Uno sguardo alle leggi
Il contenzioso familiare annovera sempre più tra i casi di maggior spessore le problematiche inerenti i minori. La famiglia, che dovrebbe essere l’ambiente ove il minore deve trovare calore, affetto e serenità, sovente è teatro di conflitti tra coniugi che diventano ingestibili, creando figli “vittime” di nuclei familiari patologici.
Le famiglie conflittuali non sono solo quelle con genitori separati ma anche quelle apparentemente unite con genitori in disaccordo ed in continua lite e che coinvolgono i figli nei loro conflitti, tanto da pregiudicare il diritto ad uno sviluppo sereno ed equilibrato del minore.
Il diritto ad una vita familiare serena è riconosciuto in ambito comunitario ed internazionale secondo i principi intangibili dettati da varie Convenzioni ed Accordi, tra i quali ha un preminente rilievo la Convenzione dei Diritti del Fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L.176 del 27 maggio 1991.
La Convenzione afferma il principio fondamentale secondo il quale al minore deve essere riconosciuta una normale crescita in una famiglia affettuosa ed accogliente, tanto che, come verrà specificato in seguito, introduce il concetto di “responsabilità genitoriale” in sostituzione della c.d. “potestà genitoriale”, elevando la figura del minore a vero e proprio soggetto di diritti.
Tuttavia, il primo strumento internazionale a tutela dei diritti dell’infanzia è stata la “Convenzione sull’età minima” adottata dalla Conferenza Internazionale del Lavoro nel 1919 seguita dalla Dichiarazione dei diritti del bambino o Dichiarazione di Ginevra, adottata dalla Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni nel 1924. Quest’ultima Dichiarazione non si rivolge agli Stati per stabilire obblighi ma rivolge un monito all’umanità intera affinché si renda garante della protezione ai minori. E’ una collaboratrice della Croce Rossa ad elaborare un testo volutamente breve e coinciso, recepito prima dall’Unione Internazionale per il Soccorso all’Infanzia e successivamente adottato all’unanimità dalla Società delle Nazioni.
La Dichiarazione di Ginevra consta di cinque principi ed ha un impianto sostanzialmente assistenzialista, volto ad affermare le necessità materiali ed affettive dei minori.
Dopo lo scioglimento della Società delle Nazioni e la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e del Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), prende corpo il progetto di una Carta sui Diritti dei bambini che possa integrare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, con lo scopo di evidenziarne i bisogni specifici.
La stesura e l’approvazione della Dichiarazione dei Diritti del fanciulli che recepisce il progetto anzidetto avviene all’unanimità e senza astensioni il 20 novembre 1959. Essa consiste in una sorta di “statuto” dei diritti del bambino e contempla alcuni principi, tra i quali il divieto di ammissione al lavoro per i minori che non abbiano raggiunto un’età minima; il divieto di impiego dei bambini in attività produttive che possano nuocere alla loro salute o che ne ostacolino lo sviluppo fisico o mentale; il diritto del minore disabile a ricevere cure speciali.
E’ con tale Dichiarazione che nasce il concetto di minore quale soggetto di diritti, al pari di qualsiasi altro essere umano, fin dal concepimento, ribadendo il divieto di ogni forma di sfruttamento nei confronti dei minori. L’interesse del minore è riconosciuto prevalente anche dalla successive Convenzioni di Strasburgo del 1996 e dalla recentissima Carta di Nizza.
L’Italia ha emanato, nel tempo, una serie di leggi per tutelare i diritti dei minori e, quindi, in attuazione delle Convenzioni ratificate, in particolare della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 1989, ratificata con legge 176 del 27 maggio 1991, come suaccennato. Con Legge 451 del 23 dicembre 1997 viene istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per gli Affari Sociali - , l’Osservatorio nazionale per l’Infanzia ed viene reso operativo il Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi sull’Infanzia ed Adolescenza. Il Centro ha funzioni di supporto all’attività dell’Osservatorio e tra i suoi compiti emerge quello di contribuire alla stesura del Rapporto periodico sulla condizione dei minori in Italia.
Si segnalano, poi, altre importanti fonti legislative emanate per favorire la promozione dei diritti, lo sviluppo e la socializzazione dell’infanzia ed adolescenza, tra cui la legge 285/1997, la legge 269/98 in materia di perseguibilità penale per il reato di pedopornografia minorile, violenza e sfruttamento sessuale dei minori. Così come la legge 154 /2001 in materia di misure contro la violenza nelle relazioni familiari, secondo cui il giudice può disporre l’allontanamento del reo di violenze domestiche dalla casa familiare con prescrizione di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima.
