A norma dell'art. 151 c.c. , così come modificato a seguito della riforma del diritto di famiglia attuata nel nostro ordinamento nel 1975, presupposto della domanda di separazione personale dei coniugi, come detto, è, anche indipendentemente dalla volontà e dalla colpa di uno di essi o di entrambi, il verificarsi di fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole. In un sistema così delineato la dichiarazione di addebito si pone dunque come meramente eventuale rispetto alla sentenza di separazione. Infatti, ai sensi del secondo comma del citato art. 151 c.c., il giudice, nel pronunciare la separazione, dichiara, qualora ne ricorrano le circostanze e sempre e comunque su istanza di parte, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri sanciti dall'art. 143 c.c., derivanti dal matrimonio. La violazione di uno o più dei suddetti doveri da parte del coniuge, su cui si tornerà più diffusamente tra breve, al fine di giustificare l'addebito della separazione, dovrà peraltro presentare una certa gravità, vuoi per la rilevanza vuoi per la reiterazione dei comportamenti tenuti. Prima, dunque, di soffermarsi sui presupposti della pronuncia di addebito e di illustrare taluni provvedimenti giurisprudenziali emessi negli ultimi anni sulla base della casistica concretamente presentatasi, preme sottolineare quelli che sono gli effetti della dichiarazione di addebito sul piano dei rapporti patrimoniali tra coniugi, così da aiutare a comprendere la reale portata della pronuncia in argomento. Tali effetti debbono essere individuati, in primo luogo, nella perdita del diritto al mantenimento a danno del coniuge cui venga addebitata la separazione, in capo al quale permane esclusivamente il diritto a ricevere gli alimenti, qualora versi in uno stato di effettivo bisogno, come stabilito dall'art. 156, comma 1, c.c. Altra conseguenza della pronuncia di addebito, a norma dell'art. 548 c.c., è il venir meno, per il coniuge a carico del quale venga stabilito l'addebito stesso, del diritto successorio alla quota di legittima sul patrimonio ereditario lasciato dall'altro coniuge. L'addebito, infine, è uno degli elementi di cui l'autorità giudiziaria è chiamata a tenere conto in sede di determinazione dell'assegno divorzile nel successivo giudizio. Per venire quindi ad identificare i comportamenti contrari ai doveri matrimoniali, suscettibili di legittimare una pronuncia di addebito, occorre previamente stabilire quali siano i doveri giuridici, oltre che morali, discendenti dal matrimonio: si tratta degli obblighi di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell'interesse della famiglia e di coabitazione, ex art. 143 c.c., nonché dei doveri di istruzione ed educazione dei figli, ai sensi dell'art. 147 c.c., e di concorso negli oneri per il mantenimento dei figli medesimi, ex art. 148 c.c. Una condotta contraria a tali doveri, per dare luogo all'addebito, deve essere innanzitutto cosciente e volontaria (in tal senso Trib. Napoli, 28 dicembre 2004) ed inoltre deve necessariamente causare, o quantomeno concorrere a causare, l'irreversibile crisi coniugale, ovvero quella situazione di intollerabilità della convivenza o di grave pregiudizio all'educazione della prole, richiesta dall'art. 151 c.c. (così, tra le altre, Cass., 2 aprile 2005, n. 6922, secondo cui “non può essere addebitata la separazione al coniuge che sia venuto meno ai doveri matrimoniali, qualora si accerti che gli episodi denunciati sono la conseguenza e non la causa dell'intollerabilità della convivenza”). E' altresì pacifico, in giurisprudenza, che la valutazione dei comportamenti dei coniugi, ai fini dell'addebito, debba essere globale e comparativa, nel senso che il tribunale deve valutare “il complessivo comportamento tenuto da entrambi i coniugi durante il matrimonio” (cfr. Trib. Napoli, 3 aprile 1996), non potendosi limitare ad esaminare singoli episodi di frattura e non potendo tuttavia spingersi a conoscere e valutare circostanze diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte e fatte valere in giudizio dalle parti. Taluna giurisprudenza, a questo riguardo, ha avuto occasione di ammettere, all'esito di tale valutazione, una pronuncia di addebito a carico di entrambi i coniugi, con le conseguenze sopra indicate (cfr. Cass., 12 gennaio 2000, n. 279, e Cass., 24 febbraio 2006, n. 4204). In linea di principio, invece, non può essere attribuita rilevanza ai fini dell'addebito a comportamenti tenuti dai coniugi successivamente alla presentazione della domanda di separazione ed alla comparizione dei coniugi stessi dinanzi al Presidente del Tribunale , fatta eccezione per casi particolari che costituiscano ingiurie gravi per l'altro coniuge (questo indirizzo si è affermato a seguito di Corte Cost., sent. n. 99 del 18 aprile 1974). Ciò premesso, cominciando a