Premessa.
Poiché il tema di indagine proposto fa riferimento ad una concreta fattispecie che lo scrivente, nell’interesse del padre di un bambino di dodici anni, ha recentemente sottoposto al vaglio del Tribunale, è risultato più comodo seguire, nella presente esposizione, lo schema del ricorso presentato al suddetto Giudice, sia nella rappresentazione dei fatti che nell’analisi giuridica.
Ciò nulla toglie al carattere generale della riflessione, che ha precisamente riguardo al caso in cui la sottrazione del minore, sia esso figlio legittimo o naturale, sia compiuta dal genitore che sia cittadino di uno stato per il quale non trovi applicazione la Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, della quale, peraltro, parleremo comunque diffusamente.  

La fattispecie.
Il caso è quello di una donna di cittadinanza russa che, dopo alcuni anni di convivenza more uxorio nel nostro paese con un cittadino italiano, da cui aveva avuto un figlio riconosciuto da entrambi, decise di ritornare stabilmente nel proprio paese di origine portando con sé il figlio medesimo, così sottraendolo al padre e sradicando il bambino dall’ambiente in cui era serenamente vissuto fino all’età di sei anni.
L’attuazione del rapimento avvenne attraverso l’inganno: la donna lamentò infatti al proprio compagno la sussistenza di gravi problemi di salute nella di lei madre, manifestandogli in conseguenza il proprio desiderio di recarsi presso quest’ultima in Russia per poterle stare vicino qualche mese. Al fine, poi, di evitare al figlioletto un distacco così prolungato dalla propria madre, ella chiedeva altresì al compagno di  poter portare con sé il figlio nella prospettata circostanza.
Fatto è che la donna, partita con il piccolo nella primavera del 2008, giunta in Russia cominciò a diradare i contatti telefonici con il compagno, impedendo con scuse varie la comunicazione tra padre e figlio, fino a che, giunto ormai il periodo di inizio della scuola, confessò telefonicamente all’uomo di aver deciso di non far più rientro in Italia e di voler trattenere con sé in Russia il figlio.
Prontamente il padre di quest’ultimo denunciò l’accaduto ai Carabinieri.
In conseguenza si aprì un procedimento penale a carico della donna per il reato di sottrazione di minore, che condusse poi la Procura della Repubblica a disporre la citazione diretta a giudizio dell’imputata.
Nel frattempo, però, il padre del minore sottratto non rinunciò alla continua ricerca del contatto telefonico col proprio figlio e ad un qualche accordo con l’ex compagna, che in effetti acconsentì a far rientrare il bambino in Italia nel dicembre del 2008, al fine di fargli trascorrere il periodo natalizio col padre.
Sulla reale natura di tale accordo, però, è estremamente importante intendersi.
L’uomo, che, al fine di comprendere in che modo fosse più opportuno agire a seguito dell’avvenuta sottrazione di suo figlio, si era mobilitato in più direzioni, era giunto alla consapevolezza per cui fosse assolutamente necessario, per la migliore tutela dell’interesse del figlio e della propria potestà genitoriale, evitare di inasprire i rapporti con l’ex compagna, che, trovandosi oltretutto in un paese non firmatario della Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, precludeva all’odierno ricorrente la possibilità di contare sulle relative procedure per ottenere il rientro del minore in Italia.
Si ricordi, infatti, che la Russia ha deciso solo nel luglio 2011 di depositare lo strumento di adesione alla Convenzione dell’Aja del 1980, che è entrata in vigore nel paese il 1° ottobre 2011.
Tuttavia, la stessa Convenzione dell’Aja del 1980 stabilisce, all’art. 38,  che l'adesione avrà effetto solo nei rapporti tra lo Stato aderente e gli Stati contraenti che avranno dichiarato di accettare detta adesione. Ad oggi una tale accettazione da parte dell’Italia non è ancora intervenuta.
