La separazione consensuale.

La forma di separazione legale privilegiata dall’ordinamento è sicuramente quella definita “consensuale”. Essa consiste nella decisione di marito e moglie di separarsi, suggellata da un accordo formale che investe tutti gli aspetti coinvolti, in particolare diritti patrimoniali, mantenimento del coniuge debole, diritti di visita e mantenimento della prole, assegnazione della casa coniugale.

Tale tipologia di separazione è sicuramente preferibile non solo per l’immaginabile minore conflittualità che si viene normalmente ad instaurare fra le parti, peraltro con notevoli riflessi positivi anche in merito ai rapporti con gli eventuali figli, ma, anche, perché presenta forme procedurali decisamente più snelle e rapide. La procedura di separazione consensuale, infatti, inizia con il deposito di un ricorso presso la Cancelleria del Tribunale ove almeno una delle parti ha la residenza o il domicilio.

L’organo competente potrà, così, formare il fascicolo d’ufficio, nel quale saranno raccolti, oltre al ricorso stesso, anche tutti i documenti che i coniugi hanno ritenuto opportuno allegare. Conclusi tali adempimenti, il Presidente del Tribunale fisserà l'udienza alla quale devono comparire personalmente i coniugi, principalmente allo scopo di esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione dei coniugi.

Il Presidente del Tribunale, a tal fine, ascolterà i due coniugi, prima separatamente e poi congiuntamente, come previsto dall'articolo 708 del codice di procedura civile; in questa sede, inoltre, il Presidente potrà adottare gli eventuali provvedimenti che riterrà necessari ed urgenti e da tale momento inizia a decorrere il termine di tre anni per poter richiedere il divorzio.

Nel caso in cui si raggiunga la conciliazione, viene redatto un apposito verbale e la procedura di separazione ha termine. Qualora, invece, le parti persistano nella volontà di separarsi, il Presidente procede all'emanazione del decreto di omologazione delle condizioni indicate nel ricorso.

La separazione “di fatto”.

La principale distinzione che può essere operata all’interno dell’istituto della separazione è quella che contrappone la separazione “legale”, a sua volta di due tipi (giudiziale e consensuale), a quella “di fatto”. Per la separazione legale è previsto comunque un vaglio dell’autorità giudiziaria, che interviene o stabilendo le condizioni da imporre ai coniugi con sentenza, ovviamente dopo attento ascolto delle parti (separazione giudiziale) oppure con l’emanazione del decreto di omologazione degli accordi raggiunti dai coniugi (separazione consensuale).

La separazione “di fatto”, di converso, rappresenta sicuramente il modo più agevole e rapido per manifestare l’esistenza di una crisi e consiste nell’effettiva interruzione, da parte di uno o di entrambi i coniugi, del proprio apporto “psicologico” e/o patrimoniale alla famiglia. Il modo più comune di porla in essere è attraverso il dichiarato abbandono del tetto coniugale da parte di almeno uno dei due e l’eventuale accordo circa un sostegno economico alla parte meno agiata. Questa forma di separazione non solo non costituisce valido presupposto per far iniziare a decorrere il termine di tre anni per ottenere il divorzio, ma non produce alcun effetto giuridico, dato che il nostro codice civile, di per sé, non la disciplina affatto.

E’ da precisare, tuttavia, che, in via indiretta, essa può provocare delle conseguenze anche sul piano giuridico: innanzitutto, pur non essendo vietata dall’ordinamento, potrebbe essere addotta quale elemento di addebito ai danni del coniuge che abbia palesemente violato gli obblighi di assistenza morale e materiale e/o di fedeltà. La separazione “di fatto”, inoltre, è presa in considerazione da alcune normative settoriali, come quella in tema di successione nel contratto di locazione o quella che la indica come una delle cause ostative all’adozione.

E’ da precisare che, proprio per il carattere ontologicamente transitorio della separazione, gli effetti della stessa possono essere fatti cessare tramite l’istituto della riconciliazione (ex art. 154 c.c.). Al fine di favorire al massimo il recupero della sintonia all’interno della famiglia, il legislatore ha previsto che per garantire piena efficacia alla riconciliazione non sia necessaria alcuna formalità particolare, risultando sufficiente, all’uopo, un comportamento di entrambe le parti incompatibile con lo status di “separati”.

Quanto detto vale, è bene precisare, non solo in caso di separazione di fatto, bensì anche in caso di separazione legale. In quest’ultima ipotesi, tuttavia, l’ordinamento prevede due modalità alternative per rendere formale la riconciliazione medesima: l’accertamento giudiziario ovvero, più semplicemente, il rilascio di una dichiarazione congiunta da parte dei coniugi presso il Comune di appartenenza.

