinare tale processo - il recupero del minore che ha commesso un reato-. Lo scopo del recupero del minore, che la Corte Costituzionale ha definito, già negli anni '70  "interesse-dovere dello Stato", sulla base degli articoli 31 e 27 della Costituzione, prevale addirittura sull'interesse statuale a perseguire gli autori di fatti costituenti reato secondo un criterio meramente retributivo e repressivo.     Ovviamente, l’ elaborazione di tale principio e di tutta l’ intera problematica connessa al diritto penale minorile, è il risultato finale di un lungo  percorso anche  dottrinale, mediante la elaborazione di testi, di Dichiarazioni e di Convenzioni internazionali, alle quali  fa sostanziale riferimento il D.P.R 488/88 che regola la materia, elaborazioni che possono  definirsi originate dalle cosiddette “Regole di Pechino”. Questo lavoro di approfondimento nasce a Caracas al sesto Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, nel corso del quale è stata approvata una Risoluzione con cui ci si impegnava a preparare una bozza di Regole minime uniformi sull’amministrazione della giustizia minorile. 
Tra i principi ispiratori in materia penale sostanziale e processuale contenuti nella risoluzione, - e che ci riportano immediatamente al nostro tema centrale - i principali riguardano:  1) La fissazione ad un limite non troppo basso dell’età della responsabilità penale;  2) La proporzionalità della misura penale adottata in relazione alle circostanze del reato e dell’autore dello stesso;  3) La  creazione   di   un   potere   discrezionale  “appropriato  a diversi livelli dell’ amministrazione  della   giustizia  minorile,  sia   nell’ istruttoria  che  nel processo e nella fase esecutiva”, esercitato da persone qualificate e specializzate;  4) Il riconoscimento di “garanzie procedurali di base quali la presunzione di innocenza, il diritto alla presenza del genitore e del tutore, il diritto alla notifica delle accuse, il diritto al confronto e all’esame incrociato dei testi, il diritto a non rispondere e il diritto di appello”;  5) La tutela della vita privata del giovane, evitando ogni tipo di pubblicità inutile e denigratoria, ed evitando altresì la pubblicazione di informazioni che permettano la identificazione di un giovane autore di reato.   L’articolo 11 comma 1 delle Regole di Pechino esprime chiaramente qual è il tipo di giustizia minorile che si vorrebbe realizzare.    Esso infatti stabilisce che : “Dovrebbe essere considerata l’opportunità, ove possibile, di trattare i casi dei giovani che delinquono senza ricorrere al processo formale da parte dell’autorità competente” .        
Premessa una doverosa e fondamentale analisi preliminare circa i concetti che debbono desumersi dalla disciplina generale del processo minorile ex art. 9 del d.P.R. n. 448 del 1988 circa l’ imputabilità del minore e  sulla capacità del soggetto al momento della commissione del reato, in buona sostanza può dirsi che le modalità di definizione anticipata e senza condanna del processo penale minorile ispirate al principio della minima offensività sono  l' assoluzione per non imputabilità  la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto  il perdono giudiziale  la dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova .   E’ esclusa, viceversa, nel procedimento penale minorile quella che - per nozione di comune esperienza - è la misura maggiormente deflattiva e cioè l’applicazione di pena ex  art.  444  c.p.p.,  il cd “ patteggiamento”, stante l’ esplicita previsione negativa dell’ art. 25 D.P.R. 448/88.  Solo “per incidens”  vorrò ricordare che la questione è stata sottoposta, stante quella che appare una incongruenza rispetto alla possibilità sia deflattiva del procedimento che rispetto alla sollecita fuoriuscita  del minore dal circuito giudiziario penale, al vaglio della Corte Costituzionale proprio dal Tribunale per i Minorenni di Napoli, paventandosi l’ illegittimità costituzionale del richiamato art. 25.  La Corte, tuttavia, ritenne non fondata la questione di legittimità, con considerazioni che, provenendo dal Giudice delle Leggi vanno ovviamente accettate anche se non condivise e circa la quale  ognuno potrà  fare le proprie considerazioni , rammentando che la stessa è datata 20-27 aprile 1995 n.135.        