Pertanto, al momento dell’avvenuta sottrazione del minore (2008), le procedure di cui alla Convenzione dell’Aja del 1980 non trovavano applicazione nei rapporti tra gli stati coinvolti, essendo l’ambito di applicazione ratione personae della detta Convenzione limitato, ai sensi dell’art. 4, ai minori di sedici anni che, avendo la residenza abituale in uno stato contraente, vengono trasferiti o trattenuti in altro stato contraente.
D’altra parte, l’esperienza concreta ha dimostrato come anche nei casi in cui ha potuto trovare applicazione la Convenzione in discorso, o anche  il Regolamento CE n. 2201/2003 tra paesi membri dell’U.E., c.d. Bruxelles II bis, frequentemente i genitori coinvolti hanno lamentato un difetto di cooperazione tra le Autorità Centrali dei diversi stati, nonché una certa tendenza di ciascuna di esse a tutelare il proprio connazionale nonostante l’incontrovertibile sottrazione, inducendoli così a fare ultroneo ricorso o alla Corte Europea dei diritti dell’uomo o allo strumento della Mediazione del Parlamento Europeo.
Pare ancora opportuno ricordare in proposito come proprio nel 2008 (anno di verificazione dei fatti in commento), l’allora Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini, pubblicò una guida per i genitori con diversa nazionalità di bimbi contesi, in cui, per il caso di minori con doppia cittadinanza, prospettava la possibilità che l’ordinamento in vigore nel paese straniero considerasse subordinata la cittadinanza italiana e prevedesse così l’esercizio in via esclusiva della tutela del minore. In tal caso, posto che ogni azione dell’Autorità Consolare sarebbe stata suscettibile di essere ostacolata in ogni modo, la stessa guida riteneva indispensabile che i genitori del minore conteso trovassero un accordo nell’interesse prioritario del figlio.
È dunque nella prospettiva delle osservazioni che precedono che il padre del bambino capì di dover raggiungere un’intesa con l’ex compagna se voleva rivedere suo figlio, come effettivamente avvenne nel periodo di Natale del 2008, allorchè la donna accettò di far rientrare per un breve periodo il figlio in Italia, per consentirgli di stare un po’ di tempo col padre.
Quest’ultimo, d’altra parte, sinceramente preoccupato di salvaguardare il superiore interesse del figlio, che all’epoca aveva solo 6 anni, ritenne giustamente contrario a tale interesse approfittare della presenza di quest’ultimo presso di lui per trattenere stabilmente il figlio e così sottrarlo, a sua volta, alla madre, poiché ciò, considerata l’età del bambino, gli avrebbe con ogni probabilità causato un trauma non inferiore a quello già subìto per essere stato forzatamente sradicato dal proprio ambiente dalla madre.
Perciò, con enorme sforzo per trattenere il dolore procuratogli dal distacco, alla fine del periodo convenuto con la resistente l’uomo lasciò che suo figlio rientrasse in Russia dalla madre.
Da quel momento in poi, però, quest’ultima cominciò a sottrarsi ai contatti telefonici con l’ex compagno, impedendogli ogni comunicazione con il figlio. E ciò con la motivazione per cui ogni, volta che il bambino sentiva il padre per telefono, si metteva a piangere, e ciò appariva disdicevole, in quantoi bambini in Russia devono essere forti.
Ciò indusse l’uomo a presentare un’integrazione della precedente querela, che, come si è visto, indurrà la Procura delle Repubblica a disporre la citazione diretta a giudizio della donna per il reato di sottrazione di minore ai sensi dell’art. 574 c.p.
Senonchè l’imputata, appresa la notizia del procedimento penale a suo carico attraverso la notifica del relativo decreto, contattò l’ex compagno e, senza mezzi termini, gli disse che se non avesse ritirato la querela e non si fosse astenuto da altre iniziative a suo carico, si sarebbe potuto dimenticare dell’esistenza del figlio.
L’uomo non ebbe scelta. Dovette cedere al ricatto dell’ex compagna, impegnandosi con scrittura privata a rimettere la querela, riuscendo tuttavia ad ottenere in cambio dalla donna che il piccolo trascorresse con il padre un periodo di almeno 50 giorni l’anno in Italia, ricadenti nella stagione estiva, compatibilmente con le vacanze scolastiche del bambino, nonché la facoltà di recarsi a far visita al figlio in Russia tre volte l’anno per dieci giorni consecutivi ogni volta.