Merita particolare approfondimento la Legge n. 54 del 8 febbraio 2006, il cui art.8 ha aggiunto accanto all’art.155 cod. civ l’art. 155 quater sempre in materia di “provvedimenti riguardo ai figli”. La nuova disposizione statuisce che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente all’interesse dei figli” e che “dell’assegnazione in Giudice tiene conto della regolazione dei rapporti economici fra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”, consolidando così un orientamento giurisprudenziale dominante in materia, secondo il quale in materia di separazione e divorzio l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia riflessi anche economici, è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta. Orientamento confermato anche dalla giurisprudenza di merito e di legittimità successiva alla legge 54 (Cass. 23/11/2007 n. 24407; Cass. 24/07/2007 n. 16398; Cass. 22(03/2007 n. 6979; Cass. 14/05/2007 n. 10994) che ha negato il riconoscimento dell’assegnazione della casa coniugale in luogo dell’assegno di mantenimento in quanto l’assegnazione è prevista nell’interesse della prole.
L’art.155 quater subordina, dunque, l’adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare appartenga in comproprietà ai coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo di essi, il giudice non potrà adottare tale provvedimento, neppure in sostituzione dell’assegno di mantenimento.

La potestà o responsabilità genitoriale
La potestà genitoriale è la potestà attribuita ai genitori di proteggere, educare ed istruire il figlio minorenne e curarne gli interessi essendo il minore privo della capacità di agire e necessitando, dunque, di un rappresentante legale raffigurato dal genitore, il quale ultimo raccoglie i suoi poteri direttamente dalla legge. Rappresentanza legale che deve essere tenuta distinta, tuttavia, dalla rappresentanza c.d. tecnica, attribuita ad un difensore. Mentre l’omessa nomina del rappresentante legale costituisce nullità assoluta del procedimento minorile, la rappresenta tecnica, ove omessa, costituisce nullità del procedimento laddove il provvedimento adottato a definizione del procedimento costituisca un pregiudizio per il minore.
La potestà, prima della riforma del 1975, era attribuita al solo padre (donde la denominazione di patria potestà) per essere poi sostituita dalla potestà genitoriale c.d. congiunta ed esercitata da entrambi i genitori, in virtù del principio sulla parità tra coniugi. Ad essi, dunque, sono sottoposti tutti i figli minori non emancipati, siano essi legittimi, legittimati, adottati e naturali.
La norma che disciplina l’esercizio della potestà genitoriale (art.316 c.c) al secondo comma enuncia dunque che la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori e solo qualora sussista un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare provvedimenti urgenti ed indifferibili. In assenza di fatti pregiudizievoli che debbono essere concretamente dimostrati o di uno specifico provvedimento giudiziario che affidi i figli minori a uno dei genitori, con conseguente esercizio in via esclusiva della potestà genitoriale, entrambi i genitori sono contitolari dei poteri e doveri disciplinati dalla norma suddetta; conseguentemente, il comportamento di uno di essi che, allontanando il minore dall'altro, incida negativamente sulla potestà che pure spetta anche a quest'ultimo, impedendone o anche solo diminuendone la possibilità di concreto esercizio, realizza una palese violazione della norma in esame, venendo meno ai doveri nascenti dal matrimonio ed inerenti le funzioni genitoriali attribuite dall’ordinamento ad entrambi i coniugi.
La ratio della norma di cui all’art.316 c.c. è da ricercarsi nell'esigenza di una maggiore garanzia del minore, titolare, a norma della Carta di Nizza e per testuale parola della Convenzione di New York del 1989, del «diritto a mantenere, salvo circostanze del tutto eccezionali, relazioni personali e contatti diretti con entrambi i genitori», così privilegiando i diritti dei figli verso i quali i genitori non possiedono diritti o poteri ma obblighi e responsabilità per cui può concludersi che il Regolamento in parola ha posto al centro della famiglia i figli.
A tutela della norma di cui sopra soccorrono gli strumenti previsti dagli artt.330-333 c.c., nei quali, rispettivamente, si legge testualmente: “il giudice può pronunziare la decadenza dalla potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti, ovvero abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio” e “quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall'art. 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti ed anche disporre l'allontanamento di lui dalla casa familiare”.
Dalla lettura della prima disposizione, si evince l'effetto modificativo apportato dalla riforma del diritto di famiglia che impone la decadenza non solo in costanza di violazione o trascuratezza dei doveri - come prima avveniva - ma anche in caso di abuso dei poteri assunti, a sottolineare il munus genitoriale – potere “per” e non “sui” figli - cui si è fatto cenno.
Tornando al raffronto tra i dettati normativi, si evince come il legislatore non abbia inteso offrire criteri identificativi della gravità del pregiudizio, rimettendone l'individuazione alla discrezionalità del giudice, che dovrà, di volta in volta, valutare il grado di pericolosità della condotta genitoriale e scegliere la disciplina da adottare.
