Secondo dati recenti, in Italia sono più di 32mila i bambini che vengono chiusi nelle comunità o dati in affido a un’altra famiglia: gran parte delle volte le ragioni sono più che giustificate, trovandoci di fronte a casi conclamati di abusi sessuali, e maltrattamenti o l’indigenza. Vi sono però altre ragioni che non giustificano un allontanamento e che sono cresciute negli ultimi 10 anni del 29,3%. Tra i bambini allontanati da casa, più della metà finisce in affidamento ad altre famiglie, mentre il resto finisce nei cosiddetti servizi residenziali.
Nel 31% dei casi la decisione di allontanare il minore dalla famiglia è consensuale, cioè condivisa con i genitori.
 Il 26% è stato allontanato dalla famiglia in base a una misura di protezione urgente ex art. 403 del Codice Civile, decisa dal sindaco in collaborazione con i servizi sociali e le forze dell’ordine per maltrattamento o abuso conclamati, abbandono o altre ragioni particolarmente gravi e impellenti.
 Nel 37% dei casi l’allontanamento è stabilito per inadeguatezza genitoriale ovvero incapacità gravi di rispondere ai bisogni dei figli.
In tutto, nel territorio nazionale, sono oltre un migliaio le comunità di questo tipo che ospitano 15.624 ragazzini.
 
Dati a cura del Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza- Ministero delle Politiche Sociali
 
 
Che cosa è
L’affidamento  è uno strumento introdotto a tutela di quel minore che solo temporaneamente risulti privo di un ambiente familiare idoneo alla propria crescita, nonostante che la famiglia riceva interventi di sostegno e di aiuto da parte dello Stato, della Regione o degli Enti locali (ad esempio, buoni alimentari, assegni familiari, sostegno nel pagamento di bollette). Si parla, infatti, in tali casi di affidamento temporaneo. L’affidamento del minore a soggetti terzi, individuati in base alle indicazioni della legge, dura per il periodo in cui sussiste l’impedimento nella famiglia di origine. Tale situazione di disagio deve essere circoscritta nel tempo: è previsto un termine massimo, che può essere prorogato nell’interesse del minore. Allorché la causa che abbia impedito alla famiglia di origine di prendersi cura del minore venga meno, il minore potrà fare ritorno al suo nucleo familiare.
La necessità di tutelare il superiore interesse del minore nei procedimenti che lo riguardano permette al giudice, nell’adozione di provvedimenti inerenti la titolarità e l’esercizio della responsabilità genitoriale, di fruire di un ampio strumentario tale da consentire la modulazione della decisione alle reali esigenze del minore.
 Chi può essere dato in affidamento
Può essere dato in affidamento solo un minore di età, anche straniero se si trova in Italia.
 Quanto dura l’affidamento
La legge prevede che l’affidamento non possa avere una durata superiore ai 24 mesi; tuttavia questo termine può essere prorogato dal tribunale per i minorenni nell’esclusivo interesse del minore, vale a dire qualora la sospensione dell’affidamento possa recare a lui pregiudizio.
 
 Chi può essere l’affidatario
La legge, nell’indicare i soggetti ai quali il minore può essere affidato, stabilisce un ordine di preferenza:
• una famiglia, possibilmente anch’essa con figli minori;
• una persona singola (il cd. single);
• una comunità di tipo familiare, caratterizzata da un’organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia;
• un istituto di assistenza pubblica o privata che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui risiede stabilmente il nucleo familiare di provenienza.
Per i minori di 6 anni non è possibile l’affidamento presso un istituto, ma soltanto presso una comunità familiare.
 
Chi dispone l’affidamento
L’affidamento temporaneo viene disposto:
• dal servizio sociale locale, quando vi sia il consenso dei genitori o del genitore esercente la responsabilità genitoriale  o del tutore e previo loro consenso, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore che sia dotato di sufficiente capacità di discernimento. Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo con decreto il provvedimento che dispone l’affidamento temporaneo emesso dal servizio sociale;
• dal tribunale per i minorenni, quando non vi sia il consenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del tutore.
 
Cosa contiene il provvedimento di affidamento
 Nel provvedimento di affidamento devono essere indicate:
• le motivazioni dell’affidamento;
• i tempi e i modi di esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario;
• le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore;
• il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza e la vigilanza durante l’affidamento, che ha il compito di relazionare su di essa al giudice tutelare o al tribunale per i minorenni tramite la presentazione di una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, la sua presumibile ulteriore durata e l’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare d’origine;
• il periodo di presumibile durata dell’affidamento.
 
