Fino alla metà degli anni ’90, la Suprema Corte era costante nell’affermare che il chiamato all’eredità nel possesso di beni ereditari che avesse voluto rinunciare all’eredità, avrebbe semplicemente dovuto formalizzare la rinuncia davanti al Notaio o al Cancelliere del Tribunale competente (cioè quello del luogo in cui si era aperta la successione), entro il termine di tre mesi dall’apertura della successione.
 
Nessun ulteriore incombente veniva posto a suo carico, in quanto non espressamente previsto dall’art. 519 cod. civ. La formalità dell’inventario era anzi considerata “logicamente e giuridicamente incompatibile con l'essenza e le finalità proprie del negozio di dismissione del diritto di eredità” (Cass. 11634/91).
 
Tale orientamento, avallato dalla dottrina e seguito (tuttora) dalla prassi degli operatori del diritto, appariva comprensibile nell’ottica di tutela del chiamato che avesse voluto dismettere l’eredità: era infatti considerato un nonsenso imporre a costui oneri economici e attività strutturalmente pensate ed inquadrate nell’ottica dell’accettazione beneficiata.
 
A partire dal 1995, si è assistito ad un revirement della giurisprudenza che, nella rilettura complessiva delle norme successorie, ha ritenuto applicabile l’art. 485 cod. civ. anche alla rinuncia all’eredità, con ovvie conseguenze in tema di incombenti a carico del chiamato nel possesso dei beni ereditari.
 
Nello specifico si è affermato che “le norme che disciplinano la rinuncia alla eredità (artt. 519 e segg. cod. civ.) debbono essere coordinate con quella dell'art. 485 cod. civ., secondo cui il chiamato all'eredità, che si trovi nel possesso (a qualsiasi titolo) di beni ereditari, ha l'onere di fare l'inventario e la mancanza dell'inventario, nei termini prescritti dalla legge, comporta che il chiamato vada considerato erede puro e semplice e che lo stesso, quindi, perda non solo la facoltà di accettare l’eredità con beneficio dell'inventario, ma anche quella di rinunciare alla stessa” (Cass. 7076/1995).
 
Seguendo quest’ultima interpretazione (confermata da Cass. 4845/2003 e dalla recentissima Cass. 5862/2014), dunque, il chiamato all’eredità che sia a qualunque titolo nel possesso di beni ereditari, quand’anche volesse rinunciare, dovrebbe previamente erigere l’inventario (con l’ausilio di un Notaio o del Cancelliere del Tribunale) – con tutte le difficoltà pratiche e gli oneri economici che ciò comporta - e poi formalizzare la rinuncia ai sensi dell’art. 485 cod. civ.
 
Ciò in applicazione di quell’esigenza di tutela dei terzi, volta sia ad evitare ad essi il pregiudizio di sottrazioni ed occultamenti dei beni ereditari da parte del chiamato, sia a realizzare la certezza della situazione giuridica successoria, evitando che gli stessi terzi possano ritenere, nel vedere il chiamato in possesso da un certo tempo di beni dell’eredità, che questa sia stata accettata puramente e semplicemente.
 
Ma non è finita, perché la Suprema Corte, dopo avere confermato il principio della “simultanea delazione dell'eredità in favore di tutti i chiamati, nei vari gradi” (già Cass. 9286/00 e Cass. 7073/95), ha sostenuto la necessità, anche per i chiamati successivi in possesso dei beni, di compiere comunque l'inventario nei tre mesi dall'apertura della successione, pur se la delazione nei loro confronti non fosse ancora divenuta attuale per non essere venuta meno quella in favore dei chiamati poziori (nel caso esaminato, coniuge, figli e nipoti del defunto - Cass. 5152/2012).
 
Anche in questa ipotesi, dunque, al decorso del termine trimestrale senza previa redazione dell’inventario si è accompagnato il riconoscimento della qualifica di erede puro e semplice del chiamato possessore di beni ereditari, ancorché la delazione in suo favore non fosse ancora divenuta attuale.
 
A nulla, infatti, è valso sostenere che l’art. 485 c.c., in alternativa, fa decorrere il termine trimestrale dall’apertura della successione o dalla notizia della devoluta successione, posto che a parere della Suprema Corte il chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari si trova nella posizione di conoscere, da un lato, l'esistenza dell'apertura della successione e, dall'altro, la circostanza che i beni sui quali eserciti la signoria di fatto siano proprio quelli che siano caduti in successione. * Naturale presupposto per l’applicazione della norma è il possesso dei beni ereditari in capo al chiamato. Possesso per integrare il quale è sufficiente la semplice relazione materiale con uno solo dei beni ereditari anche per un tempo molto breve (Cass. 11018/08).
 
Va da sé che in caso di contestazione, sarà onere del soggetto interessato far dichiarare la qualità di erede del chiamato, quello di dimostrare che costui era nel possesso di beni ereditari, e ciò in applicazione del più generale principio dettato dall’art. 2697 cod. civ.
 
Tale onere probatorio, di per sé abbastanza gravoso, può però essere assolto anche con presunzioni, purché aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza. La Suprema Corte, infatti, in un caso che vedeva il chiamato proprietario di un bene immobile di cui il de cuius aveva l’usufrutto, ha ritenuto provato il possesso di beni ereditari sulla presunzione che all’interno di esso vi fossero almeno gli arredi “minimi” per consentire una vita dignitosa e che essi – in assenza di prova contraria da parte del chiamato – fossero di proprietà del de cuius (Cass. 7076/1995).
 
Particolare attenzione bisognerebbe dunque prestare nell’ipotesi, abbastanza frequente, in cui sia il coniuge convivente a voler rinunciare all’eredità. Non esclude, infatti, l’applicazione della norma l’acquisto del legato ex lege di cui all’art. 540 cod. civ. che, anzi, rende ancor più palese il possesso di beni ereditari.* In conclusione, una volta accertata la sussistenza del possesso dei beni ereditari in capo al chiamato all’eredità (nell’ipotesi ovviamente di eredità passiva), la prudenza suggerisce di seguire il percorso più gravoso sotto il profilo economico, ovvero quello di erigere l’inventario e poi formalizzare la rinuncia all’eredità, nei termini e con le modalità di cui all’art. 485 cod. civ.

Nel caso in cui ciò non venisse fatto, infatti, il rischio - per il chiamato all’eredità – sarebbe quello di essere dichiarato erede puro e semplice del de cuius, con conseguente confusione dei due patrimoni e subentro del chiamato / erede nelle posizioni (anche) passive del de cuius.