A tal proposito, la giurisprudenza, a giustificare la decadenza ex articolo 330 del Cc, ha preso in considerazione svariati atteggiamenti, concretatisi sia nel disinteresse verso le esigenze del minore utilizzando lo stesso come strumento di ricatto o ritorsione verso il coniuge sia nelle condotte penalmente rilevanti; si rilevi, come perfino la provata incapacità di comprendere il bambino, se tacciata di particolare gravità, possa originare la decadenza dalla potestà, sul filone tradizionale affermatosi nella giurisprudenza di merito sin dagli anni settanta che ha portato poi alla riforma della norma nel 1975.
Nel quadro, poi, di un progressivo ampliamento della cooperazione giudiziaria in materia civile, il 29 maggio 2000 il Consiglio dell’Unione Europea approvava il Regolamento (CE) n.1347/2000, relativo alla competenza, al riconoscimento ed all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi.
Come si evince dall’intitolazione, esso riguardava fondamentalmente i casi di scioglimento del matrimonio ed, in caso di figli comuni, i conseguenti provvedimenti sull’affidamento e sul cosiddetto diritto di visita. Ne restavano quindi escluse tutte le questioni estranee alla materia matrimoniale, vale a dire le decisioni sull’affidamento di figli naturali (e dunque la materia della famiglia di fatto), e quelle concernenti la decadenza e la limitazione della potestà genitoriale, attribuite in Italia ai tribunali per i minorenni.
Provvedimento normativo di grande importanza, il Regolamento (CE) 1347/2000 veniva subito salutato come la prima pietra di un diritto europeo delle relazioni familiari. Di immediata applicabilità per tutti gli Stati dell’Unione Europea, esso entrò in vigore il 1° marzo 2002.
A distanza di nemmeno due anni, il 27 novembre 2003, il Consiglio dell’Unione Europea approvava un nuovo strumento normativo comunitario: il Regolamento n. 2201/2203 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che entrava in vigore il 1° agosto 2004 ed veniva reso applicabile dal 1° marzo 2005. Tale nuovo Regolamento sostituiva ed abrogava a far tempo da quella data il Regolamento (CE) n. 1347/2000.
L’ambito di applicazione del Regolamento 2201/2003 è definito nell’art. 1, secondo il quale esso si applica alle materie civili relative al divorzio, alla separazione e all’annullamento ed a quelle relative “all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale”. La nozione di responsabilità genitoriale è chiarita nell’art. 2: essa comprende “i diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge, o di un accordo”, e comprende in particolare il diritto di affidamento e il diritto di visita.
In tutte queste materie, in base alla disposizione contenuta nell’art. 21, “le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”. Sono tuttavia previsti (art.23) alcuni casi in cui le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non vengono riconosciute. I più significativi sono i seguenti: a) quando, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico; b) quando (salvi i casi di urgenza) la decisione è stata presa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato; c) quando è stata presa con violazione dei diritti del contraddittorio; d) su richiesta del genitore che non ha avuto la possibilità di essere ascoltato e che considera la decisione lesiva della sua responsabilità genitoriale. In nessun caso la decisione del giudice dell’altro Stato può formare oggetto di un riesame nel merito (art. 26).

L’ascolto del minore
La legge 54/2006, suaccennata, ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 155 sexies del codice civile, la quale norma stabilisce che nei procedimenti di separazione dei coniugi, prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori, il giudice “dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”, di fatto bypassando i limiti della legge divorzile che contemplava l’ascolto del minore nei soli casi di necessità.
Di derivazione comunitaria, il procedimento per l’ascolto del minore esprime il diritto dello stesso a manifestare la propria opinione ed ad essere informato sulle questioni che lo riguardano e la violazione di tale procedura si concreta in una lesione del contraddittorio e delle regole del giusto processo, come ribadito anche dalla giurisprudenza interna con l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 22238 del 21 ottobre 2009). Giurisprudenza che ha escluso, altresì, la natura dell’ascolto quale mezzo di prova e l’ha identificato, invece, quale strumento di tutela del minore che consente al minore di partecipare egli stesso alla propria tutela, esprimendo i propri bisogni. Ciò implica che l’audizione del minore, prima ancora che un obbligo ex lege per l’autorità giudiziaria, rappresenta un diritto del minore.
L’ascolto deve essere raccolto con tutte le cautele possibili, affinché il minore possa essere libero di esprimersi senza interferenze, turbamenti o condizionamenti, con divieto anche per gli stessi genitori ed i difensori di sentirlo mentre tale facoltà sarà devoluta ad un organo più idoneo e professionalmente competente.