Come e quando cessa l’affidamento
 L’affidamento temporaneo cessa con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto nei seguenti casi:
• quando sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia di origine (la durata dell’affidamento in questa ipotesi può essere stata superiore anche ai 24 mesi, se prorogata nel caso in cui la difficoltà temporanea della famiglia non sia venuta meno prima della scadenza del termine previsto);
• quando la prosecuzione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore, ovvero l’affidamento non sia stato positivo (in tal caso, normalmente si procede alla scelta di altro affidatario);
• quando, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile e, sussistendo i requisiti per l'adozione, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare;
• quando, trascorso il periodo di durata previsto, o intervenute una delle precedenti condizioni, il giudice tutelare, sentiti il servizio sociale locale interessato ed il minore che ha compiuto gli anni 12 o anche il minore di età inferiore, richieda al tribunale per i minorenni l’emissione di ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore (ad esempio l’adozione, in tal caso l’affidamento temporaneo viene trasformato in affidamento preadottivo, e ciò perché, ad esempio, la causa che aveva originato l’affidamento temporaneo divenga successivamente irreversibile) (vedi scheda sull'adozione dei minori).
 
 Quale è il ruolo dell’affidatario
 L’affidatario ha il dovere di:
• accogliere il minore, mantenerlo, istruirlo, educarlo, tenendo conto delle indicazioni dei genitori che non siano decaduti dalla responsabilità genitoriale o del tutore e delle prescrizioni dell’autorità affidante;
• esercitare i poteri connessi alla responsabilità genitoriale in relazione agli ordinari rapporti con la scuola, con le autorità sanitarie;
• essere sentito, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, con facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore;
• rappresentare il minore nel compimento di tutti gli atti civili (l’amministrazione del patrimonio spetta invece ai genitori che non siano decaduti dalla responsabilità genitoriale o a un tutore).
 
 L’affidatario ha il diritto:
• alle facilitazioni sul lavoro riconosciute per legge ai genitori;
• alle misure di sostegno e di aiuto economico di cui lo Stato, le Regioni e gli Enti locali, nei limiti delle loro disponibilità finanziarie, dispongono a favore della famiglia di origine.
Riferimenti normativi
DLGS. 154/2013
Affidamento a terzi nei procedimenti di separazione, divorzio o relativi all'esercizio della responsabilità genitoriale per i figli nati fuori dal matrimonio (art. 337 ter c.c.)
Il d.lgs. n. 154/2013, nel novellare la materia della filiazione, ha previsto all’art. 337 ter c.c., che disciplina i provvedimenti relativi allesercizio della responsabilità genitoriale nell’ambito dei procedimenti di separazione, divorzio o relativi a figli nati fuori del matrimonio (norma applicabile, ex art. 337 bis c.c., anche ai procedimenti di annullamento, nullità del matrimonio, e  a quelli di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio), che il giudice nel disporre misure concernenti l’affidamento dei figli possa adottare «ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori l’affidamento familiare».
Già nell’originaria formulazione dell’ art. 155 c.c. era prevista  la possibilità che il giudice della separazione, in presenza di gravi motivi, ordinasse il collocamento della prole presso terzi, disposizione abrogata dalla l. n. 54/2006 (che ha introdotto l’affidamento condiviso), ma ritenuta comunque vigente dalla giurisprudenza, attraverso l’applicazione analogica dell’art. 6 l. n. 898/1970 in materia di divorzio che prevedeva la possibilità di disporre l’affidamento a terzi. Con il riordino della normativa in materia di filiazione attuato dal d.lgs. n. 154/2013, la nuova formulazione dell’art. 337 ter c.c. prevede espressamente la possibilità di ricorrere all’affidamento familiare anche nell’adottare provvedimenti di affidamento dei minori nell’ambito di qualunque procedura di cui all’art. 337 bis c.c..
 Tale ampio potere conosce comunque dei limiti, in quanto sia  le convenzioni internazionali , sia le norme interne (cfr. artt. 315 bis c.c. e art. 1 l. n. 184/1983), sanciscono il diritto del minore di crescere ed essere educato nellambito della propria famiglia. Pertanto, l’affidamento a terzi o all’ente territoriale deve essere considerato scelta ultima, alla quale ricorrere nei casi di conclamata incapacità genitoriale e quando non vi sia possibilità di individuare soluzioni all’interno della famiglia allargata.
 