In conseguenza, il procedimento penale a carico della donna si concludeva con sentenza di non doversi procedere per intervenuta remissione di querela.
Da allora, dunque, il bambino è rientrato periodicamente in Italia per trascorrere col padre il periodo estivo.
Si tenga presente che, data la mancata stabile presenza del piccolo in Italia, e la conseguente sua assenza dalla scuola presso cui pure era stato iscritto poco prima che fosse sottratto dalla madre e portato in Russia, l’assistente sociale chiese all’uomo notizie intorno al minore, venendo così a conoscenza dei fatti.
Da parte sua, poi, l’ufficio anagrafe del Comune in cui il bambino aveva risieduto fino al momento della sottrazione, reso anch’esso edotto sulla situazione, ritenne di doverlo iscrivere all’anagrafe degli italiani residenti all’estero.
Di fatto il bambino acquisì la doppia cittadinanza: italiana e russa.
Il problema è che, fin dal suo primo rientro in Italia dopo essere stato forzatamente trasferito in Russia dalla madre, il piccolo manifestò al padre il proprio desiderio di rimanere stabilmente con lui in Italia, piangendo ogni qualvolta, approssimandosi la fine del periodo di permanenza col genitore, comprendeva di dover ritornare in Russia dalla madre.
Nè tale stato di prostrazione veniva meno allorchè il bambino si trovava nuovamente in Russia. Come si è già accennato, infatti, egli continuava a manifestare la propria tristezza al padre in occasione di ogni contatto telefonico con quest’ultimo, non riuscendo a trattenere le lacrime, tant’è che, come pure si è detto, la madre aveva in un primo momento deciso di ostacolare le comunicazioni tra padre e figlio, ritenendo che fossero pregiudizievoli per quest’ultimo, in quanto “i bambini in Russia devono crescere forti”.
Abbiamo già dato conto dei motivi per cui l’uomo non ritenne opportuno approfittare del primo rientro in Italia del figlio per compiere azioni tese ad assecondarne il suddetto desiderio, che, considerata l’età del figlio, appariva in quel momento frutto di una scelta emotiva o comunque effettuata senza una corretta valutazione degli interessi in gioco (in particolare, quello alla stretta vicinanza della figura materna).
Il fatto è che con il trascorrere del tempo il desiderio del minore di rientrare stabilmente in Italia per rimanere col padre, lungi dall’essersi attenuato, è andato intensificandosi, tanto da non potersi più apprezzare, allorchè il bambino compì 12 anni, quale frutto di scelte emotive, bensì quale decisione ferma e ponderata, che il padre stesso non potè più ignorare, se non al prezzo di una profonda delusione che avrebbe altrimenti procurato al figlio.
All’acquisizione di tale consapevolezza nell’uomo, peraltro, ha contribuito la circostanza per cui, negli ultimi tempi, avendo il bambino terminato in Russia quella che nel nostro paese corrisponde alla scuola primaria (le c.d. elementari), la madre ha avuto la felice idea di iscrivere il proprio figlio in un collegio militare, evidentemente motivata dalla già citata idea per cui “i bambini in Russia devono essere forti”.
La frequentazione di tale collegio prevede che i discenti rimangano all’interno dell’istituto tutti i giorni, per rientrare nelle proprie abitazioni solo il fine settimana.
Ciò, unitamente all’impostazione rigida di tale scuola, non conciliabile con la natura delicata e le inclinazioni del piccolo, hanno determinato in quest’ultimo un intenso malessere psico-fisico, con frequenti e dolorosi mal di testa che ha spesso lamentato nei contatti telefonici col padre e che negli ultimissimi tempi hanno costretto la madre, suo malgrado, a ritirarlo dalla detta scuola.
Ciò, però, non è bastato a far desistere il bambino dall’idea, progressivamente maturata nel corso di ben sei anni, di rientrare stabilmente in Italia per rimanere col padre, al quale non ha mai smesso di manifestare tale sua esigenza.
