La proroga dell’entrata in vigore per le controversie condominiali

L’art. 2, comma 16-decies, della legge 10 del 26 febbraio 2011 (di conversione, con modificazioni, del D.L. 225 del 29 dicembre 2010, cosiddetto “Milleproroghe”), ha disposto la proroga per un anno del termine di entrata in vigore del D.Lgs. 28 del 4 marzo 2010 (che, ai sensi dell’art. 24, comma 1, del D.Lgs. 28/2010, ha previsto la sua entrata in vigore per il giorno 20 marzo 2011) per le sole controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.

Di conseguenza, dal 20 marzo 2011 è obbligatorio l’esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale per tutte le altre materie indicate dall’art. 5, comma 1, del D.Lgs. 28/2010 (diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), mentre diventerà obbligatorio, a distanza di un anno - salvo ulteriori ripensamenti da parte del legislatore - anche per controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.

La proroga è stata certamente assai opportuna, a causa delle difficoltà applicative della disciplina sulla mediazione obbligatoria che sono state subito denunciate dagli osservatori più attenti e dagli operatori del diritto, ma non basta di per sé a risolvere i problemi aperti della nuova normativa.

Conviene, quindi, fare il punto della situazione con riferimento sia ai problemi generali che si presentano per quanto riguarda l’applicazione della disciplina sulla mediazione obbligatoria contenuta nel D.Lgs. 28/2010 - che, nonostante siano stati immediatamente individuati dai commentatori unanimi fin dall’inizio, non sono stati finora minimamente presi in considerazione dal legislatore - sia ai problemi specifici che si presentano nel settore delle controversie che intessano i rapporti condominiali. Cominciamo con questi ultimi.

Aspetti critici della mediazione nella materia condominiale

Nonostante sia diffusa una percezione decisamente maggiore delle dimensioni del fenomeno (probabilmente a causa della sua capillarità), i rapporti più recenti in materia riferiscono che in realtà i procedimenti giudiziari che hanno interessato il condominio in Italia non costituiscono che una modesta parte del contenzioso civile complessivo (Salciarini, “In condominio l’accordo dell’amministratore va sempre ratificato dal voto dell’assemblea”, in Guida al Diritto, Dossier n. 4, maggio 2010, ricorda come un rapporto Censis Servizi e Anaci abbia evidenziato che le controversie condominiali nell’anno 2007 hanno rappresentato il 4,5% dei circa quattro milioni dei procedimenti civili instaurati davanti ai tribunali e ai giudici di pace); tuttavia, anche se i numeri sono inferiori a quelli percepiti, riuscire a indirizzare, seppure per una sola parte, questo tipo di controversie verso meccanismi di soluzione stragiudiziale delle liti è certamente opportuno e auspicabile.

Bisogna, a questo punto, rilevare che in ogni caso sarebbe preferibile, anche per non incorrere in inammissibili violazioni del diritto di fare ricorso all’Autorità giudiziaria previsto dalla Costituzione, evitare che gli strumenti di soluzione alternativa delle liti vengano imposti (come invece sta avvenendo) agli interessati, col fine dichiarato di risolvere l’inefficienza di un sistema di amministrazione della giustizia che da tempo è caratterizzato da tempi processuali inaccettabili, tali da arrivare spesso a vanificare perfino gli effetti di una sentenza corretta e ineccepibile (basti pensare all’ipotesi di un creditore che dopo anni di causa si vede riconoscere dal giudice il proprio diritto nei confronti di una società che però nel frattempo è fallita oppure di un privato che, in attesa della decisione, ha avuto tutto il tempo per liquidare il proprio patrimonio e risultare così nullatenente; e si potrebbero fare tanti altri esempi simili); sarebbe invece necessario predisporre un sistema pluralistico di meccanismi di soluzione delle liti che preveda, a fianco del processo deciso dal giudice dello Stato, altri istituti (come l’arbitrato, la conciliazione ecc.) fra i quali l’interessato possa scegliere liberamente la via che preferisce, inclusa quella del processo davanti all’Autorità giudiziaria, per la soluzione del suo caso.