Separazione personale: cenni introduttivi.

La separazione personale dei coniugi è un istituto di carattere tendenzialmente transitorio, sia sotto il profilo giuridico che sotto quello “psicologico”, dato che, pur non essendoci divieti al mantenimento sine die della condizione di “separati”, il rapporto di regola evolve o nella riconciliazione tra le parti oppure nella constatazione dell’irreversibilità della crisi, con la possibilità di addivenire alla sentenza di divorzio. Solo quest’ultima è in grado di sciogliere il matrimonio, facendo venir meno lo status giuridico di coniuge, mentre la pronuncia di separazione non è idonea a incidere né sulla validità dell’atto matrimoniale (prerogativa delle sentenze di nullità del matrimonio), né sulla prosecuzione del vincolo in questione.

Gli effetti che conseguono alla separazione “legale” (che differisce da quella c.d. “di fatto”, come si sta per vedere) comportano solo la sospensione di molti obblighi inerenti ai rapporti personali tra i coniugi (in primis quello di coabitazione e di assistenza morale) e la modifica di alcuni degli obblighi di carattere patrimoniale (basti pensare all’eventuale versamento dell’assegno di mantenimento o alimentare). Come a seguito di divorzio o di annullamento del matrimonio, peraltro, restano invariati i doveri di mantenere, istruire ed educare la prole, tematica che sarà approfondita nella sede specifica.

Il decreto di omologazione dell’accordo tra i coniugi.

L’omologazione dell’accordo raggiunto dai coniugi in sede di separazione consensuale consiste in un controllo sulla legalità e sulla compatibilità delle condizioni di separazione definite dalle parti, il quale viene effettuato d'ufficio, senza la necessità di alcuna specifica ed ulteriore domanda da parte dei coniugi. Ai sensi dell’art. 158 del codice civile, l’unico caso in cui può essere rifiutata l’omologazione è il contrasto dell’accordo stesso con l’interesse dei figli.

Almeno in via di principio, dunque, il Presidente del Tribunale non potrebbe sindacare in merito alle condizioni, stabilite consensualmente dalle parti, che influiscano esclusivamente sui reciproci rapporti patrimoniali fra le stesse. E’ da precisare, tuttavia, che assai difficilmente sarà suscettibile di omologazione un accordo che escluda a priori qualsiasi forma di sostegno economico al coniuge notevolmente meno abbiente ovvero contenga una clausola di rinuncia alla modifica delle condizioni inserite nel patto medesimo; e ciò vale anche se la coppia non ha prole.

Per tali motivi è consigliabile che i coniugi si facciano assistere nella redazione dell’accordo da un avvocato o da soggetto comunque esperto in diritto di famiglia. Fermo restando il vaglio dell’autorità giudiziaria sulle clausole che attengono agli elementi essenziali dell’accordo, la giurisprudenza della Suprema Corte ha ritenuto ammissibili e valide, a prescindere dall’omologazione e purché non in contraddizione con l’accordo omologato, pattuizioni che si affiancano al verbale di separazione (in tal senso, a titolo esemplificativo, si vedano Cass. Civ. sent. n. 657 del 1994 e sent. n. 9287 del 1997); a quest’ultimo proposito è stata reputata pienamente efficace la clausola secondo la quale il coniuge economicamente più benestante si impegnava a versare all’altro un assegno di misura superiore a quella poi effettivamente omologata (cfr. Cass. sent. n. 2270 del 1993).

In conclusione, si evidenzia che, sulla base di un’indagine ISTAT, la separazione consensuale è quella praticata più spesso, tanto da raggiungere nel 2002 la percentuale dell’87% delle separazioni complessive. Tale successo è determinato anche dalla possibilità delle parti, perfino in corso di causa, di trasformare la procedura da giudiziale in consensuale, ovviamente a condizione che i coniugi raggiungano, seppur a posteriori, l’accordo sugli elementi essenziali; qualora venga iniziata la separazione consensuale, viceversa, è necessario instaurare un procedimento ex novo per passare alla separazione giudiziale.

La Separazione Giudiziale.

Qualora i coniugi non riescano a trovare un’intesa circa le condizioni di separazione, sarà necessario ricorrere alla separazione giudiziale. Per quanto riguarda i presupposti, nella stesura originaria del codice civile del 1942, in aderenza al principio fondamentale dell’indissolubilità del matrimonio, la separazione (e non ancora il divorzio, introdotto con la legge n. 898/1970) era consentita esclusivamente in caso di colpa di uno dei coniugi.

