Il danno biologico, inteso quale lesione dell’integrità psico-fisica del soggetto, è stato affermato per la prima volta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 184 del 14.7.1986, che peraltro ebbe a considerare tale forma di danno come una terza ipotesi rispetto al danno patrimoniale ed a quello non patrimoniale (da reato); siffatta impostazione deve ritenersi ormai superata a seguito delle pronunce n. 8827/03 e 8828/03 della Corte di Cassazione, nonché dalla decisione n. 233/03 della Corte Costituzionale che hanno confermato la riconduzione del danno alla salute all’area del danno non patrimoniale. Esso si differenzia quindi sia dal danno patrimoniale, in quanto non attiene alla lesione di interessi di natura strettamente economica, sia dal danno morale soggettivo puro in quanto non consiste nella sofferenza contingente derivante dal fatto reato. La portata innovativa conseguente alla introduzione del danno biologico ha previsto ulteriori sviluppi che hanno individuato la categoria del danno esistenziale, quale compromissione della sfera di realizzazione della persona umana. In questo contesto si inserisce la sentenza n. 7713 del 7.6.2000 con la quale la Corte di Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale;la pronuncia, in altre parole, fa propria l’evoluzione della dottrina degli anni precedenti dando ingresso ufficialmente nel nostro ordinamento, per il tramite del c.d. diritto vivente, al danno esistenziale: questo abbraccia qualsiasi evento che, per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente sull’esistenza di questa: un fatto causato da terzi, infatti, può rivelarsi dannoso anche quando, non traducendosi nella concreta e materiale lesione dell’integrità psico-fisica, sia tuttavia idoneo ad incidere sulle attività realizzative della persona. Il percorso iniziato dalla Cassazione con la sentenza 7713/2000 è stato, per così dire, completato dalle due pronunce n. 8827 e 8828 del 2003; in tali pronunce la Corte di legittimità, ed è ciò che più interessa in questa sede, sancisce che l’ordinamento attuale, in applicazione dell’art. 2 Cost., tutela e riconosce ogni ipotesi di danno non patrimoniale in cui venga leso un valore attinente alla persona. Viene così finalmente rivisitato l’art. 2059 c.c., del quale si propone un’interpretazione estensiva “costituzionalmente orientata” che consente di risarcire ogni aspetto volto a tutelare i diritti fondamentali dell’individuo; in particolare, il richiamo della norma ai “casi previsti dalla legge” viene adesso riferito anche alle previsioni della Carta Fondamentale. Tale lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. ha ricevuto anche l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 233/03, sicché oggi, riassumendo, si possono distinguere, grazie all’opera di interpretazione e sistematizzazione della Corte di Cassazione e della Consulta, ben tre tipi di danno non patrimoniale, tutti sussumibili nell’art. 2059 c.c., e cioè: il danno morale soggettivo derivante da reato; il danno biologico; il danno non patrimoniale da lesione di un diritto costituzionalmente qualificato, e cioè il danno esistenziale. Nel rapporto di lavoro la giurisprudenza di legittimità ha concentrato l’attenzione sul danno esistenziale individuato, sovente, nel danno all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine ed alla vita di relazione e, più in generale, nella lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione. Anche quindi nel rapporto lavorativo la Suprema Corte ha preso decisamente posizione in senso favorevole alla riconoscibilità e risarcibilità del danno esistenziale, quale categoria unitaria ed autonoma nell’ambito del danno non patrimoniale, danno che deve individuarsi nella “compromissione della sfera di esplicazione di quelle attività che rappresentano un mezzo di realizzazione di un soggetto”. Una delle ipotesi che la giurisprudenza contempla riguarda la problematica del demansionamento del lavoratore, del risarcimento del danno conseguenziale, della prova del danno subito. Viene in evidenza la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro per l’illegittimo declassamento del lavoratore con una duplice violazione da parte datoriale degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, primo di tutti l’obbligo nascente dall’art. 2103 c.c nonché l’obbligo di tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità dal lavoratore, secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c. .La Suprema