Non solo. Al fine di sondare la eventuale disponibilità della propria madre di assecondare spontaneamente tale suo desiderio, il bimbo provò qualche tempo addietro a manifestarlo timidamente alla medesima, la quale per tutta risposta lo redarguì, diffidandolo dal continuare a coltivare simili idee con la minaccia di impedirgli, altrimenti, qualsiasi ulteriore rientro in Italia.
Nessuna altra scelta aveva dunque il padre se non quella di rivolgersi, quando il figlio si è trovato presso di lui per il periodo natalizio, al Tribunale in Italia, affinchè disponesse in via di massima urgenza l’audizione del minore, dodicenne, e, conseguentemente, l’immediato collocamento presso il padre, con divieto di espatrio e comunque di rientro in Russia fino al momento della decisione definitiva sull’affidamento e collocamento del minore medesimo.  

Il superiore interesse del minore. La Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Il problema della giurisdizione. L’audizione del minore.   
Prima di ogni cosa occorre ricordare che il principio ispiratore di ogni decisione giudiziale coinvolgente un minore deve essere, sia per le norme di diritto interno che per quelle di diritto internazionale vincolanti per il nostro paese, il superiore interesse del minore stesso.
La preminenza di tale principio è tale che qualsiasi altra norma in tema di minori, tanto più se di carattere meramente procedurale, dovrà arretrare se dalla sua applicazione dovesse derivare la compromissione di quel principio.
Basterà ricordare al riguardo la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991.Questi i termini con cui tale Convenzione enuncia, all’art. 3, il principio fondamentale del superiore interesse del minore: “in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l'interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.
Di fronte a tale imperativo categorico, cristallizzato peraltro in una Convenzione rapidamente divenuta il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche da parte degli stati (ad oggi 194), non può in alcun modo essere posta in dubbio la sussistenza della giurisdizione del Giudice italiano nella fattispecie sopra rappresentata e sottoposta al Suo esame.
Del resto, la stessa Convenzione dell’Aja del 1980, così come il c.d. Bruxelles II-bis, che ricordiamo essere inapplicabili sotto l’aspetto procedurale alla fattispecie de qua, sono anch’essi governati dal principio fondamentale in questione, alla cui prioritaria applicazione deve pur sempre essere piegata la specifica disciplina ivi contenuta, in tema di sottrazione internazionale di minori.
Solo alla stregua di tale consapevolezza, ed entro i limiti delle loro enunciazioni meno pragmatiche, potrà dunque farsi riferimento alle dette convenzioni per ricercarne elementi utili a rintracciare una qualche disciplina per il caso prospettato.
A tal fine si consideri innanzitutto che nessun provvedimento in tema di affidamento e mantenimento del minore in questione è mai stato emesso da un’autorità giurisdizionale, sia essa italiana o russa.
Non a caso, il reato ipotizzato dal P.M. a carico della donna nel decreto di citazione a giudizio di quest’ultima, non è quello di cui all’art 388 c.p., che avrebbe richiesto, oltre all’illecita sottrazione del minorenne, la correlativa violazione di un provvedimento giudiziale in tema di affidamento, bensì quello di cui all’art. 574 c.p., che ricorre invece quando la sottrazione del minore da parte del genitore è compiuta indipendentemente dall’esistenza di un provvedimento giudiziale in materia di affidamento, precludendo così all’altro genitore l’esercizio di quell’ufficio che gli è stato conferito solo in via generale e astratta dall’ordinamento, nell’interesse del minore e della società.
In tal senso si è espressa la Cassazione penale, con la sentenza n. 37321/2008, con cui ha altresì sottolineato la plurioffensività del reato in discussione, in quanto lesivo non solo della potestà genitoriale, ma anche del diritto del figlio a vivere nel luogo di abituale dimora.
Orbene, speculare alla fattispecie penale dell’art. 574 c.p. è appunto quella della sottrazione internazionale di minori considerata dalla Convenzione dell’Aja del 1980.
