In materia di separazione e divorzio trova applicazione il principio generale in base al quale i provvedimenti vengono emessi dall'autorità giudiziaria “rebus sic stantibus”, ovvero sulla base degli elementi di fatto così come prospettati in un determinato momento, allo stato attuale, ferma restando la modificabilità degli stessi in presenza di circostanze sopravvenute che mutino il quadro della valutazione precedente. Espressioni di tale regola generale sono l'art. 155ter c.c., relativo ai rapporti tra genitori e figli, in base al quale i genitori possono chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi, nonché la misura e le modalità di erogazione del contributo dovuto per il loro mantenimento, e l'art. 156, ultimo comma, c.c., in ordine ai rapporti patrimoniali tra coniugi, in base al quale, qualora sopravvengano giustificati motivi, il giudice può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti in vigore. Ove tali modifiche si rendano necessarie nel corso del giudizio, potranno essere fatte valere all'interno di esso, mentre, qualora il giudizio sia già terminato, occorrerà attivare la procedura delineata dall'art. 710 c.p.c., che presuppone pertanto una sentenza di separazione definitiva o un decreto di omologazione non più impugnabile. Tale procedura deve essere introdotta con ricorso e si svolge interamente in camera di consiglio, ma nel contraddittorio delle parti e si conclude con un provvedimento avente natura decisoria (in tal senso si è espressamente pronunciata Corte Cost., 31 marzo 1994, n. 121). A decidere su di essa è competente il Tribunale ordinario, secondo i generali criteri di competenza territoriale di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c. Ai fini della partecipazione a tale procedimento, attivabile solo su istanza di parte, congiunta o meno, è obbligatoria l'assistenza di un difensore. Qualora, peraltro, oggetto della richiesta di modifica sia una misura relativa ai figli, la Corte Costituzionale ha ritenuto imprescindibile la presenza in giudizio del Pubblico Ministero. Venendo ad esaminare più approfonditamente le due norme sopra richiamate, emerge subito come l'art. 155ter c.c., a differenza dell'art. 156 c.c., non richieda, ai fini della revisione, la sopravvenienza di giustificati motivi. Da ciò pare ragionevole desumere che l'istanza di modifica possa essere fondata anche sulla nuova valutazione di circostanze preesistenti, sempre nella prospettiva della migliore realizzazione degli interessi dei minori. Ove, invece, in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, è espressamente prescritta la sopravvenienza di giustificati motivi, occorre addurre nuove circostanze, anche già verificatesi al momento della pronuncia, purché non inserite nel quadro degli elementi sottoposti all'attenzione del Tribunale, oppure è necessario far valere modifiche introdotte dalla normativa nel frattempo entrata in vigore. Nell'ambito del procedimento di cui all'art. 710 c.p.c. il Tribunale, una volta sentite le parti, provvede all'ammissione dei mezzi istruttori eventualmente richiesti dalle parti stesse, che hanno infatti facoltà di produrre documenti e dedurre prove. Nelle more, peraltro, ai sensi del terzo comma del suddetto art. 710 c.p.c., è espressamente ammesso che il Tribunale adotti, se opportuni, provvedimenti provvisori. Il procedimento si conclude con decreto, reclamabile, nel termine perentorio di dieci giorni decorrente dalla notifica del provvedimento di revisione, dinanzi alla Corte d'Appello. Peraltro, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 54/2006, lo strumento processuale previsto dall'art. 710 c.p.c. può essere utilizzato anche al fine di applicare le nuove norme sull'affidamento condiviso anche alle separazioni ed ai divorzi già conclusi, al fine di evitare irragionevoli discriminazioni tra genitori e figli che possano beneficiare della nuova disciplina e genitori e figli che rimangano privi di tale possibilità, in ragione di un mero fattore temporale. Ci si limita comunque a segnalare che l'eventuale decisione di modifica adottata con la forma del decreto ai sensi dell'art. 710 c.p.c. non potrà avere efficacia retroattiva. Peraltro le disposizioni relative all'affidamento dei figli ed ai rapporti patrimoniali tra i coniugi possono essere modificate anche dopo la sentenza di divorzio, secondo quanto previsto dall'art. 9 Legge n. 898/70. La norma deve essere intesa come coordinata con il già indicato art. 155ter c.c., nel senso che non siano richiesti giustificati motivi sopravvenuti. Il procedimento delineato dal suddetto art. 9 è da intendersi ricalcato sul modello previsto dall'art. 710 c.p.c., caratterizzato dal rito camerale, dalla competenza del tribunale ordinario, da individuarsi ex artt. 18 e 20 c.p.c. (dovendosi negare una competenza funzionale del giudice del divorzio), e da un impulso di parte; la relativa istanza, comunque, può essere presentata solo dopo che sia passata in giudicato una sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Peraltro, in ordine ad una delle ipotesi che più frequentemente conducono ad instaurare un procedimento ex art. 9, ovvero la richiesta di revisione dell'assegno divorzile, la giurisprudenza ha ritenuto che, perchè tale istanza risulti fondata, non è sufficiente una qualunque modificazione delle condizioni economiche di uno degli ex coniugi, ma occorre che la modificazione riscontrata sia idonea ad alterare l'equilibrio perseguito dal precedente provvedimento sull'assegno; ove venga accertata una simile alterazione, compito del Tribunale è quello di ripristinare nei limiti del possibile, con nuovi provvedimenti, il suddetto equilibrio (cfr. Cass., 16 novembre 1993 n. 11326 e Cass., 29 agosto 1998 n. 8654).