Appare opportuno cominciare a prendere in considerazione dapprima il tema della imputabilità, anche in riferimento ad una delle richiamate Regole di Pechino e cioè quella che prevede  la fissazione ad un limite non troppo basso dell’età della responsabilità penale.   Sulla base della considerazione che il minore non ha ancora raggiunto un grado di sviluppo fisico e psichico tale da poter comprendere il valore etico-sociale delle proprie azioni, di essere in grado, cioè, di separare ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, anche il nostro codice annovera la minore età tra le cause di esclusione dell' imputabilità.  Se ci limitassimo semplicemente a seguire l' orientamento proprio delle scienze psicologiche, dato che l'età della maturazione psichica non è uguale per tutti ma varia da persona a persona, si procederebbe ad un accertamento caso per caso. Ci sono però esigenze giuridiche di certezza, uguaglianza e praticità dell'accertamento che impongono l'adozione di un criterio cronologico, il quale, sulla base dei dati offerti dall'esperienza, deve essere altamente presuntivo della raggiunta maturità. Tale criterio cronologico, come è noto, individua nel compimento del quattordicesimo anno di età il discrimine in ordine alla imputabilità in concreto del minorenne e la sua conseguente sottoponibilità alla giustizia penale.  Il nostro sistema penale, pertanto,  prevede che il minore non imputabile, perché al momento del fatto non aveva compiuto ancora quattordici anni o perché, pur avendoli compiuti, è stato riconosciuto incapace di intendere e di volere, venga prosciolto, cioè non assoggettato a pena. Questo non vuol dire che nei confronti del minore così prosciolto non venga disposta nessuna misura, potendo il giudice, agli estremi, valutare e disporre da un lato l’ applicazione di misure amministrative e, dall’ altro, in ipotesi di riconosciuta pericolosità, le misure di sicurezza.  
Appare  evidente,  dalla concreta esperienza, quotidiana che non è infrequente trovarsi  in presenza di una persona di età incerta, però presumibilmente minorenne. Data la forte presenza nel nostro paese di giovani stranieri di immigrazione irregolare privi di documenti e di nomadi, non si può, infatti,   dire che si tratta di una ipotesi meramente scolastica. A questo riguardo la giurisprudenza della Cassazione è univoca: «ai fini della determinazione della competenza, in caso di incertezza circa la maggiore o la minore età dell'imputato, il Tribunale per i Minorenni deve provvedere [...] agli opportuni accertamenti e, persistendo il dubbio dell'esito di questi ultimi, deve ritenere la propria competenza in applicazione del principio del "favor rei"». Cass., 16 gennaio 1989, Foro it. 1989, II, p. 412   Gli accertamenti sull'età possono essere eseguiti in vari modi: tramite ricerche anagrafiche o documentali, indagini collegate al possesso di stato utilizzabili anche ai fini civili nonché, ai sensi dell' art. 8 D.P.R. n. 448/88, prevedendo l'espletamento della perizia. Tale disposizione  codifica una prassi che, nel silenzio della legislazione previgente, veniva seguita in caso di incertezza sull'età dell'imputato essendo l'unico mezzo efficace per accertare l'età in caso di mancanza di fonti ufficiali, come i documenti di identità, da cui ricavarla.  Oggetto della perizia è ovviamente l'accertamento dell'età dell'imputato, che verrà effettuato attraverso indagini specialistiche, quali accertamenti radiografici sullo sviluppo scheletrico, accertamenti sulla calcificazione ossea, indagini antropobiomediche, ecc.        