L. 149 DEL 18 MARZO 2001 DIRITTO DEL MINORE  ALLA PROPRIA FAMIGLIA
Il titolo della legge 4 maggio 1983, n. 184, di seguito denominata «legge n. 184», è sostituito dal seguente: «Diritto del minore ad una famiglia».
    «Art. 1. – 1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.
    2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.
    3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle attività di cui al presente comma.
    4. Quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’eduzione del minore, si applicano gli istituti di cui alla presente legge.
    5. Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i princìpi fondamentali dell’ordinamento».
1. All’articolo 2 della legge n. 184 sono premesse le seguenti parole: «Titolo I-bis. Dell’affidamento del minore».
    2. L’articolo 2 della legge n. 184 è sostituito dal seguente:
       «Art. 2. – 1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.
    2. Ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare.
LA LEGGE n. 154 del 5 aprile 2001
Agli strumenti utilizzabili in sede civile si è aggiunta, a partire dall'aprile 2001, una nuova misura che, almeno nelle premesse e nelle intenzioni del legislatore, si pone come un valido strumento per interrompere temporaneamente la violenza e per dare un chiaro segnale che certe manifestazioni sono illecite e possono essere tempestivamente fermate tramite l'intervento dell'autorità giudiziaria.
La legge n. 154 del 5 aprile 2001, concernente le "misure contro la violenza nelle relazioni familiari", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 28 aprile 2001, ha introdotto alcuni interessanti rimedi volti ad arginare tempestivamente i fenomeni di violenza domestica
L'attuale quadro normativo consente quindi di ipotizzare diverse procedure civili, mediante le quali è offerta tutela al minore che subisca maltrattamenti fisici o morali in famiglia
Due  sono  le  funzioni essenziali  del  provvedimento  in  questione:
porre  al  riparo,  almeno  in  via  temporanea,  il  minore  dal  ripetersi  di  condotte  ai  suoi  danni
nell’ambito  familiare;  disporre  di  un  contesto  di  tipo  “neutro”,  al  di  fuori  da  intuibili
condizionamenti  (ricatti,  spinte  alla  ritrattazione,  colpevolizzazioni),  per  poter  approfondire
la  condizione  fisica  e  psicoemotiva  del  bambino  e  la  qualità  del  rapporto  con  i  propri
genitori.
Sul  piano  psicologico  si  è  sottolineato  che,  in  situazioni  di  questo  tipo,  il  “ruolo
dell’allontanamento è inizialmente quello di apportatore di tranquillità, grazie alla creazione
di  una  distanza  fra  i  protagonisti;  esso  interrompe  la  tensione  che  li  travolge  ...  Solo l’allontanamento elimina il sintomo, magari in modo artificiale, evitando, però, il pericolo ...
L’onnipotenza  del  genitore  viene  arginata:  egli  realizza  che  suo  figlio  non  è  nè  di  sua
proprietà,  nè  una  parte  di  sè  ...  L’allontanamento  libera  il  genitore  dai  suoi  abituali  bisogni
verso il bambino e interrompe l’eccitazione che la presenza di quest’ultimo configura”. (Da Crivillè “Genitori violenti, bambini maltrattati
 
ART. 403 C.C.
L’art.403 c.c si inserisce nel solco delle disposizioni in materia di affidamento della prole e stabilisce che “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato  o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all'educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell'infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione..
Il ricorso all'art. 403 del Codice Civile deve avvenire solo quando sia esclusa la possibilità di altre soluzioni e sia accertata la condizione di assoluta urgenza e di grave rischio per il minore, che richieda un intervento immediato di protezione.
I casi più frequenti sono:
  • Situazioni contingenti di urgenza e grave rischio per l’integrità psicofisica del minore;
  • Abbandono, stato di pericolo;
  • non sia già stata azionata una procedura di adottabilità;
  • Riscontro di minori in gravi condizioni igieniche e di sicurezza, inottemperanza dell’obbligo scolastico, violenza assistita, maltrattamenti fisici/psicologici, etilismo, tossicodipendenza dei genitori.
La valutazione della  reale urgenza, ossia del momento in cui vi  sono  i presupposti oggettivi
per attuare il distacco del minore dalla famiglia, è assai delicata.
Esiste  un  duplice  rischio:  che  l’urgenza  sia  indotta  più  che  altro  dall’operatore  segnalante
(servizio  locale  o  psicologico,  educatore,  insegnante)  che  può  proiettare  sul  caso  la  propria
emotività  e  la  propria  ansia,  o,  all’opposto,  che  l’operatore  resti  “intrappolato”  nelle
dinamiche  familiari  e  tenda,  ingiustificatamente,  a  rinviare  l’intervento  a  protezione  del
minore,  per  un’eccessiva  alleanza  con  le  figure  genitoriali.  Contro  questi  errori  di
prospettiva  esiste  un  importante  rimedio:  la valutazione a livello di rete dei  diversi operatori  coinvolti  e  il  contributo  interdisciplinare  delle  conoscenze  sia  a  livello  dei  servizi
che  di  autorità  giudiziaria  (il  riferimento  è  soprattutto  alla  figura  del  giudice  onorario
esperto) nel momento della decisione.
L'accertamento dello stato di abbandono del minore dovrà peraltro basarsi su di una reale ed obiettiva situazione esistente in atto.
Il minore deve trovarsi in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica, cioè una situazione di evidente pregiudizio per il bambino o per il ragazzo con la differenza che l’intervento ex art. 403 c.c. deve caratterizzarsi per l’urgenza poiché il minore è in tale stato di pregiudizio che l’intervento di protezione non può essere rimandato.
 