Infine non sembra inutile ricordare che il tentativo obbligatorio di conciliazione davanti al giudice era previsto, come adempimento per la prima udienza (nella quale infatti era espressamente prevista la comparizione personale delle parti insieme ai loro difensori), dal rito civile fino all’ultima riforma che è operativa dal 1° marzo 2006 e che ha abrogato il tentativo obbligatorio di conciliazione giudiziale (legge 80 del 14 maggio 2005), perché di fatto si riusciva a pervenire alla conciliazione solo in un numero davvero limitatissimo di ipotesi; non si vedono allora validi motivi per cui un mediatore che fa parte degli organismi di mediazione dovrebbe essere in grado di ottenere risultati migliori di quelli che per anni (non) sono stati raggiunti da giudici professionali.
 

- L’arbitrato e la conciliazione

Va ricordato che l’arbitrato e la conciliazione tradizionale sono strumenti che da sempre sono a disposizione per la definizione delle controversie che hanno per oggetto tutti i diritti disponibili (comprese le controversie condominiali) e, oltretutto, l’arbitrato - proprio nell’ottica della libertà di scelta da parte degli interessati dello strumento ritenuto preferibile oppure in virtù di uno specifico accordo preventivamente raggiunto fra le parti - è specificamente disciplinato dal codice di procedura civile, proprio in funzione complementare rispetto al giudizio ordinario.

In effetti, per quanto riguarda il ricorso alla procedura di conciliazione per la definizione delle controversie che sorgono nel settore condominiale, in passato ne era stata addirittura messa in dubbio la legittimità, sebbene non vi fossero reali motivi a tal proposito. Del resto i motivi di dubbio erano gli stessi per cui da parte di alcuni veniva contestata - a torto - anche la legittimità del ricorso all’arbitrato per la soluzione delle controversie condominiali; al contrario sia per la conciliazione sia per l’arbitrato non vi è mai stata alcuna valida ragione per negarne l’applicabilità nel settore condominiale. Prima del D.Lgs. 28/2010 nessuna norma si era occupata in modo specifico dell’arbitrato e delle altre tecniche stragiudiziali per le liti condominiali e quindi la soluzione del problema andava trovata nei principi generali vigenti sulle materie arbitrabili. La norma di riferimento è l’art. 806 cod. proc. civ. che prevede che le parti possono incaricare gli arbitri di fare decidere tutte le controversie che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge; e che le controversie disciplinate dall’art. 409 cod. proc. civ. (quelle in materia di lavoro) possono essere decise da arbitri solo se previste dalla legge o nei contratti di lavoro. Poiché le controversie condominiali si riferiscono sempre a diritti di proprietà disponibili e possono, quindi, essere oggetto di transazione, risulta che possono essere anche deferite al giudizio di un arbitro oppure, a maggior ragione, all’esame di un conciliatore.

Questi principi tradizionalmente applicati hanno trovato conferma - per quanto riguarda la conciliazione - dalla nuova normativa sulla mediazione obbligatoria prevista dal D.Lgs. 28/2010.

E proprio in applicazione degli stessi principi da tempo sono state autonomamente istituite, in varie città, le camere arbitrali immobiliari (che sono camere specializzate, vale a dire destinate a occuparsi specificamente delle controversie relative agli immobili, comprese quelle condominiali) destinate ad amministrare procedimenti sia arbitrali che conciliativi, anche su impulso dell’intervento del legislatore con la legge 580 del 29 dicembre 1993 (contenente norme sul riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) all’art. 2, comma 4, lett. a) che ha stabilito che le camere di commercio, singolarmente o in forma associata fra di loro, possono promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti; mentre con la successiva legge 481 del 14 novembre 1995 (contenente norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità e sulla istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità) ha previsto, a proposito dell’istituzione delle Autorità per i servizi di pubblica utilità, di definire - mediante l’emanazione di appositi regolamenti - i criteri, le condizioni, i termini e le modalità per l’esperimento di procedure di conciliazione o di arbitrato in contraddittorio presso le Autorità nei casi di controversie insorte tra utenti e soggetti esercenti il servizio, prevedendo i casi in cui tali procedure di conciliazione o di arbitrato possano essere rimesse in prima istanza alle commissioni arbitrali e conciliative istituite presso le camere di commercio ai sensi della legge 580/1993.
 