Posto dunque che sia accertata ed accertabile la sussistenza dell’ indispensabile requisito dell’ età del minore accusato di un reato, viene subito dopo in considerazione la necessità dell’ accertamento della sua  capacità di intendere e di volere del minore, capacità che viene solitamente individuata nel concetto di maturità . Si tratta di un concetto molto vago e anche molto controverso, anche  perché  non risulta da nessuna disposizione legislativa, in quanto frutto della elaborazione giurisprudenziale. Possiamo dire che l'utilizzo di parametri per loro natura così soggettivi e contingenti, non sufficientemente rigorosi, quali sono invece richiesti dal diritto positivo per definire e accertare ogni concetto giuridico fondamentale, ha dato vita a un concetto di immaturità scientificamente del tutto evanescente. La mancata convergenza interpretativa su quanto richiesto come condizione di imputabilità ha reso discrezionale, in modo abnorme, tutto il percorso valutativo, dando alle tendenze culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato, gli elementi indice di una maturazione adeguata, i campi e le modalità di indagini. In passato l'allargamento dei margini di opinabilità ha permesso una difformità di giudizi tra i vari Tribunali, a seconda sia delle varie sedi geografiche, sia dei diversi periodi di tempo considerati, sia degli indirizzi ideologici non omogenei, finendo l'immaturità col diventare uno strumento di clemenzialismo e di deresponsabilizzazione del minore.   Con l’ entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale per i minorenni (D.P.R. 448/88) il quale offre ai giudici ampie possibilità di chiudere il processo in modo diversificato - avendo sempre come obiettivo la rieducazione del minore imputato riconosciuto responsabile - si è fortemente  attenuata l'esigenza, sentita fortemente allora, di depenalizzare le condotte illecite degli imputati minorenni, determinando statisticamente il crollo verticale delle pronunzie. Bisogna tener presente, inoltre, che la pronunzia  di “immaturità” non è priva di conseguenze pratiche in quanto, tra i provvedimenti iscrivibili al casellario giudiziale, rientrano espressamente “ i provvedimenti giudiziari definitivi che hanno prosciolto l’ imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità ..”        
Tenendo da parte il procedimento incidentale concernente la “messa alla prova”, che costituirà argomento di successivo tema affidato ad altri relatori, si apre il campo allo schema complessivo della definizione anticipata del procedimento volta alla sollecita fuoriuscita  del minore dall’ intero circuito giudiziario penale e segnatamente il “perdono giudiziale” e la “irrilevanza del fatto”, entrambi istituti ricollegabili al principio della minima offensività.    In Italia la piena realizzazione del principio della minima offensività del processo penale minorile è sempre stata contrastata dalla previsione costituzionale del principio di obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione). Tale principio sembra costituire un vincolo estremamente rigido nel settore minorile in quanto impedisce di adeguare fino in fondo le caratteristiche del sistema giudiziario alle condizioni socio - psicologiche del soggetto minorenne ed alle esigenze della sua educazione.  Il processo penale minorile, tuttavia, ha in sé la possibilità di ridisegnare i confini dell’intervento penale, creando quelle che efficacemente sono state definite delle <<terre di mezzo>>, nelle quali è possibile <<fare giustizia senza fare processi>>.   
E’ da tener presente che quasi tutti i sistemi giudiziari delle democrazie occidentali presentano misure che hanno come obiettivo l’astensione dell’apparato della giustizia da ogni forma d’intervento : in Paesi quali l’Inghilterra, l’Olanda, l’Austria, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti sono diffuse misure che consentono alla polizia di ammonire e di avvertire anticipatamente di quali siano le conseguenze di un reato, accompagnando il minore presso la stazione di polizia, o fissando un colloquio con i genitori, o richiedendo l’intervento dei servizi sociali.  Le soluzioni adottate dal legislatore del 1988, volte a limitare l’offensività del processo, in linea con lo scopo del recupero del minore, si riferiscono tutte alla fase successiva all’esercizio dell’azione penale, in costanza del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale,  non potendo esistere forme  analoghe a quelle analizzate e il giudice per le indagini preliminari ha unicamente la possibilità di pronunciare il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto con sentenza e solo dopo aver sentito il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori e la persona offesa dal reato.  