Il rito, dunque, era incentrato prevalentemente ad accertare a quale delle due parti fosse addebitabile la rottura del nucleo familiare. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 (legge n. 151/1975), invece, il codice civile è stato novellato, ammettendo che i coniugi si separino anche per circostanze oggettive imprevedibili subentrate a turbare l’armonia della coppia e, più in generale, per tutti quei fatti che, come recita l’art. 151, comma 1 c.c., "rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza o recano grave pregiudizio all'educazione della prole".

Al fine di accertare la suddetta intollerabilità, la Suprema Corte ha ritenuto che non sia necessaria la percezione della crisi da parte di entrambi i coniugi risultando sufficiente “la condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti” (Cass. Civ. sent. n. 7148 del 1992). In ogni caso l’indagine sull’intollerabilità della convivenza non può basarsi sull’analisi di singoli episodi, ma deve derivare dalla valutazione globale dei reciproci comportamenti dei coniugi, secondo quanto emerge in seno al procedimento.

In merito agli aspetti procedurali, fermo restando che l’avvio della causa può essere determinato dal ricorso di anche uno solo dei due coniugi, nella prima udienza entrambi dovranno comparire davanti al Presidente del Tribunale. Quest’ultimo, con le stesse modalità previste per la separazione consensuale, valuterà l’opportunità di adottare provvedimenti necessari ed urgenti a tutela del coniuge debole e dei figli. Conclusa tale fase, il procedimento si svolge secondo le forme del rito ordinario ed il provvedimento emesso a conclusione ha la forma di sentenza.

E’ da sottolineare l’attuale potere del giudice di dichiarare la separazione immediatamente, già a seguito della prima udienza, seppur con sentenza non definitiva, cosicché resteranno da definire in un secondo momento solo gli aspetti controversi. Il fine principale della suddetta accelerazione procedurale è quello di permettere ai coniugi di chiedere il divorzio anche prima dell'emissione della sentenza definitiva.

L’eventuale addebito della separazione.

Premesso che il dato oggettivo dell’intollerabilità della prosecuzione del rapporto costituisce condizione necessaria e sufficiente per la pronuncia della separazione giudiziale, uno dei due coniugi ha la facoltà di chiedere al giudice di accertare che la crisi è stata determinata dal comportamento dell’altro.

Nel caso in cui, infatti, l’autorità giudiziaria appuri che la rottura dell’unione coniugale è dipesa dalla violazione, da parte di una sola delle parti, dei doveri disciplinati dall’art. 143 del codice civile (di fedeltà reciproca, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione), ove sussista specifica richiesta in tal senso, potrà pronunciare sentenza di separazione con addebito. Secondo quanto affermato da costante giurisprudenza, tuttavia, ai fini dell’addebitabilità in capo ad un solo coniuge, è necessario che la violazione in commento sia antecedente alla proposizione della domanda di separazione e sussista un rapporto di causa-effetto tra la violazione stessa e la sopravvenuta intollerabilità della convivenza.

Il comportamento di ciascuno, peraltro, dovrà essere valutato in raffronto con quello dell’altro, al fine di individuare eventuali situazioni di reazioni, immediate e non eccessive, rispetto a negligenze dell’altra parte.

Gli effetti della separazione legale sui rapporti patrimoniali fra i coniugi.

Dal punto di vista dei rapporti patrimoniali, la separazione legale produce molteplici e rilevanti effetti, sia per i coniugi stessi che per i terzi che intrattengono rapporti giuridici con almeno uno di essi.

La prima conseguenza della separazione, sia di tipo giudiziale che di tipo consensuale, è lo scioglimento del regime di comunione legale dei beni (sempre che i coniugi non abbiano già optato per il regime di separazione dei beni, al momento della celebrazione del matrimonio oppure in qualunque momento successivo), con rilevanti ricadute, ad esempio, sulla garanzia reale su cui fanno affidamento gli eventuali creditori di ciascuno dei coniugi.

Altra inevitabile questione da regolamentare, data la cessazione della convivenza, è quella relativa all’assegnazione della casa familiare. Rinviando la trattazione per l’ipotesi in cui la coppia abbia figli (anticipando, fin da ora, che la novella del 2006 mira a tutelare ancor più l’interesse della prole, senza trascurare, tuttavia, eventuali diritti di proprietà esclusiva di uno dei due coniugi), se non ne ha, la casa familiare non può venire assegnata esclusivamente al marito o alla moglie, a meno che entrambi non raggiungano un accordo sul punto in tal senso.