- Le difficoltà applicative del D.Lgs. 28/2010

A parte il fatto che, nel deprecabile caso che l’esperimento della mediazione non abbia esito positivo, si verifica comunque un ulteriore allungamento dei tempi processuali (di circa quattro mesi) che sono già dilatati ben oltre i livelli accettabili, sono proprio le caratteristiche specifiche delle questioni e della disciplina condominiale che determinano fondati dubbi sulla effettiva utilità e praticabilità della mediazione obbligatoria prevista dal D.Lgs. 28/2010.

Innanzitutto si presenta il problema dell’ambito di applicazione della disciplina; va rilevato, infatti, che l’art. 5, comma 1, si limita a indicare fra le materie che rientrano nell’ambito di applicazione del D.Lgs. 28/2010 “il condominio” e in tal modo qualunque controversia in cui sia interessato un condominio sembra essere ricompresa nella sfera di applicazione della disciplina.

Tuttavia se non vi sono particolari problemi per quanto riguarda le impugnazioni di delibera o altre ipotesi come l’azione per la formazione o per la revisione delle tabelle, è lecito chiedersi se sia ricompresa pure la causa che veda un edificio condominiale contro un fornitore (per esempio la società che si occupa della gestione della caldaia comune o della manutenzione degli ascensori) o contro l’impresa che ha eseguito lavori in appalto, dato che tali controversie sono condominiali unicamente per quanto riguarda uno dei soggetti coinvolti, ma non per la loro specifica natura. Lo stesso problema si presenta per quanto riguarda gli indennizzi richiesti in virtù della polizza globale fabbricati alla compagnia assicurativa, ma in tal caso si tratta di una causa che si basa su un contratto assicurativo (materia pure prevista dall’art. 5, comma 1) e quindi sorge comunque l’obbligo di esperire la mediazione. Ma allora come bisogna regolarsi quando un terzo non condomino subisce un danno da impianti condominiali e l’assicurazione si rifiuta di indennizzare il danno?

Bastano questi brevi rilievi per comprendere che l’ambito di applicazione della disposizione non viene individuato in maniera sufficientemente certa dalla formulazione dell’art. 5, comma 1 e che i margini di incertezza sono troppo ampi.

In secondo luogo, si presenta il problema della maggioranza necessaria affinché l’assemblea deliberi validamente di accettare la proposta conciliativa formulata dal mediatore. Una conciliazione, a meno che non termini con la totale rinuncia della controparte alle sue pretese nei confronti del condominio, comporta la necessità che l’assemblea deliberi l’accettazione della proposta conciliativa, ma per quanto riguarda questo aspetto la situazione non è così semplice come può sembrare. Infatti le cause condominiali possono riguardare le questioni più disparate e possono avere luogo fra il condominio e uno o più condomini oppure fra il condominio e un terzo (per esempio un fornitore, l’amministratore attuale oppure uno precedente, un vicino ecc.) e si deve verificare se, per poter approvare validamente la delibera che ha per oggetto la transazione della controversia, sia necessario che l’assemblea si esprima a favore in maniera totalitaria oppure sia sufficiente un voto espresso dalla sola maggioranza.