In tutti gli altri casi la chiusura del procedimento è demandata all’udienza preliminare, che ha di conseguenza una posizione di assoluta centralità. Costituisce, infatti, la sede in cui viene definito il processo penale nel merito.  L’ articolo 32, primo comma, del D.P.R. 448 del 1988 prevede che il giudice dell’udienza preliminare possa pronunciare  per quel che qui direttamente ci riguarda sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall’articolo 425 del codice di procedura penale, così come modificato dalla legge n. 479 del 1999, o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto.  Per quanto riguarda l’articolo 32 del D.P.R. 448 del 1988 così come modificato  dalla legge n. 63 del 2001, in attuazione  dei principi del  cosiddetto <<giusto processo>> vi è da dire che il giudice dell’udienza preliminare non possa prosciogliere il minore nel caso in cui risulti contumace o legittimamente assente o irreperibile, dovendo, in ogni caso in cui manchi il consenso dell’imputato, emettere il decreto che dispone il giudizio anche nel caso in cui avrebbe altrimenti pronunciato sentenza di non luogo a procedere nel merito con formula ampiamente liberatoria o, in ogni modo, tale da non postulare alcun accertamento di responsabilità dell’imputato.  La Corte Costituzionale, intervenendo sulla questione ha dichiarato la illegittimità della norma <<nella parte in cui, in mancanza di consenso dell’imputato, preclude al giudice di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere che non presuppone un accertamento della responsabilità dell’imputato>>  ed ha anche definito la disciplina emergente dalla modifica del 2001 come una <<disciplina intrinsecamente priva di ragionevolezza, che vanifica le finalità deflattive che ispirano l’impianto dell’udienza preliminare minorile, precludendo la possibilità di una immediata definizione del processo e imponendo uno sviluppo dibattimentale assolutamente superfluo, non funzionale all’esercizio del diritto di difesa, posto che, fra l’altro, l’imputato non potrebbe comunque ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa>>.  La prassi, tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi in cui non è stato prestato preventivamente il consenso e l’ imputato non sia presente all’ udienza  preliminare ( si pensi agli irreperibili ovvero ai nomadi ) è che il giudice per le indagini preliminari molto difficilmente approfondisca se è possibile giungere ad una sentenza ampiamente liberatoria e si limiti a disporre “tout court” il rinvio a giudizio del Tribunale .  Questa prassi  non è neppure scevra di conseguenze pratiche in quanto, essendo noi qui oggi interessati ad un corso di formazione professionale  per l’ esercizio della  difesa di ufficio,  lo stesso G.I.P. allorchè il difensore di ufficio provvederà a redigere la propria notula per il pagamento delle spettanze professionali, riterrà insussistenti le voci di tariffa di cui agli artt. 6.2 e 6.3, relative all’ “esercizio di attività difensive” e “ per la discussione orale”, cristallizzando  a mo’ di feticcio la sua presenza . . . .                   
Il perdono giudiziale   
Il perdono giudiziale fu introdotto dal codice penale del 1930 all’articolo 169.  Questo istituto, in quanto estingue la potestà statale di applicare la pena minacciata, configura una causa estintiva del reato, facendo venire meno la c.d. <<punibilità in astratto>>, la quale si configura mediante il verificarsi di tutti gli elementi costitutivi del reato e  consiste nella possibilità  di disapplicazione  delle conseguenze penali del fatto-reato: lo Stato, pertanto, rinuncia ad applicare la sanzione penale minacciata dalla norma.  Con il perdono giudiziale, lo Stato - nei fatti - rinuncia alla condanna  ( ovvero al rinvio a giudizio del Tribunale ) nonostante l’ acclarata la responsabilità dell’imputato minorenne. Può essere concesso in sede di udienza preliminare o dibattimentale, mentre è preclusa la sua concessione durante le indagini preliminari, in quanto non è incluso fra i motivi che comportano l’archiviazione.    La prima condizione necessaria, ma non sufficiente, per concedere il perdono è che il colpevole, al tempo della commissione del reato, non avesse compiuto i diciotto anni: si configura, così, una causa estintiva del reato applicabile esclusivamente ai minori.    