Si dovrà, invece, effettuare un distinguo tra due situazioni: qualora sia di proprietà comune, si potrà richiedere la divisione giudiziale dell'immobile, qualora sia di proprietà esclusiva, rientrerà nella sfera di disponibilità esclusiva del coniuge proprietario. Rimanendo inalterato lo status di coniuge, inoltre, ciascuno di essi avrà diritto a una quota della pensione di reversibilità e, salvo il caso di separazione giudiziale con addebito pronunciata con sentenza definitiva, resterà titolare, altresì, dei diritti successori in caso di sopravvenuto decesso del consorte durante tale fase transitoria del rapporto.

Per quanto concerne, più in generale, la gestione dei rapporti economici tra i coniugi, infine, è necessario trattare separatamente le due forme di separazione legale: in caso di separazione consensuale, i coniugi stipulano autonomamente un accordo da sottoporre successivamente al vaglio dell’autorità giudiziaria tramite l’omologazione. Il contenuto dell’accordo medesimo sarà la disciplina dei loro reciproci rapporti patrimoniali e, in particolare, potrà avere ad oggetto: la divisione di beni comuni, l'assegnazione ad uno dei coniugi di beni di proprietà comune o esclusiva dell'altro coniuge, il riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge debole.

Qualora si addivenga, invece, a una separazione giudiziale, l’effetto immediato è solo quello dello scioglimento dell'eventuale regime di comunione legale, mentre i beni restano di proprietà comune ovvero esclusiva dei coniugi, a seconda dei casi e sulla base della disciplina ex art. 179 e ss. del codice civile.

Ai sensi di tale norma, ad esempio, i beni da considerarsi “personali” (secondo i criteri delineati dalla disposizione in commento) e i beni il cui acquisto è stato precedente al matrimonio rimangono di proprietà esclusiva del coniuge intestatario. Medesima soluzione si ha, altresì, per l’ipotesi in cui sia stato scelto il regime di separazione legale dei beni, già nel momento delle nozze oppure in un qualunque tempo successivo.

Gli effetti della separazione legale sui rapporti personali fra i coniugi.

Pur non facendo venir meno lo status di coniuge, la sentenza (ovvero il decreto di omologazione) che pronuncia la separazione incide necessariamente sugli obblighi gravanti sui coniugi a norma dell’art. 143 del codice civile. Per quanto concerne i rapporti personali fra i coniugi, l’obbligo di coabitazione è formalmente sospeso, fermo restando che la convivenza potrebbe essere già cessata in esecuzione del disposto dei provvedimenti temporanei ed urgenti pronunciati dal Presidente del Tribunale. Anche l’adempimento degli obblighi di assistenza morale e di collaborazione, fatta eccezione per quanto riguarda la prole, resta quiescente.

In relazione alla questione della compatibilità fra la separazione e il permanere dell’obbligo di fedeltà, dottrina e giurisprudenza si sono a lungo confrontate con soluzioni altalenanti. Mentre in alcune sentenze dalla Suprema Corte l’obbligo di cui trattasi deve reputarsi del tutto sospeso, anche perché, in caso contrario, si affermerebbe l’esistenza, in capo ai separati, di un vero e proprio obbligo di castità (cfr., ad esempio, Cass. Civ. sent. n. 6566 e n. 9317 del 1997), secondo un orientamento più recente, che potremmo definire “intermedio”, il coniuge separato che intenda intraprendere una relazione sentimentale sarà tenuto a tenere un comportamento tale da non offendere la dignità, l’onore e la sensibilità dell’altro coniuge.

Un’altra eventuale conseguenza della separazione, a prescindere dalla pronuncia di addebito, è la possibilità di ciascuna delle parti di chiedere al giudice che vieti alla moglie l’uso del cognome del marito, quando tale uso sia per quest’ultimo sensibilmente pregiudizievole, ovvero che autorizzi la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall’uso possa derivarle grave pregiudizio (si veda, al proposito, l’art. 156bis c.c.).

La separazione legale, infine, incide sull’operatività della presunzione di concepimento della prole in costanza di matrimonio: l’art. 232, comma 2, del codice civile, difatti, prevede che la presunzione in argomento non abbia luogo qualora un eventuale figlio nasca decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dall’omologazione della separazione consensuale ovvero dalla data della comparizione dei coniugi davanti al giudice, quando quest’ultimo li abbia autorizzati a vivere separatamente con provvedimento provvisorio.

Per quanto riguarda le tematiche, peraltro strettamente connesse tra loro, dell’affidamento della prole e dell’assegnazione della casa familiare, si rimanda la trattazione alla specifica sedes materiae, sottolineando, fin da ora, le rivoluzionarie innovazioni appena introdotte dalla legge n. 53/2006.