Si possono distinguere infatti due ipotesi:

1. la transazione ha per oggetto la rinunzia alle parti comuni a favore di un condomino o di un terzo; per questa situazione (sent. n. 4258 del 24 febbraio 2006) ha chiarito che, per effetto dell’art. 1108, comma 3, cod. civ. - che trova applicazione al condominio ai sensi dell’art. 1139 cod. civ. - è richiesto il consenso della totalità dei condomini in relazione agli atti di alienazione del fondo comune o di costituzione su di esso di diritti reali o per le locazioni ultranovennali; e che quindi tale consenso è necessario anche per quanto riguarda la transazione che abbia a oggetto i beni comuni, dal momento che essa può essere annoverata, in conseguenza dei suoi elementi costitutivi e soprattutto delle reciproche concessioni, fra i negozi a carattere dispositivo, non rientrando fra i poteri dell’assemblea condominiale (che decide in base al criterio delle maggioranze) autorizzare l’amministratore del condominio a concludere transazioni che abbiano a oggetto diritti comuni, perché in tal caso la transazione deve essere accettata da tutti i condomini senza esclusioni (Cass., sent. n. 10175 del 14 ottobre 1998; Trib. Napoli, 19 novembre 1994);

2. la transazione non comporta la rinunzia a parti comuni, ma soltanto rinunzie da parte del condominio a pretese economiche (come può avvenire per quanto riguarda un riparto di spese condominiali oppure il pagamento di prestazioni eseguite dai fornitori oppure la definizione dei rapporti di dare/avere col precedente amministratore che ha chiuso il conteggio delle sue attività e delle disponibilità di cassa nel momento in cui è cessato l’incarico o altre ipotesi simili). In questo caso, nella prassi, si considera valida la transazione approvata dall’assemblea mediante le maggioranze ordinarie, dato che si ritiene sufficiente la maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 4 (che rinvia al comma 2), cod. civ., per quanto riguarda le deliberazioni che concernono le liti attive o passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore.

Ma questo principio può essere condiviso soltanto nei casi in cui non vi è ancora una controversia formale in corso e quindi, a rigore (anche se possono sembrare sfumature), non è neppure corretto parlare di una vera e propria transazione; tuttavia (a parte gli effetti incongrui della distinzione che si sono appena visti), qualora abbia luogo il procedimento di mediazione ai sensi del D.Lgs. 28/2010 (che è diventato, per espressa previsione di legge, condizione di procedibilità della domanda giudiziale), si presenterebbe come una vera e propria mistificazione, basata su aspetti puramente formali, la pretesa di sostenere che non vi sia ancora una controversia in senso tecnico e che così si possano eludere i principi sulla unanimità per deliberare la transazione. In altre parole, proprio per effetto dell’entrata in vigore della disciplina sulla mediazione obbligatoria prevista dal D.Lgs. 28/2010 non sembra più corretto distinguere, come si poteva fare invece prima, il caso della mediazione esperita nell’ambito di un procedimento civile (la cui proposta conciliativa esige l’unanimità dei consensi dei condomini) dal caso della mediazione che si svolge prima ancora che cominci una causa civile; questa distinzione sarebbe tuttora valida (con conseguente ammissibilità dell’eventuale voto a maggioranza, a seconda del tipo di delibera da approvare, nel secondo caso) soltanto se la mediazione fosse ancora facoltativa come lo era in passato la conciliazione tradizionale.

In terzo luogo - e questo è l’aspetto ancora più critico della questione - nelle controversie condominiali una parte delle due (o più parti) coinvolte è l’amministratore che segue la questione come parte in senso formale, pur non essendolo in senso sostanziale. Dal momento che però i procedimenti conciliativi presuppongono che a essi partecipino proprio le parti direttamente interessate alla questione (in modo che il mediatore riesca a individuare la proposta conciliativa più idonea al caso concreto), l’amministratore condominiale può partecipare utilmente alle riunioni col mediatore solo per riferire le esigenze del condominio che sottendono alla controversia, per prendere conoscenza della proposta conciliativa e poi per riferire quest’ultima all’assemblea (unica deputata a decidere).