prendere in considerazione la violazione dell'obbligo di fedeltà, statisticamente più ricorrente a fondamento delle pronunce di addebito della separazione, occorre chiarire fin da subito che essa deve ormai ritenersi svincolata dalla dimensione meramente sessuale dei rapporti tra coniugi, cosicché non può farsi semplicemente coincidere con l'adulterio, ma deve piuttosto riferirsi a qualsiasi violazione della fiducia reciproca e della lealtà tra coniugi, che dovrebbe, ad esempio, ritenersi integrata qualora la moglie, senza il consenso del marito, ritenesse di sottoporsi all'inseminazione eterologa, peraltro vietata dal nostro ordinamento, per indurre lo stato di gravidanza. Per quel che riguarda poi la violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione, unitariamente definiti anche “obblighi di solidarietà coniugale”, essa è stata variamente ravvisata dalla giurisprudenza in comportamenti violenti e prevaricatori tenuti da un coniuge (Cass., 2 settembre 2005, n. 17710), ma anche nell'ingiustificato rifiuto di aiuto e conforto spirituale, volto ad annientare, deprimere o comunque ostacolare la personalità dell'altro coniuge (Cass., 7 giugno 1982, n. 3437). Un altro possibile motivo di addebito è rappresentato dal volontario abbandono del domicilio coniugale, in violazione del dovere di coabitazione innanzi indicato. Una simile condotta necessita tuttavia di una particolare attenzione nella sua valutazione da parte dell'autorità giudiziaria, posto che l'allontanamento dalla residenza familiare non costituisce la violazione di alcun obbligo matrimoniale, se sorretto da giusta causa, ovvero dalla presenza di situazioni di fatto incompatibili con la protrazione della convivenza (p. e., nel caso deciso da Cass, 20 gennaio 2006, n. 1202, la giusta causa veniva ravvisata nei frequenti litigi domestici con la suocera convivente, accettati dal marito). Cogliendo dunque l'occasione per scorrere rapidamente, a titolo esemplificativo, le cause di addebito della separazione contemplate dalla giurisprudenza, oltre alle numerose sentenze che hanno ravvisato l'addebito in una stabile relazione extraconiugale iniziata prima del definitivo incrinarsi dei rapporti matrimoniali , si rammenta l'addebito determinato dal “persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge” (cfr. Cass, 23 marzo 2005, n. 6276), dal fatto di avere avuto rapporti sessuali con prostitute (Cass., 28 aprile 2006, n. 9877), nonché da reiterate scelte educative unilaterali di un coniuge nei confronti dei figli (Cass., 2 settembre 2005, n. 17710) e dal comportamento del coniuge, il quale, appresa la notizia della malattia del partner, lo abbia abbandonato, privandolo altresì di tutte le risorse economiche di cui precedentemente disponeva (Trib. Modena, 24 novembre 2004). Un certo scalpore veniva poi provocato da una pronuncia del Tribunale di Monza del 26 gennaio 2006, la quale escludeva l'addebito a carico della moglie, che, senza aver precedentemente acquisito il consenso del marito, procedeva all'interruzione della gravidanza, sulla scorta dell'attribuzione di tale decisione in via esclusiva alla donna, ai sensi della legge n. 194/78. Sul piano processuale, ci si limita a precisare, salvo maggiori approfondimenti nel prosieguo della trattazione, che, mentre la domanda di separazione è da ritenersi compresa nella domanda di addebito, non può validamente sostenersi il contrario, cosicchè, qualora la parte intenda richiedere l'addebito della separazione all'altro coniuge, dovrà presentare la relativa istanza nel ricorso introduttivo del giudizio, non più tardi. Qualora poi il coniuge convenuto nel procedimento di separazione intenda formulare un'opposta domanda di addebito, uguale e contraria, nei confronti di parte attrice, dovrà farlo al momento della sua costituzione in giudizio, mediante domanda riconvenzionale. La domanda di addebito non potrà pertanto essere proposta per la prima volta in appello, né in un giudizio diverso da quello di separazione, ad esempio relativo alla revisione dell'assegno di mantenimento. In sintesi, può pertanto affermarsi che la richiesta di addebito costituisce una domanda autonoma rispetto alla domanda di separazione, la cui decisione può essere legittimamente differita ad un momento successivo, ex art. 709bis c.p.c., rispetto alla pronuncia della separazione personale dei coniugi, nell'eventualità assai frequente in cui gli accertamenti richiesti ai fini dell'addebito si rivelino complessi e necessitino di una lunga istruttoria. Ciò consente di promuovere il procedimento di divorzio, una volta che sia divenuto definitivo il capo della sentenza di separazione e siano decorsi tre anni dalla comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale per la separazione stessa, anche qualora sia ancora pendente il giudizio sull'addebito.