Diritto al mantenimento o agli alimenti.

Una delle conseguenze di tipo patrimoniale di maggior rilievo è l’eventuale diritto di uno dei coniugi al mantenimento ovvero agli alimenti, sulla base di presupposti diversi ed espressamente previsti. Per quanto riguarda il primo tipo di ausilio economico, questo spetta qualora il giudice lo disponga, valutate attentamente tutte le circostanze del caso, al fine di tentare un riequilibrio delle condizioni patrimoniali delle due parti, in modo che entrambi possano mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

I presupposti necessari per il sorgere del diritto di uno dei coniugi a percepire l’assegno di mantenimento a carico dell’altro (ex art. 156, comma 1 c.c.) sono, da un lato, che la parte beneficiaria non abbia adeguati redditi propri, che la separazione non sia a lui addebitabile per colpa, che non dichiari espressamente di rinunciarvi e, dall’altro lato, che il coniuge tenuto a versare l’assegno di mantenimento (di regola con cadenza mensile) si trovi effettivamente nella condizione economica di poter sostenere siffatto esborso.

Allo scopo di tutelare il coniuge più debole, la legge prevede che se l’obbligato non provvede a versare nei tempi stabiliti l’assegno, su richiesta del primo, il giudice avrà il potere di disporre il sequestro di una parte dei beni dell'inadempiente, oppure di ordinare a terzi (es. al datore di lavoro del coniuge obbligato) il pagamento della somma dovuta. Una parte minoritaria della giurisprudenza di merito (si veda, al proposito, Trib. Milano sent. 10 febbraio 1999 e sent. 4 giugno 2002), inoltre, ha condannato il coniuge cui era stata addebitata la separazione, in aggiunta al versamento dell’assegno di mantenimento, anche al risarcimento dei danni per responsabilità c.d. “aquiliana” ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Il tribunale di Milano, in definitiva, ha ritenuto che tale forma di tutela debba essere riconosciuta, ovviamente al concorrere di tutti i suoi presupposti, anche in caso di violazione dei doveri coniugali, avendo quest’ultimi piena natura giuridica e non solo morale. Ma la Suprema Corte è orientata, sul punto, in maniera opposta: probabilmente anche al fine di evitare forme di “accanimento” nei confronti del coniuge cui è addebitabile la separazione, difatti, la Cassazione (ad esempio cfr. Cass. Civ. sent. n. 3367 del 1993) ha escluso l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. in simili circostanze, ribadendo che, in deroga ai principi generali del nostro ordinamento, l’addebito della separazione comporta solo gli effetti espressamente previsti dalla legge.

Per quanto concerne, invece, il diritto agli alimenti, questo spetta anche se al coniuge meno abbiente è stata addebitata la separazione per colpa; l’assegno alimentare, infatti, ha lo scopo non già di permettere uno stile di vita agiato quanto quello goduto prima della crisi coniugale, bensì di assicurare anche alla parte economicamente molto debole i mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa (cfr. art. 156, comma 3 c.c.).

Modifica delle condizioni di separazione.

Le condizioni di separazione stabilite nei provvedimenti adottati dal giudice in sede di separazione giudiziale, così come gli accordi raggiunti in sede di separazione consensuale, sono sempre suscettibili di modifica.

Le modalità procedurali auspicabili per addivenire alla modificazione delle condizioni sono il raggiungimento di un accordo stragiudiziale oppure la proposizione di un ricorso giudiziale congiunto. Qualora risulti impossibile un’intesa in tal senso, il coniuge interessato alla variazione sarà tenuto a introdurre un apposito procedimento mediante ricorso ai sensi dell’art. 710 c.p.c., con l’assistenza necessaria di un avvocato. A tale domanda seguirà, dopo l’istruttoria del caso, l’emissione di un decreto avente la natura di sentenza che, pertanto, conterrà specifica motivazione e sarà passibile di impugnazione con i mezzi espressamente previsti dall’ordinamento. Salvo restando quanto si dirà in merito al provvedimento di affidamento dei figli e a quello di assegnazione della casa familiare, la modifica delle condizioni di separazione può essere chiesta, in ogni tempo, qualora vi siano giustificati motivi o intervengano fatti nuovi. Il “se” o il “quanto” dell’assegno di mantenimento, in particolare, potrebbero necessitare una revisione nell’ipotesi in cui si provi un apprezzabile peggioramento delle proprie condizioni economiche oppure un miglioramento di quelle dell'altro.