Ma la partecipazione dell’amministratore al procedimento conciliativo non determina soltanto l’assenza, in quella sede, dei condomini (che sono gli effettivi interessati all’evoluzione della controversia in quanto diretti titolari dei diritti oggetto del contenzioso); infatti l’elaborazione della migliore proposta conciliativa possibile non solo presuppone, da parte del mediatore, la valutazione dei diritti sostanziali delle parti e quindi della meritevolezza di tutela di tali diritti (questa è l’attività tipica del giudice o dell’arbitro), ma presuppone anche che il conciliatore aiuti le parti a capire quale sia la soluzione più proficua a soddisfare i loro interessi, a prescindere da chi abbia ragione e chi abbia torto, e non è certo molto facile per l’amministratore farsi portavoce dei condomini in un procedimento simile.
 

Aspetti critici della mediazione in generale

Conviene ricordare che il legislatore del D.Lgs. 28/2010 ha elaborato uno speciale meccanismo di regolamentazione delle spese di causa per spingere le parti a essere disponibili verso la soluzione concordata della controversia e quindi per evitare il ricorso al giudice dello Stato.

Ma il procedimento di mediazione obbligatoria, al di là delle sue conseguenze economiche, può risultare proficuo soltanto se le parti sono in buona fede, perché neppure il mediatore migliore è in grado di convincere a conciliare chi, nella consapevolezza di avere torto, fa comunque conto proprio sui tempi lunghi del giudizio civile nei suoi successivi gradi per rimandare il più possibile nel tempo il momento della condanna; così la mera aspettativa di essere condannato a pagare le spese del giudizio secondo la previsione del D.Lgs. 28/2010 non può certo costituire un effettivo deterrente per chi sa che la condanna a cui è destinato sarà emanata molto più avanti nel tempo (e magari in una situazione in cui non potrà essere neppure eseguita).

Fino a quando non sarà possibile garantire una durata accettabile del processo civile (che nella media non dovrebbe mai superare i dodici mesi) ogni meccanismo di mediazione obbligatoria come quella disciplinata dal D.Lgs. 28/2010 è destinato inesorabilmente a fallire.

Fatta questa premessa essenziale, i principali aspetti critici della disciplina della mediazione obbligatoria possono essere riassunti sinteticamente come segue:

- innanzitutto l’ambito di applicazione della disciplina non è sufficientemente delineato e lascia spazio a molti dubbi (oltre a quelli già indicati per quanto riguarda l’individuazione delle controversie condominiali), pur senza considerare che per alcuni dei settori previsti (per esempio quello dei contratti bancari) erano già previsti meccanismi facoltativi di conciliazione;

- non vi è alcun coordinamento con le disposizioni che in precedenza hanno introdotto nell’ordinamento e disciplinato altri istituti conciliativi;

- quanto alla durata, l’art. 6 si limita a prevedere che il procedimento di mediazione non può superare i quattro mesi, mentre il precedente art. 5, comma 6, stabilisce che dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e che, dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce pure la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale previsto dal successivo art. 11 presso la segreteria dell’organismo; tuttavia nulla si dispone per il caso in cui il mediatore resti inerte;

- nulla si prevede per quanto riguarda la sede del procedimento di mediazione con la conseguenza che, mancando una disposizione sulla competenza territoriale, le parti sono libere di rivolgersi all’organismo che preferiscono senza alcun vincolo territoriale; e così, se le parti si trovano in sedi locali diverse, chi presenta la domanda di mediazione per prima vincola la controparte, in ipotesi anche obbligandola a sostenere elevati costi di spostamento;

- per quanto riguarda l’esecutività del verbale di conciliazione non è previsto, a favore di esso, direttamente il valore di titolo esecutivo, ma deve essere richiesta l’omologazione del Presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo (art. 12, comma 1);

- la mediazione trova applicazione anche per materie di particolare complessità, nelle quali sono necessarie competenze giuridiche notevoli, come avviene per le successioni ereditarie, oppure per materie che richiedono elaborate valutazioni per quanto riguarda l’accertamento dei fatti, come avviene per la responsabilità medica;

- non vi è alcuna disposizione dedicata a situazioni che sono frequentissime nei processi, come quelle delle domande riconvenzionali, della pluralità di parti interessate al giudizio, della chiamata di terzi (per esempio per fornire la garanzia) e del litisconsorzio necessario.
 

