Con la sentenza in commento, i Giudici della Suprema Corte si sono espressi sulla vexata quaestio della natura della responsabilità precontrattuale.
Come noto, per responsabilità precontrattuale si intende la lesione della libertà negoziale altrui, cagionata nel corso delle trattative per la conclusione di un contratto mediante un comportamento doloso o colposo, oppure per l’inosservanza del precetto della buona fede.
Tale ipotesi di responsabilità, che trova il suo fondamento normativo negli art. 1337 c.c. e 1338 c.c., si colloca in una fase antecedente alla conclusione del contratto ma che, comunque, coinvolge soggetti che non possono ritenersi estranei tra loro essendo, appunto, già entrati in contatto nel corso delle trattative.
Queste peculiarità sono alla base della disputa sulla sua natura giuridica, che vede contrapposte ben tre teorie:
  1. natura extracontrattuale. Tale ricostruzione si fonda sulla considerazione che nella fase delle trattative il vincolo contrattuale non è ancora sorto e, pertanto, i soggetti coinvolti non sono ancora obbligati a rispettare le obbligazioni contrattuali, ma solo il principio generale del neminem laedere stabilito dall’art. 2043 c.c. indistintamente per tutti i consociati;
  2. natura contrattuale. Determinante è il legame che si instaura tra i soggetti che vengono in contatto nel corso delle trattative, che già in tale fase non possono considerarsi tra loro degli estranei e, dunque, sono legati da un rapporto assimilabile a quello contrattuale, sub specie da contatto sociale. Nelle obbligazioni da contatto sociale ciò che può essere definito “contrattuale” è solo il rapporto e non la fonte dello stesso, sicché seppur non si possano applicare le regole sulla conclusione del contratto, trovano ampia operatività quelle che disciplinano il contratto come “rapporto”, in particolar modo le regole sulla responsabilità;
  3. natura autonoma. Accolta solo dalla dottrina, la tesi del tertium genus di responsabilità è poco suggestiva poiché non risponde in maniera esaustiva sulla disciplina applicabile all’ambito della responsabilità precontrattuale, limitandosi invece ad escluderne la genesi contrattuale o extracontrattuale.
L’accoglimento di una tesi piuttosto che un’altra non è questione meramente teorica, se si considera che dal riconoscimento della natura della responsabilità derivano importati conseguenze, principalmente con riferimento a prescrizione e onere della prova.
L’orientamento della Corte di Cassazione è stato per lungo tempo ancorato alla tradizionale concezione della responsabilità precontrattuale come responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che la prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno, nonché del dolo o della colpa del danneggiante, erano a carico del danneggiato, con il termine quinquiennale di prescrizione del diritto azionato (cfr. ex plurimis, 15040/2004; 16735/2011).
Gli ermellini, tuttavia, ritengono che i tempi siano maturi per discostarsi dall’orientamento classico, che “non ha consentito di dare il giusto rilievo, sul piano giuridico, alla peculiarità di talune situazioni non inquadrabili né nel torto né nel contratto, e - tuttavia - singolarmente assimilabili più alla seconda fattispecie, che non alla prima”.
Con un interessante excursus storico/giuridico i giudici di legittimità evidenziano che nel ‘900 si è definitivamente consolidata la tesi di una forma di responsabilità che si colloca "ai confini tra contratto e torto", in quanto radicata in un "contatto sociale" tra le parti che, in quanto dà adito ad un reciproco affidamento dei contraenti, è "qualificato" dall’obbligo di "buona fede" e dai correlati "obblighi di informazione e di protezione”.
In tali circostanze, il rapporto obbligatorio si connota non da obblighi di prestazione, come accade nelle obbligazioni che trovano la loro causa in un contratto, bensì da obblighi di protezione, egualmente riconducibili, sebbene manchi un atto negoziale, ad una responsabilità diversa da quella aquiliana e prossima a quella contrattuale.
Da queste considerazioni, che la Corte evidenzia essere state ampiamente recepite dalla giurisprudenza, discende che “l’elemento qualificante di quella che può ormai denominarsi "culpa in contrahendo" solo di nome, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti”.
Ne discende che la responsabilità per il danno cagionato da una parte all’altra nel corso delle trattative, in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fede, protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non del generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale, con ogni conseguenza in termine di termine prescrizionale e onere della prova.