Scopo di quest’ultima è infatti quello di garantire il rientro immediato del minore che sia stato illecitamente trasferito, o trattenuto, in un paese contraente, in violazione del diritto di custodia o di affidamento attribuiti al suo titolare, in via generale e astratta, dalla legge dello stato di residenza del minore, cioè indipendentemente, anche in tal caso, dall’esistenza di uno specifico titolo giuridico di affidamento.
L’illiceità della sottrazione, dunque, secondo la Convenzione dell’Aja, ricorre quando la sottrazione stessa è compiuta in violazione del diritto di custodia e affidamento che l’altro genitore ha in virtù delle astratte previsioni legislative, e non di uno specifico provvedimento giudiziale.
Conseguentemente, la tutela apprestata dalla Convenzione medesima consiste nella reintegrazione di una semplice situazione di fatto, cioè nel ripristinare la situazione del minore antecedente alla sottrazione, ricollocandolo nel contesto familiare e sociale da cui è stato sradicato.
Da quanto detto non può dunque esservi dubbio sulla sussistenza, nella fattispecie in esame, del carattere illecito, sia ai sensi del nostro codice penale che ai sensi della Convenzione dell’Aja, della sottrazione del piccolo posta in essere dalla madre nella primavera del 2008, in violazione del diritto di custodia e affidamento del padre nonché del diritto del bambino di continuare a vivere nel contesto sociale, scolastico e geografico in cui era nato e vissuto fino a quel momento e da cui fu brutalmente tolto dalla donna.
Né tale carattere illecito è ovviamente cancellato dalla remissione della querela da parte dell’uomo, il quale, come si è detto, vi fu costretto dalla minaccia, nel senso giuridico del termine, e quindi da un ulteriore reato, posto in essere dalla ex compagna e consistente nella prospettazione di non fargli più rivedere il figlio.
Se quanto fin qui evidenziato appare difficilmente opinabile, rimane da considerare l’aspetto potenzialmente più fuorviante, ai fini della determinazione della giurisdizione, della disciplina contenuta nelle norme internazionali in generale e nella Convenzione dell’Aja in particolare: quello riguardante il tempo entro cui è possibile ottenere la reintegrazione del diritto violato, cioè un provvedimento che disponga il rientro del minore nel suo stato di residenza abituale.
Proprio quello di residenza abituale è il concetto che viene in rilievo a livello internazionale nel momento in cui si tratta di stabilire l’applicabilità, alla fattispecie concreta, dell’ordine di rientro del minore illecitamente sottratto e, conseguentemente, la competenza a disporlo da parte dello stato in cui la sottrazione è stata compiuta.
Orbene, al riguardo il 1° co. dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja prevede che sia l’Autorità giudiziaria o amministrativa dello stato in cui la sottrazione è stata compiuta ad avere giurisdizione sul provvedimento di rientro, purchè l’interessato proponga la relativa domanda entro un anno dall’avvenuta sottrazione medesima.
Al riguardo si è già evidenziato come il padre del minore sottratto si sia effettivamente rivolto all’autorità di p. s. immediatamente dopo il rapimento di suo figlio da parte della genitrice, denunciando i fatti ai Carabinieri.
Si è altresì rilevato come i motivi che lo indussero a rimettere la detta querela, e ad accordarsi con la madre del bambino, risiedessero unicamente nella consapevolezza dell’uomo che quello fosse l’unico modo per poter rivedere il piccolo, e non in un suo consenso allo stabile trasferimento del figlio in Russia: consenso che egli non si è mai neppure sognato di prestare, coltivando da sempre la speranza di potersi nuovamente riunire stabilmente con il figlio allorchè le condizioni, e l’età del medesimo, lo avessero finalmente consentito.
Ciò ribadito, vi è in ogni caso da tener conto del 2° co. dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja, il quale stabilisce che: L'Autorità giudiziaria o amministrativa, benché adìta dopo la scadenza del periodo di un anno di cui al capoverso precedente, deve ordinare il ritorno del minore, a meno che non sia dimostrato che il minore si è integrato nel suo nuovo ambiente.