La disciplina della mediazione

Il D.Lgs. 28/2010 adopera il termine “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” (invece di quello tradizionale nel diritto processuale italiano di conciliazione) richiamando la “mediation” del diritto di common law.

Il D.M. 180 del 18 ottobre 2010 (in G.U. 258 del 4 novembre 2010), contiene il “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi”.

Infatti contrariamente a quanto vi era da aspettarsi, tenuto conto della finalità di deflazionare il contenzioso giudiziario e soprattutto in base al modello delle precedenti disposizioni che nel recente passato avevano introdotto analoghe ipotesi conciliative (non obbligatorie però) per specifiche materie, la procedura di mediazione obbligatoria non è gratuita, ma l’art. 16, comma 2, del D.Lgs. 28/2010 prevede il pagamento di una indennità al mediatore che viene determinata sulla base di una tabella ministeriale (ora indicata nell’allegato A richiamato dall’art. 16, comma 4, del D.M. 180/2010). Al costo di tale indennità si deve talvolta aggiungere il compenso per i mediatori ausiliari (art. 8, comma 1) o per i consulenti (art. 8, comma 4).

L’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 stabilisce che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, di diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione secondo la disciplina prevista dal D.Lgs. 28/2010 oppure il procedimento di conciliazione previsto dal D.Lgs. 179 dell’8 ottobre 2007 o il procedimento istituito in attuazione dell’art. 128-bis del T.U. leggi in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 385 del 1° settembre 1993), per le materie da essi regolate; che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza della causa giudiziale e che il giudice, qualora rilevi che la mediazione è già iniziata senza essere ancora conclusa, deve fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine di quattro mesi previsto dall’art. 6, provvedendo allo stesso modo quando la mediazione non è stata esperita, con l’assegnazione contestuale alle parti del termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

Il giudice, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare le stesse a procedere alla mediazione anche nel giudizio di appello.

La mediazione non deve essere esperita nei seguenti casi:

a. nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;

b. nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito;

c. nei procedimenti possessori;

d. nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;

e. nei procedimenti in camera di consiglio;

f. nell’azione civile esercitata nel processo penale.

Il procedimento di mediazione non può durare più di quattro mesi (art. 6).

L’art. 11 prevede che se viene raggiunto un accordo amichevole, il mediatore deve formare processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo; nel caso in cui invece l’accordo non sia raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione che le parti possono accettare o rifiutare per iscritto entro sette giorni. Se viene raggiunto l’accordo amichevole oppure se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale; se invece la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta.

Il verbale di accordo deve essere omologato, su istanza di parte, con decreto del Presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo e costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12).

L’aspetto caratterizzante della disciplina sulla mediazione obbligatoria è costituito dal fatto che, ai sensi dell’art. 13, quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice deve escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, per quanto riguarda il periodo successivo alla formulazione della stessa, e deve condannarla al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo oltre che al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. In sostanza la legge sanziona, per quanto riguarda la regolamentazione delle spese del giudizio, la parte che non ha voluto accettare la proposta del mediatore quanto il provvedimento emesso dal giudice ha lo stesso contenuto della proposta conciliativa; e in tal modo vengono - almeno secondo lo scopo della legge - scoraggiati i più litigiosi. E’ invece espressamente riconosciuto un credito di imposta per le parti che corrispondono l’indennità al mediatore.

 

Articolo a cura di Ettore Ditta, Avvocato



 

Tratto dalla rivista "Consulente Immobiliare", Il Sole 24 Ore 


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FONTE WEB:

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