Per quanto riguarda il valore da attribuire alle dichiarazioni del minore, si opera generalmente una distinzione tra ciò che interessa la sfera dei diritti personalissimi ed interessi affettivi, in cui la scelta del minore, anche se in contrasto con quella dei genitori, è sempre determinante e la scelta circa l’affidamento ai genitori che deve sempre tenere in debita considerazione le regole sull’affidamento congiunto che possono essere derogate solo laddove esso risulti pregiudizievole per il minore. In assenza di interessi contrari, occorre precisare che la sola dichiarazione del minore favorevole ad uno dei genitori ed ostile all’altro non può di per sé orientare il giudice a decidere sull’affidamento esclusivo.
Può accadere, poi, che il minore convocato non si presenti per l’audizione. Anche su questo punto è intervenuta la giurisprudenza (Cass. 21/10/2009 n. 2238), chiarendo che occorre distinguere tra ascolto vero e proprio e disposizione dell’audizione, la quale ultima si ritiene sufficiente al rispetto dell’obbligo gravante sul tribunale. In ogni caso, allorché la mancata audizione dipenda da una volontà contraria ed ostativa del genitore domiciliatario, l’altro genitore può sempre ricorrere ex art.709 ter al fine di ottenere un provvedimento sanzionatorio nei confronti del coniuge.

Cenni sul riparto di competenze: Tribunale Ordinario o Tribunale dei Minorenni?
E’ sempre di attualità il dibattito circa il rapporto tra Tribunale dei Minorenni e Tribunale ordinario in ordine all’adozione dei provvedimenti nell’interesse del minore.
La giurisprudenza ha ribadito più volte che radica la competenza del Tribunale dei Minorenni il provvedimento volto a decidere sulla devoluzione della potestà genitoriale ad uno o all’altro genitore (decadenza o limitazione della potestà a seconda dei casi) mentre il Tribunale Ordinario interviene nei casi di questioni in ordine alla modalità di esercizio di tale potestà. Ciò peraltro non corrisponde esattamente alla prassi, dal momento che spesso il Tribunale minorile adito si dichiara incompetente allorché sia pendente un procedimento per separazione e divorzio.
Altra distinzione fondamentale va operata tra questioni attinenti alla prole di genitori coniugati e conviventi di fatto. Per quanto riguarda questi ultimi, l’art.317 bis c.c. attribuisce al Tribunale dei Minorenni, ex art.38 disp. att. cc., la competenza in ordine all’affidamento dei figli naturali, nonché la regolazione del diritto di visita. Disposizione che è rimasta immutata anche dopo l’entrata in vigore della L.54/06, che devolve al medesimo Tribunale anche le questioni attinenti alla sfera economica (concorso al mantenimento) della prole naturale, così raggiungendo lo scopo voluto dal legislatore nel senso di uniformare la disciplina per i figli nati da coppie non sposate, abbandonando la precedente divisione per competenze. Infatti, proprio perché il Tribunale dei Minorenni rimane competente a decidere sulle questioni attinenti l’affidamento, è opportuno che possa pronunziarsi anche in ordine alla misura ed alle modalità di contribuzione al mantenimento. Con ordinanza n. 8362 del 2007, la Suprema Corte ha precisato, altresì, che la concentrazione delle tutele nel caso succitato si impone in presenza di una contestualità delle domande di natura personale e patrimoniale, mentre allorché ci si trovi dinanzi ad una domanda circa il pagamento di un assegno promossa da un genitore nei confronti dell’altro, senza questioni sull’affidamento, la competenza a decidere spetta al Tribunale Ordinario attraverso lo speciale procedimento previsto dall’art.148 c.c.

Conclusioni
E’ necessaria una giustizia minorile ''forte'' che sappia contemperare la specialità e la delicatezza della materia con l'esigenza di un giusto processo, un’esigenza che postula l’applicazione anche nel processo minorile delle garanzie processuali che sono il fondamento di quel “giusto processo” a cui allude l'art. 111 Cost., norma che coniuga il diritto di difesa - già fortemente voluto dall’art. 24 Cost. – con l’attuazione del principio del contraddittorio e della terzietà del giudice.
Si parla propriamente di giustizia minorile con esclusivo riferimento alla tutela del minore, considerato quale soggetto debole i cui interessi esistenziali esigono forme di protezione e di promozione attuate con gli strumenti della giurisdizione. La stessa Corte Costituzionale (n. 451/1997) ha precisato che la giustizia minorile abbraccia i procedimenti che riguardano sia questioni di natura personale sia questioni, anche patrimoniali, che producono effetti, anche mediati e indiretti, sugli interessi dei minori.
Si tratta di una pluralità d’interessi che danno sostanza a quell’interesse superiore del minore che, nel processo minorile, deve avere preminente considerazione giurisdizionale.
L'interesse del minore è principio che permea di sé la giustizia ed il compito della politica, in questo senso, è di promuovere tutti i diritti dei bambini superando la logica che l'intervento deve essere assicurato solo in presenza di disagio, garantendo, invece, lo sviluppo armonico della loro identità personale e sociale.