Corte argomenta che non esiste una equazione “inadempimento” – “danno risarcibile”, essendo necessario a tal fine che il lavoratore fornisca la prova dell’effettiva esistenza del danno, nella sua varie componenti, di cui chiede il risarcimento ; onere probatorio alquanto incisivo per il lavoratore cui non è sufficiente affermare genericamente l’esistenza della dequalificazione e chiedere il risarcimento del danno, ma dovendo egli fornire una precisa indicazione dei danni che lo stesso ritenga di aver subito, e ravvisandosi quindi uno specifico onere probatorio in ordine all’effettiva esistenza di tali danni. Affermato, dunque, che il bene giuridico che il danno esistenziale intende tutelare è costituito dalle attività realizzatrici della persona, ossia tutte quelle attività, soprattutto extra-economiche, che costituiscono la quotidianità dell’individuo, e che vengono sconvolte dall’evento lesivo posto in essere, ne consegue che il danno esistenziale presenta caratteri specifici, con una sua fisionomia del tutto distinta: le Sezioni Unite hanno rilevato che, “stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni diretto pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Pertanto il danno esistenziale si fonda sulla la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.   E questo porta a parlare del problema della prova del danno lamentato. La giurisprudenza ha di fatto posto al centro dell’attenzione la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., e cioè a carico del lavoratore la prova dell’effettività del danno: il danno esistenziale inteso come danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale, non può mai considerarsi una conseguenza automatica della inadempimento datoriale. La prova ad es. della dequalificazione, della forzata inoperosità ad es. per licenziamento ingiustificato, del disagio psicologico in seguito a condotte mobbizzanti costituiscono indubbiamente un presupposto della istanza risarcitoria ma, è necessario che il lavoratore alleghi i contenuti del pregiudizio in concreto subito e fornisca la prova che l’inadempimento del datore ha concretamente inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita, obbligandolo in definitiva a scelte di vita diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso. Ma che cosa viene liquidato dal Giudice in ipotesi di accoglimento della domanda? E’ bene ricordare che,muovendosi in tema di danno non patrimoniale, cioè in presenza di una lesione di beni ed interessi inerenti alla persona essi come tali sono privi di un valore economico e di scambio, e quindi difficilmente monetizzabili. La mancanza di riferimenti cui ancorare la suddetta liquidazione ha indotto la giurisprudenza a percorrere la strada del ricorso alla liquidazione equitativa. Ma ragioni di uniformità di indirizzo e la finalità di evitare sperequazioni valutative hanno indotto alla utilizzazione non di un criterio equitativo puro, non ancorato ad alcun parametro, ma di ancorare la liquidazione equitativa, che rimane quella maggiormente applicata, a determinati criteri obiettivi, in grado di avvicinare ed omogeneizzare la quantificazione del danno. Un primo tentativo in tal senso è quello noto come “equazione di Liberati”, che ha già avuto le prime applicazioni in giurisprudenza e si è anche favorevolmente proposto all’attenzione della dottrina; si tratta di una teoria che sviluppa un ragionamento logico attraverso cui perviene ad una quantificazione del danno esistenziale ancorandola a determinati criteri obiettivi.  L’entità del risarcimento relativo al danno esistenziale dipenderà quindi dalla durata di tale danno (distinguendosi un danno esistenziale permanente ed un danno esistenziale temporaneo), dall’entità quantitativa di tale danno che potrà essere totale, comportando cioè la compromissione assoluta di un’attività realizzatrice, o solo limitante, non escludendo cioè la eventualità di praticare una specifica attività ma costringendo la vittima a praticarla con modalità differenti.; in sostanza tale “formula” presuppone una tabella in cui il 100% del danno corrisponde alla alterazione totale e definitiva dell’esistenza, individuandosi nella vita di ogni persona cinque macro aree in cui raccogliere le molteplici azioni funzionali alla realizzazione individuale, e cioè: (1) attività biologico sussistenziali; (2) attività che concernono le attività affettive familiari; (3) attività lavorative; (4) attività sociali/politico/associative; (5) attività di svago