Inoltre, secondo la previsione dell’articolo 169 del codice penale, è applicabile solo ai minori che abbiano commesso reati che importino una pena restrittiva della libertà non superiore a due anni o una pena  pecuniaria non superiore a € 1.549,37 (tre milioni di lire), anche se congiunta a detta pena, configurando, pertanto, la cognizione piena del la sussistenza  dell’accusa, occorrendo prove sufficienti per condannare e si basa su un effettivo accertamento della colpevolezza dell’imputato e della possibilità di applicare in concreto una pena contenuta nei predetti termini, facendosi riferimento non già alla astratta pena edittale, bensì a quella che il giudice applicherebbe effettivamente, in caso di condanna.  Presupposto per la sua concessione  è la presunzione  che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 169). Questa presunzione, che si deve fondare sulle circostanze indicate nell’articolo 133 del codice penale, volte a stabilire la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole, implica, unitamente  all’esame del fatto, anche quello della personalità del soggetto e del suo comportamento contemporaneo e successivo al fatto.  Il giudice, i altri termini,  è tenuto  a compiere un <<giudizio prognostico sul comportamento futuro del minore e, quindi, sulla possibilità che la mancata irrogazione della pena contribuisca al recupero dello stesso in termini di ragionevole prevedibilità>>.    L’ultimo comma dell’articolo 169 del codice penale prevede che il perdono giudiziale non possa essere concesso più di una volta.    La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema della reiterazione del beneficio. Dapprima, ha interpretato estensivamente la previsione del codice penale estendendo la possibilità di concedere il beneficio ad altri reati legati dal vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato già concesso il perdono ed, ancora,  ritenendo che tale estensione riguardasse reati commessi anteriormente alla prima sentenza di perdono, quando la pena cumulata con la precedente, fosse inferiore ai   limiti per l’applicabilità del beneficio.  Successivamente, la sentenza n. 295 del 1986 ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di reiterazione, fuori dei casi predetti, in quanto la commissione di un nuovo reato dimostra l’insufficienza della funzione ammonitrice del perdono per l’autorieducazione del minore, il quale non ha risposto alla fiducia accordatagli dalla società.  L’articolo 169, nel disporre che il perdono non possa essere concesso al minore che ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o contravventore abituale o professionale, rimanda esplicitamente a quanto previsto, dall’articolo 164, per la sospensione condizionale della pena. 
Per quanto concerne le  iscrizioni nel casellario giudiziale vi è da dire che quelle  relative alla concessione del perdono sono conservate fino al compimento del ventunesimo anno di età della persona alla quale si riferiscono; dopodiché sono eliminate.  Resta salva per il minore la possibilità di ricorrere alla riabilitazione speciale, espressamente prevista per il minore, dopo il compimento del diciottesimo anno di età. Questa previsione di riabilitazione al compimento del ventunesimo anno di età  si inserisce nell’ambito delle disposizioni cosiddette  destigmatizzanti. Il fatto che sia stata prevista un’età più avanzata per l’eliminazione delle iscrizioni relative al perdono, rispetto a quella prevista per l’eliminazione delle iscrizioni relative ad altre <<formule indulgenziali>>,  si fonda sul presupposto dell’ avvenuto accertamento della responsabilità del minore, per un reato che non necessariamente sia di lieve entità ed, inoltre,  che l’estinzione del reato sia intervenuta contestualmente alla concessione del beneficio, senza alcuna  subordinazione all’esito positivo di un periodo di prova.    L’ istituto, alla luce  sia del principio rieducativo,  cui devono tendere le pene,  che dell’esigenza di tutela dei minori, secondo il dettato costituzionale svolge la sua specifica funzione nei casi in cui si ritenga  più utile per lo sviluppo armonico della personalità del minore e il suo reinserimento nella società, la disapplicazione della sanzione   rispetto alla sua applicazione, riponendo il legislatore minore fiducia nella capacità rieducativa del carcere per i minorenni e rispetto alla possibilità del loro recupero sociale, dopo il primo incontro con la giustizia penale.    La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto   