Vi è poi  la  necessità di  un progetto.  Occorre evitare, nei  limiti del possibile, di dare corso a
un allontanamento del minore senza un progetto in ordine alla sua sistemazione per il tempo
a  venire.  Una  misura  così  drastica  non  andrebbe  attuata  “al  buio”,  senza  una  riflessione  su
quali  strade  imboccare  nel  futuro.  L’allontanamento  può  assumere  un  valore  “costruttivo”
solo  se  viene  pensato  come  un  passaggio temporaneo,  una  tappa di  un  più  ampio  progetto
volto alla tutela del minore.
Non si dirà mai abbastanza che la finalità più importante è rappresentata dal tentativo di una
Ridefinizione delle dinamiche familiari.  L’indeterminatezza  delle  prospettive  è  uno  dei
fattori  più  negativi,  poichè genera confusione anche negli  operatori dei  servizi  e,  di  riflesso,
sofferenza nello stesso minore che non riesce a prefigurare quale sarà il proprio futuro.
Quanto  alla  collocazione  del  minore  si  tratta  di  un  aspetto  tutt’altro  che  secondario:  una
comunità per minori non è una casa  - famiglia, così come l’affidamento a terzi non equivale
a  una  sistemazione  nell’ambito  della  parentela  allargata.  Occorre,  anche  nel  caso  in  cui  sia
inevitabile  orientarsi  verso  una  comunità  di  accoglienza  (possibilità  del  tutto  residuale
secondo  il  nuovo  art.  1  legge  184/83  modif.  legge  149/2001),  conoscerne  il  più  possibile  le
caratteristiche e le capacità di rispondere alle deprivazioni specifiche di quel minore.
Il  ricorso  alla  forza  pubblica  deve  rappresentare  un’extrema ratio,  per  i  casi  in  cui  gli
operatori  dei  servizi  corrano  rischi  effettivi  per  la  propria  incolumità  personale.  E’
opportuno,  infine,  che  l’esecuzione  dell’allontanamento  avvenga  a  cura  di  un  operatore
diverso  dall’assistente  sociale  referente  sul  caso,  che  dovrà  continuare  a  svolgere  attività  di
monitoraggio e  sostegno.
Il  disagio  conseguente  all’allontanamento  può  essere  opportunamente  contenuto
ripristinando  al  più  presto,  ove  ciò  non  rappresenti  un  rischio  per  il  minore,  gli  incontri  con
il  genitore  non  abusante  o  altre  figure  parentali  rassicuranti,  o  coinvolgendo  figure
significative come educatori o insegnanti.
Se  il  minore  viene  allontanato  si  pone  il  problema  della  regolamentazione  dei  rapporti
con i genitori e gli altri parenti significativi.
Di  regola  potranno  essere  vietati  i  rapporti  diretti  con  il  presunto  abusante,  almeno  in  via
temporanea, in attesa degli sviluppi del procedimento penale. Nei casi meno allarmanti potrà
risultare  sufficientemente  protettiva  l’effettuazione  degli  incontri  in  adeguato  ambiente
protetto, alla presenza dell’educatore.
 