Proprio il concetto di integrazione in un determinato ambiente costituisce l’unica traduzione, fornita dallo stesso legislatore internazionale, del concetto di residenza abituale cui si deve aver riguardo al fine di determinare l’applicabilità alla fattispecie della procedura di rientro del minore nello stato da cui fu sottratto e, dunque, la giurisdizione di quest’ultimo ad emettere il relativo provvedimento.
In altre parole, il riferimento al termine di un anno contenuto nel 1° co. della norma in commento, si giustifica con la considerazione, del tutto aprioristica da parte del legislatore, che decorso più di un anno dal momento del trasferimento, sia pure illecito, del minore in un altro stato, egli potrebbe essersi ormai integrato nel nuovo ambiente, così da doversi apprezzare quest’ultimo quale nuova residenza abituale del minore stesso, con conseguente venir meno dei presupposti per la procedura di rimpatrio e, ad un tempo, della giurisdizione dello stato di origine.
Tale considerazione del legislatore costituisce però una mera presunzione relativa, come è inequivocabilmente dimostrato dal secondo comma dell’art. 12, che continua a ritenere applicabile la procedura di rientro del minore, e dunque a  radicare la giurisdizione nello stato di origine, anche se sia trascorso più di un anno, qualora non si dimostri che il minore si è integrato nel nuovo ambiente in cui fu forzosamente trasferito.
Detto altrimenti, quand’anche sia trascorso molto tempo dal trasferimento del bambino all’estero, può ben essere che egli non si sia affatto integrato nel nuovo ambiente e che pertanto debba continuare ad apprezzarsi quale luogo di residenza abituale del medesimo quello da cui fu illecitamente sottratto, con conseguente applicabilità della procedura di rientro e giurisdizione dello stato di origine.
Il carattere elastico del concetto di residenza abituale e la non vincolatività del termine annuale di cui al 1° co. dell’art. 12 della Convenzione, peraltro ribadito dall’art. 18 della stessa, secondo cui “Le disposizioni del presente capo non limitano il potere dell’Autorità giudiziaria o amministrativa di ordinare il ritorno del minore in qualsiasi momento”, non devono meravigliare.
Si ricordi infatti che il principio ispiratore di ogni decisione riguardante il minore è il suo superiore interesse, il quale, ai fini della più esatta individuazione di  quello che dovrà apprezzarsi quale residenza abituale del medesimo, con tutte le relative conseguenza, non può che imporre un attento esame di ogni elemento della fattispecie concreta.
È quanto ha ribadito, del resto, la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il perno attorno a cui deve ruotare la valutazione discrezionale degli Stati nell’effettuare determinate scelte in materia familiare è l’interesse del minore, suscettibile, a seconda dei casi, di far pendere l’ago della bilancia a favore dei ricorrenti o a favore dello stato convenuto.
Proprio in applicazione di tale principio la Corte ha mostrato la relatività delle disposizioni di cui all’art. 12 della Convenzione dell’Aja anche in relazione a casi in cui il ricorso per l’ottenimento dell’ordine di rimpatrio del minore era stato proposto entro l’anno dall’avvenuta sottrazione del minore, non essendo di per sé sufficiente il rispetto di tale termine a legittimare il provvedimento se nella fattispecie concreta esso appaia, appunto, pregiudizievole all’interesse del minore.
Così, con decisione n. 41615/2010, ha ritenuto che fosse contraria a tale interesse l’esecuzione di una decisione del Tribunale elvetico che, adìto entro il termine di un anno dall’avvenuta sottrazione del minore, ne aveva ordinato il rientro in Israele.
Ciò in quanto l’allontanamento del piccolo da tale stato, operato dalla madre, trovava ad avviso della Corte giustificazione nell’intollerabilità della situazione familiare venutasi a creare allorchè il padre del bambino aveva aderito al movimento religioso ultraortodosso ebraico “Loubavitch”.
Esaminando dunque alla luce delle considerazioni che precedono la nostra fattispecie, dovrebbe venir meno ogni eventuale residuo dubbio sulla giurisdizione del Giudice italiano e sulla necessità che esso disponga in maniera conforme alle richieste del ricorrente.