L’istituto dell’irrilevanza del fatto - assolutamente nuovo per l’ ordinamento giuridico italiano -   è stato introdotto, per la prima volta, nell’ordinamento giuridico italiano dall’articolo 27 del D.P.R. 448 del 1988, secondo il quale il giudice delle indagini preliminari può pronunciare sentenza di non luogo a procedere laddove  risultino contemporaneamente la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, allorchè l’ulteriore corso del procedimento sia tale da pregiudicare le esigenze educative del minorenne.  E’ questo, probabilmente, il maggior esempio del principio di minima offensività di cui si è più volte detto, configurando una causa di non punibilità, la quale <<non elimina al fatto commesso la qualità di illecito penale, ma fa venire meno la pretesa punitiva dello Stato nei confronti del suddetto minore>>.  Configurando una vera e propria causa di non punibilità l’ istituto  incorse nella censura della Corte Costituzionale la quale ebbe a dichiararne l’ incostituzionalità nel 1991 ( sent. 250/91) reputando un eccesso di delega da parte del Governo, chiamato <<a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato>>, mentre la norma in esame, pur presentando implicazioni di carattere processuale, attiene al diritto sostanziale, configurando una nuova causa di non punibilità.  Tuttavia, con la stessa pronuncia la Corte, profilando l’eccesso di delega come unica causa di illegittimità ne ha ribadito la piena ai principi della Costituzione in materia consentendo, sostanzialmente,  al legislatore di reintrodurla nell’ordinamento penale minorile, con la legge n. 123 del 1992.  Dal richiamato principio dell’ obbligatorietà dell’ azione penale,  ex art. 112 della Costituzione, discende che la irrilevanza del fatto  viene applicata dal giudice con sentenza, previa audizione del minore, dell’esercente la potestà dei genitori e della persona offesa, non potendosi ricorrere all’archiviazione, la quale  avrebbe costituito una violazione del predetto principio costituzionale. Come detto in precedenza  le condizioni richieste dalla legge per potersi configurare l’irrilevanza del fatto,  sono rappresentate da:  a) la tenuità del fatto;  b) l’occasionalità del comportamento;  c) il pregiudizio alle esigenze educative del minore.  La previsione normativa, contenuta nell’ articolo 27 DPR 488/88 riferisce la tenuità al fatto e non al danno; pertanto si potrà configurare un fatto di per sé tenue, ma con un danno rilevante o un fatto di per sé non tenue, ma con un danno di lieve entità. La norma non specifica a quali tipologie di reato debba riferirsi il parametro della tenuità, né entro quali limiti edittali di pena vada circoscritto.    Tale elasticità del criterio in esame comporterebbe  pertanto l’esigenza di individuare dei punti di riferimento precisi, tali da delimitare la discrezionalità del giudice, anche per evitare di incorrere in conseguenti disparità di trattamento causate da un’applicazione differenziata della disciplina, inevitabilmente influenzata dalla formazione culturale dei giudici, come è prassi costante rilevare circa l’adozione di diversi criteri interpretativi del parametro della tenuità da parte dei vari Tribunali per i minorenni. 
E’ da sottolineare come non sia possibile  qualificare         “l’irrilevanza del fatto ” come un’incondizionata forma di depenalizzazione, perché esclude ogni rigido automatismo, introducendo piuttosto una valutazione di <<inutilità>> del processo sia dal punto di vista oggettivo, sia che da quello soggettivo,  corrispondente al diritto del minore, ad avere una prognosi individualizzata.      Il giudizio sulla tenuità del fatto non può essere circoscritto essenzialmente alla considerazione del valore della “cosa” e dell’affidamento della stessa alla pubblica fede, ma deve investire la situazione complessiva, vale a dire il “fatto” come tale,  tendendo ad accertare che esso determini modeste reazioni e preoccupazioni nella comunità. Detta tenuità può essere ritenuta se il fatto sia oggettivamente modesto e sia posto in essere con modalità che lo rendano ascrivibile alla naturale leggerezza delle persone di giovane età, le quali spesso non riflettono adeguatamente sulle conseguenze della loro condotta.  Per quanto riguarda la seconda condizione prevista dalla legge, “l’occasionalità del comportamento“, si discute se sia da privilegiarsi un’interpretazione che tenga conto della mancanza di ripetizione abituale della condotta, ( collegando l’occasionalità ad un criterio cronologico), o una diversa interpretazione che si basa sulle particolari circostanze che determinano assenza di premeditazione (rapportando l’occasionalità ad un criterio psicologico).  Quest’ultima interpretazione è quella prevalente, sia in dottrina che nella giurisprudenza di vertice, anche se sussistono diverse e significative differenze di applicazione quotidiana da parte dei singoli Tribunali.  