Quale è la scelta migliore?
La famiglia affidataria esterna offre al minore un’accoglienza ove i rapporti sono stretti e spontanei, ove lo stesso potrebbe trovare un modello familiare di riferimento “positivo” per la sua formazione e figure adulte disponibili, accudenti e premurose che gli potrebbero permettere di esprimere potenzialità e limiti propri dell’età, sinora inespressi o inesprimibili. Le strutture/famiglie che accolgono devono conoscere la situazione del minore e la motivazione del provvedimento, condividere le modalità di rapporto con i familiari, rispettare le prescrizioni, collaborare al progetto socio-educativo per il minore impostato dai servizi sociali e secondo le disposizioni dell'autorità giudiziaria, offrire l'ascolto attento e curare l'accompagnamento del rientro in famiglia originaria o in affidamento familiare. Tuttavia, l’affidamento familiare proietta immediatamente il minore in un mondo di regole (relazionali ed affettive) e in una cultura familiare diversa dalla propria, spesso senza che questo abbia tempo di adattarsi. Gli affidatari potrebbero far fatica a confrontarsi con la storia personale di quel minore e della sua famiglia d’origine, famiglia a cui il bambino non ha rinunciato e continua a sentire come propria. La famiglia affidataria (genitori, figli, altri parenti) potrebbe non sopportare questo continuo confronto, che spesso si somma alle naturali difficoltà di adattamento che il bambino manifesta, uniti in certi casi a quei meccanismi di difesa legati ai gravi traumi subiti (erotizzazione, strumentalizzazione, opposizione), difficilmente gestibili senza una preparazione specifica.
La comunità è un contesto strutturato, ove sono presenti regole e limiti formali, altri coetanei (e non) con precedenti differenti, ma spesso altrettanto traumatici, operatori soggetti a turnazione con cui i rapporti sono in un primo periodo impersonali, e nel caso di comunità familiari “mamme e papà, ma di altri”. Tuttavia il bambino potrebbe gradualmente scegliere di persona anche uno o più interlocutori privilegiati e formati per poterlo ascoltare, accompagnare e contenere in modo adeguato, e potrebbe inoltre esprimere il proprio disagio emotivo e la propria sofferenza, anche tramite modalità relazionali ‘inadeguate’ senza paura di essere espulso.
E’ da tenere in considerazione che in alcune situazioni di particolare traumatizzazione generata, ad esempio, da situazioni di maltrattamento o abuso sessuale, il collocamento in una comunità, potrebbe rappresentare un’opportuna transizione prima di riproporre ai bambini un’esperienza familiare che per tipologia di legami potrebbe essere vissuta da loro come spaventosa e rievocativa di situazioni traumatiche.
Per quanto riguarda l’affido intra – parentale, da un punto di vista legislativo e teorico questa tipologia di collocazione risponde all’esigenza del bambino di restare nel proprio contesto familiare, e spesso anche ambientale (mantenendo in tal modo la frequenza della scuola, dell’oratorio, dell’attività sportiva), salvaguardando il legame e favorendo l’accesso anche frequente alle figure genitoriali.
Tuttavia questa soluzione potrebbe sia non togliere il bambino da dinamiche familiari disfunzionali (e tal volta patologiche) che interessano o hanno interessato i componenti della famiglia allargata che si offrono per l’affido, sia non preservarlo dalla caoticità nell’assunzione di ruoli e funzioni rispetto al bambino.
E’ quindi necessario valutare con attenzione quale è l’atteggiamento dei parenti candidati all’affido nei confronti dei genitori del bambino, e quali dinamiche si attivano nel dare/prendere in affido il bambino;
 