Il bambino, come si è visto, non si è mai integrato nello stato in cui è stato trasferito dalla madre, del resto lontano, per cultura e tradizione, da quello in cui è felicemente vissuto fino all’età di sei anni.
Per questo egli non ha mai smesso di chiedere, spesso in lacrime, al proprio padre, di riprenderlo con sé e di farlo ritornare a vivere in Italia, a cui ha sempre continuato a sentirsi radicalmente legato e che rappresenta, senza ombra di dubbio, il suo luogo di residenza abituale, nel senso sopra specificato.
Non solo. Proprio un particolare aspetto della cultura e della tradizione russe, sintetizzato dalla madre con l’espressione “i bambini in Russia devono essere forti”, ha già avuto ripercussioni pregiudizievoli per la salute del minore, allorchè la madre, in ossequio a quella cultura, ha ben pensato di iscriverlo ad un collegio militare, la permanenza nel quale, come abbiamo già detto, ha procurato notevole prostrazione al bambino, che ha cominciato ad accusare, tra l’altro, frequenti e dolorosissimi mal di testa.
E poco importa se negli ultimi tempi la madre, dovendo prendere atto di tali effetti deleteri della propria scelta, è stata costretta a ritirare il figlio dal collegio, poiché l’inconciliabilità dei costumi russi, di cui l’intero ambiente è ovviamente impregnato, con la natura del piccolo, è un dato ineliminabile, come è dimostrato dalla circostanza che, anche dopo l’abbandono della detta scuola, il bambino non ha desistito dal desiderio di rientrare stabilmente in Italia, non soltanto per l’esigenza di rimanere con suo padre, ma anche, e forse soprattutto, per quella di reinserirsi nell’ambiente che non ha mai smesso di sentire suo e che rappresenta, come si è detto, la propria, vera, residenza abituale.
Ancora a proposito di quest’ultima, pare opportuno rilevare che, al momento del deposito del presente ricorso il bambino si trova con il padre qui in Italia, così da consentire al Giudice italiano, nella denegata ipotesi in cui questi non ritenesse sussistente la propria giurisdizione sulla base delle considerazioni che precedono, di ritenerla comunque sussistente in base alla regola residuale per cui, qualora non sia possibile accertare la residenza abituale del minore attraverso i criteri posti dalle norme internazionali, la determinazione del giudice competente dovrà essere effettuata in base al criterio del luogo in cui il minore si trova al momento della proposizione della domanda.
Del resto, vi è un’ulteriore considerazione che contribuisce all’eliminazione di qualsiasi dubbio sulla giurisdizione di codesto Giudice: non esiste ad oggi alcun trattato bilaterale tra l’Italia e la Russia in materia di responsabilità genitoriale e sottrazione di minori, cosicchè non vi sono norme di diritto internazionale che impediscano ai due Stati di esercitare la loro giurisdizione ai sensi dei rispettivi diritti nazionali.
Vi è però ancora da spendere qualche parola sul rilievo dell’attuale presenza del minore in Italia.
Innanzitutto essa chiama in causa la previsione dell’art. 13, 1° co. lett. b) della Convenzione dell’Aja, secondo cui:  “l'Autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto non è tenuta ad ordinare il ritorno del minore qualora la persona, istituzione o ente che si oppone al ritorno, dimostri che sussiste un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile”.
Nella fattispecie, posto che il bambino si trova ora in Italia, ciò che occorre impedire, alla stregua della norma suddetta ed in considerazione della sopra evidenziata nocività, già manifestatasi, dell’ambiente russo  per il minore, è il suo ritorno, sia pure provvisorio, in quell’ambiente medesimo, dovendo essere disposto in via di massima urgenza, anche in considerazione della già commessa sottrazione da parte della madre e del concreto pericolo che ella possa in futuro impedire definitivamente il rientro del figlio in Italia, il collocamento del minore nell’Italia medesima ed il suo affidamento al padre, con contestuale divieto di espatrio dal nostro paese e comunque di ritorno, sia pure temporaneo, in Russia.