In particolare, il requisito dell’occasionalità andrebbe  inteso nel senso di condotta non sistematica,  cioè tale da manifestare una tendenza deviante, a prescindere dalla unicità o meno dell’ episodio,  in relazione, come ricordato, alla circostanza che l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore. Quest’ ultimo aspetto ( il pregiudizio alle esigenze educative del minore.  ) appare dunque come il corollario finale rispetto agli altri due ( la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento).   A proposito dell’ applicazione in concreto va sottolineato come  presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli, statisticamente, vi è una percentuale minore di tale istituto rispetto ad altri Tribunali per i Minorenni italiani. Questo è dovuto in parte alla qualità della criminalità minorile campana, che si caratterizza per la gravità dei reati commessi, ed in parte alla interpretazione restrittiva adottata da tale tribunale in ordine ai requisiti richiesti dalla legge per l'applicazione dell'irrilevanza del fatto.  In particolare l'occasionalità del comportamento viene interpretata solamente secondo un criterio strettamente cronologico, quale assenza di precedenti penali, mentre in altri Tribunali viene  considerato occasionale anche un reato commesso da un minore con precedenti penali, se avente natura diversa dai precedenti, secondo un'interpretazione in senso psicologico. Inoltre il riferimento al pregiudizio alle esigenze educative del minore causato dall'ulteriore corso del processo viene interpretato come la presenza di percorsi educativo-formativi, quali la frequenza di attività scolastiche o lavorative, in atto, mentre negli altri due tribunali viene riferito al percorso evolutivo proprio di ciascun minore, in quanto soggetto in età evolutiva.   Quando ricorrono le riferite circostanze ( tenuità, occasionalità e pregiudizio alle esigenze educative ) il Pubblico Ministero  chiede al Giudice per le Indagini Preliminari di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentito il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori nonché la persona offesa dal reato.  È significativo notare come la procedura camerale, che  prevede il solo giudice monocratico, senza la partecipazione del collegio, è ua eccezione nel processo penale minorile, traendo origine  esclusivamente da ragioni di opportunità e snellezza deflattiva e di adeguamento del rito alla esiguità del fatto. 
E’ da sottolineare, inoltre,  che la sentenza la quale accerti la “irrilevanza del fatto” è appellabile sia dall’ imputato che  dal procuratore generale presso la Corte di Appello, esplicitando in tal caso dialetticamente gli interessi contrapposti delle parti, incentrati l’uno sulla propria asserita estraneità e l’ altro  rispetto ad una valutazione degli elementi che si ritiene  eccessivamente indulgente nei confronti del minore.    Il mancato accoglimento da parte  del Giudice per le Indagini Preliminari della richiesta del Pubblico Ministero, con conseguente ordinanza di restituzione degli atti a quest’ultimo con richiesta di prosecuzione delle indagini preliminari, non impedirà al rappresentante della pubblica accusa di riproporre la richiesta di  sentenza di “non luogo a procedere per irrilevanza del fatto“.    Dopo l’ esercizio dell’ azione penale da parte del Pubblico Ministero, il giudice - che non ha un autonomo potere di procedere ex officio nella fase di indagini preliminari  -  qualora ne ricorrono le condizioni, potrà sempre emettere sentenza d’irrilevanza, anche disattendendo le eventuali diverse richieste dell’ accusa.   In definitiva si può dire che l’istituto in esame appare finalizzato, da una parte, al perseguimento della finalità deflattiva e, dall’altra, alla realizzazione del principio di adeguatezza alle esigenze educative del minore, strettamente legato al principio della minima offensività, dovendo mirare  il processo penale minorile ad un adeguato confronto con una personalità in formazione, tale da non interferire con il suo armonico sviluppo. Questa seconda esigenza è maggiormente sentita laddove si tratti di reati di scarsa rilevanza sociale, che rappresentano episodi isolati nella vita del minore. Pertanto, soprattutto in tali casi, il processo dovrà essere evitato quando potrebbe trasformarsi da evento rieducativo e responsabilizzante per il minore in evento traumatizzante per la sua personalità in formazione. 
L’irrilevanza del fatto è volta, come si diceva sopra,  anche al perseguimento dell’ulteriore finalità deflattiva, in quanto,  consente la rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, permettendo di sfoltire la massa delle notizie di reato da tutti reati definiti “bagatellari.”  In tal modo il sistema processuale minorile può concentrare le sue risorse sui casi ritenuti più meritevoli di attenzione.