Situazioni più comuni: Affidamento al Servizio Sociale
Nell’ambito dell’affidamento a terzi, la misura più ricorrente nella prassi è l’affidamento allente territoriale che può essere variamente denominato come affidamento al Servizio Sociale, al Comune, Sindaco al servizio territoriale ecc.
L’affidamento al Servizio sociale è stato originariamente previsto con la finalità del recupero del minore. Il “Servizio sociale minorile” ai sensi dell’art. 1del R.D. 1404/1934 costituiva, insieme ad altri istituti e Servizi il “Centro di rieducazione per i minorenni”, destinato alla rieducazione dei minori irregolari per condotta e carattere e alla prevenzione della delinquenza minorile. Tutta la normativa – artt. 27, 28 e 29 – prevede disposizioni che si riferiscono non a un minore da tutelare, ma a un minore da rieducare.
Nella prassi si ricorre a questa misura in tutte le ipotesi in cui occorra superare  difficoltà manifestate dai genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale. Nella maggioranza dei casi ciò accade quando entrambi i genitori presentino carenze genitoriali, ma il loro grado di inadeguatezza non sia tanto elevato da imporre la permanenza del minore al di fuori del contesto familiare. Ipotesi che di fatto si verifica quando sia elevata la conflittualità genitoriale e, a prescindere dalla imputabilità di questa condotta all’uno o all’altro genitore, occorra garantire al minore il pieno diritto alla bigenitorialità.
 In queste ipotesi, il principale compito attribuito al responsabile del servizio socio assistenziale incaricato di svolgere le funzioni demandatigli con il provvedimento giudiziale sarà quello di sviluppare un sano rapporto dei figli con entrambi i genitori, contenendone la conflittualità.
Nel suo concreto atteggiarsi laffidamento al servizio può assumere diversi contenuti, che non sono codificati e che dunque sono destinati a prendere forma a seconda delle concrete necessità da perseguire. All’affidamento al Servizio Sociale devono comunque accompagnarsi limitazione all’esercizio della responsabilità genitoriale delle parti, più o meno ampie, che garantiscano l’effettiva messa in opera di interventi, di percorsi di monitoraggio e sostegno della coppia genitoriale, e permettano che le scelte di maggiore rilevanza per la vita del minore vengano effettuate nel suo esclusivo interesse, al di fuori dal conflitto genitoriale e dalle reciproche rivendicazioni, con il coinvolgimento di entrambi i genitori.
Nella giurisprudenza di merito, infatti,  si segnala grande varietà nel contenuto degli affidamenti al Servizio Sociale: si rinvengono provvedimenti estremamente laconici nei quali è riportata la sintetica formula dell’affidamento al servizio, senza che sia dettagliato alcuno specifico compito attribuito ai responsabili del servizio stesso, a fronte di provvedimenti più articolati nei quali si prevede espressamente che il responsabile del servizio affidatario assuma, in caso di disaccordo tra i genitori, le decisioni di maggiore rilievo inerenti uno o più ambiti quali ad esempio la scuola, la salute e lo sport, mantenendo in capo ai genitori le responsabilità connesse alle decisioni di ordinaria amministrazione (cfr. Trib. Roma, 20 maggio 2015) ovvero al responsabile del servizio possono essere attribuite le decisioni di maggiore rilevanza limitatamente ad un determinato ambito in cui il contrasto genitoriale sia insuperabile (cfr. Trib. Reggio Emilia 11 giugno 2015).
 
Ma cosa succede se i genitori non sono d’accordo sulle scelte del Servizio o se non le rispettano, che poteri ha il giudice tutelare? Sappiamo che non ha un potere decisionale, ma ai sensi dell’art. 337 c.c., ha solo un potere di vigilanza sull’osservanza delle condizioni stabilite dal Tribunale per l’esercizio della potestà; in questo caso, quindi sembra essere rischioso chiudere il processo senza assumere quelle decisioni, perché appunto c’è il rischio che i provvedimenti dei Servizi non vengano rispettati oppure potrebbe anche succedere che i Servizi non provvedano o ritardino in modo inadeguato nel provvedere. Quindi è bene, a nostro avviso, non lasciare i procedimenti aperti ma chiuderli effettivamente con le indicazioni di modalità definite e con l’incarico, quindi, al Servizio di svolgere la sua funzione di controllo e al giudice tutelare di far rispettare quanto stabilito dal Tribunale. Al riguardo va segnalata una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (13 luglio 2000) che ha condannato l’Italia perché il Tribunale per i Minorenni non aveva svolto un’attenta sorveglianza sul lavoro dei Servizi sociali: “un’interruzione prolungata dei contatti tra genitori e figli o incontri troppo distanti nel tempo possono compromettere ogni seria possibilità di aiutare gli interessati a superare le difficoltà emerse nella vita familiare e di riunirli... Di conseguenza, il Tribunale per i Minorenni ha un dovere di vigilanza costante sui servizi sociali affinché il loro lavoro non annulli la portata delle sue decisioni”.
Riassumendo: non c’è una norma che preveda specificamente la possibilità per il Tribunale ordinario in sede di separazione e divorzio di affidare il minore al Servizio sociale;  dall’inizio degli anni Ottanta la giurisprudenza di merito ha preso ad applicare tale modalità e la Corte di Cassazione ne ha confermato la legittimità; qualora il Tribunale, sia ordinario che per i Minorenni, intenda conferire ai Servizi anche l’esercizio della potestà, e quindi il compito di effettuare le scelte su educazione, salute e istruzione, dovrebbe esplicitarlo;  in tal caso, occorrerebbe individuare anche quale sia il responsabile del Servizio che se ne occupa per l’assunzione della relativa responsabilità.