L’adozione di tali provvedimenti, del resto, appare inevitabile in virtù di un ulteriore, e forse assorbente, aspetto dell’attuale presenza del minore in Italia: la possibilità per quest’ultimo di esprimere direttamente al Giudice il proprio vissuto, i propri desideri, le sue necessità.
L’importanza dell’audizione del minore nei casi in cui essi siano direttamente coinvolti, è fuori discussione.
Lo stesso art. 13 della Covenzione dell’Aja, al 2° comma, recita: “L'Autorità giudiziaria o amministrativa può altresì rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore qualora essa accerti che il minore si oppone al ritorno, e che ha raggiunto un'età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere”.
Ma soprattutto, l’ascolto delle opinioni del minore è posto tra i quattro principi fondamentali, insieme al superiore interesse del minore, dalla già citata Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia, che all’art. 12 prevede appunto il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
Proprio in applicazione di questo principio è stata recentemente emanata dalla Corte di Cassazione la sentenza n. 5327/2014, che merita di essere riportata quasi integralmente nella parte motiva.
La Suprema Corte, prendendo innanzitutto in considerazione un proprio precedente orientamento, che sembrava assegnare all’ascolto del minore una funzione meramente ricognitiva, cioè non determinante ai fini della decisione giudiziale, ha precisato come quella “funzione riduttiva della volontà espressa dal minore in realtà è stata, nei precedenti sopra richiamati, espressamente limitata all’ipotesi in cui la volontà di opporsi al rientro provenga da un minore che – secondo il motivato apprezzamento del Tribunale per i minorenni – non abbia ancora raggiunto l’età ed il grado di maturità tali da giustificare il rispetto della sua opinione.
Tale orientamento, peraltro, deve essere rimeditato in considerazione della sempre maggiore rilevanza che l’ascolto del minore ha assunto tanto nel nostro ordinamento quanto in ambito internazionale, ragion per cui deve ritenersi che ormai non residuino spazi per assegnare all’ascolto del minore una sussidiaria finzione meramente ricognitiva, nel caso che un minore sia in grado di esprimere la propria volontà, avendo -  come riconosce nella specie il Tribunale – piena capacità di discernimento….[In tal caso], quando si sia proceduto all’ascolto del minore, alla volontà così manifestata, si deve sempre e necessariamente tener conto anche in materia di sottrazione internazionale di minori.[Infatti, quanto alle norme di diritto interno], deve porsi in evidenza come i recenti interventi normativi in materia di filiazione (art. 315 bis c.c.) pongano l’ascolto del minore, come evidenzia anche la sedes materiae, fra le regole fondamentali e generali attraverso cui, realizzandosi il riconoscimento dell’ascolto stesso come diritto assoluto del minore, viene perseguito il suo interesse superiore, corrispondente al suo sviluppo armonico psichico, fisico e relazionale, da perseguirsi anche attraverso l’immediata percezione delle sue opinioni in merito alle scelte che lo riguardano, consentendo, in tal modo, la partecipazione del minore stesso al giudizio, in quanto parte in senso sostanziale.
Con riferimento, poi, alla normativa pattizia internazionale, costituisce ormai un dato pienamente acquisito il principio secondo cui l’audizione del minore, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ai sensi degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 1996, ratificata nel 2003, per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso”.
Proprio sulla base dei principi così enunciati, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva disposto il rientro della minore a New York, presso la madre, pur dopo l’audizione della prima, tredicenne, la quale aveva invece espresso di voler rimanere col padre in Italia. Ciò la sentenza poi cassata faceva sulla base della considerazione per cui il rientro a New York non presentava pericoli per la salute psico-fisica del minore, facendo così prevalere, erroneamente, la disposizione dell’art. 13, 1° co. lett.b) della Convenzione dell’Aja sul principio fondamentale del rispetto della volontà direttamente espressa da un minore con piena capacità di discernimento, com’era appunto per la tredicenne coinvolta e com’è per il bambino della nostra fattispecie, che ha oggi 12 anni e la cui volontà non potrà dunque essere disattesa.