Il fattoDegli investitori (persone fisiche), volendo finanziare delle imprese tramite un portale di equity crowdfunding strutturato con valuta virtuale, si rivolgevano alla società collegata al sito che forniva il necessario servizio di cambio da valuta tradizionale (Euro) a valuta virtuale (Bit Coin).  Effettuato il pagamento in valuta tradizionale agli investitori non veniva, tuttavia, mai reso operativo il c.d. wallet in Bit Coin.
Veniva, pertanto, instaurato il giudizio.
Le definizioniInnanzitutto, attesa la particolarità della tematica, è utile fornire alcune indicazioni terminologiche:
- crowdfunding: è un processo con cui start up e imprese possono accedere a finanziamenti erogati direttamente da una pluralità di persone attraverso piattaforme online.
La prassi conosce diverse tipologie di crowdfunding (equity crowdfunding prestiti peer-to-peer, rewards crowdfunding, condivisione dei proventi). Il caso portato all’attenzione del Tribunale veronese aveva ad oggetto un equity crowdfunding che si caratterizza per la vendita di azioni dell’impresa finanziata ai diversi investitori in cambio del loro investimento.
 -valute virtuali: come chiarito dalla Banca d’Italia “sono rappresentazioni digitali di valore non emesse da una banca centrale o da un’autorità pubblica. Esse non sono necessariamente collegate a una valuta avente corso legale, ma sono utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento e possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Non sono moneta legale e non devono essere confuse con la moneta elettronica”. Ad oggi la valuta virtuale più diffusa è rappresentata dai c.d. Bit Coin.
 
I termini della questione
Gli attori citavano, avanti il Tribunale, la società di cambio da valuta tradizionale a virtuale (che, peraltro, risultava essere collegata al portale di crowdfunding). Invocavano, in particolare, la violazione della disciplina del Codice del Consumo ex artt. 67 bis ss (commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori). Eccepivano la contrattazione a distanza, l’inesistenza di contratti redatti in forma scritta e di informativa, concludendo per la restituzione ex art. 2033 c.c. delle somme versate in valuta tradizionale.
La convenuta resisteva inquadrando le operazioni contestate nell’ambito dell’equity crowdfunding   sottolineando la rituale iscrizione del portale nel registro ex art. 50 quiquies TUF. Sosteneva che nessun investimento finanziario fosse ravvisabile nell’operazione effettuata e che, in ogni caso, non sarebbe stato necessario fornire alcuna ulteriore informativa agli attori rispetto a quella già asseritamente fornita loro dal portale di crowdfunding al momento dell’iscrizione al sito.  
La soluzione adottata dal GiudiceInnanzitutto, il Giudice, all’esito dell’istruttoria svolta, riteneva provato che la convenuta (quale “sostanziale promotore finanziario del sito di crowdfunding”) avesse ceduto agli attori, persone fisiche e consumatori, al fine di profitto di impresa, la moneta virtuale in cambio di valuta reale mediante contrattazione a distanza ed in assenza di informativa. Appurava inoltre la non operatività del wallet in Bit Coin.
 
Ciò precisato, il Giudicante - nell’accogliere le domande degli attori -  prendeva le mosse dall’unico approdo normativo sul punto allo stato disponibile nel nostro ordinamento: la risoluzione n. 72/E Agenzia delle Entrate che a sua volta si muove nel solco di quanto statuito dalla Corte di Giustizia Europea (Causa C-264/14).
In questi precedenti, le operazioni di cambio di valuta tradizionale con valuta virtuale (e viceversa) a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza fra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, venivano qualificate come prestazioni di servizio a titolo oneroso sub specie di “intermediazioni nell’acquisto e vendita di Bit Coin”.
Il Giudice sottolineava, quindi, che trattandosi di servizi finanziari conclusi a distanza nei confronti di un consumatore, come sostenuto da parte attrice, fosse applicabile la disciplina ex artt. 67 bis ss. (commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori).
In forza di questa normativa il consumatore/investitore ha diritto:
-di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore (qui società di cambio legata da un contratto di partenariato con il portale di crowdfunding);
-di essere informato, “in modo chiaro e comprensibile con qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanzaprima che lo stesso sia vincolato da un contratto a distanza o da un’offerta”:
  1. dell’identità, anche di stabilimento geografico, del fornitore e del suo rappresentante;
  2. dell’identità del professionista (qui società convenuta) e la veste in cui agisce nei confronti del consumatore;
  3. dell’avvenuta iscrizione del fornitore in un registro commerciale o analogo pubblico registro, come pure dell’assoggettamento e gli eventuali estremi dell’autorizzazione amministrativa necessaria per le attività svolte;
  4. delle principali caratteristiche del servizio finanziario offertogli;
  5. del meccanismo di formazione del prezzo in senso lato;
  6. del“rapporto con strumenti che implicano particolari rischi dovuti a loro specifiche caratteristiche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non costituiscono elementi indicativi riguardo ai risultati futuri, oltre che sull’esistenza di collegamenti o connessioni con altri servizi finanziari, con l’ illustrazione degli eventuali effetti complessivi derivanti dalla combinazione” (si ha qui riguardo al contratto di cambio di valuta reale con moneta virtuale nella quale va ravvisata una prima operazione in strumenti finanziari);
  7. dei rimedi che gli sono attribuiti dall’ordinamento;
  8. dello “Stato membro o gli Stati membri sulla cui legislazione il fornitore si basa per instaurare rapporti con il consumatore prima della conclusione del contratto a distanza”.
Infine, il Tribunale chiariva che tale tutela per il consumatore/investitore dovesse essere effettiva e, pertanto che, qualora tali prescrizioni non fossero state scrupolosamente adempiute dal portale di crowdfunding, destinataria degli obblighi sarebbe stata proprio la società di cambio. Rilevava allora che nessuna di queste tutele avessero trovato applicazione sottolineando, in particolare, il difetto di informativa precontrattuale tale ad alterare in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche dell’investimento.
Il Giudice, in conclusione, rilevava, ex art. 67 septiesdecies Codice del Consumo, la nullità del contratto di cambio e condannava la società a restituire quanto ricevuto dagli investitori.
 
La tutela alternativa ipotizzata dal Giudice
Infine, è interessante notare come il Giudicante, ancorché solo in nota, ipotizzi di poter percorrere una differente (e forse più semplice) strada argomentativa, che, lo si anticipa, conduce alla medesima condanna restitutoria citata. Specificava di non poterla sviluppare compiutamente unicamente perché “preferi[va] nel rispetto dei principi sottesi all’art.101 c.p.c., restare saldamente legato al tema consumeristico in quanto maggiormente aderente a quello principalmente dibattuto in causa”.
La prospettiva da cui muove è offerta dalla clausola di salvezza dell’art. 67 bis del Codice del Consumo (“fatte salve, ove non espressamente derogate, le disposizioni in materia bancaria, finanziaria, assicurativa, dei sistemi di pagamento e di previdenza individuale, nonché le competenze delle autorità di settore”). Il Giudice, analizzata la normativa finanziaria, affermava plausibile riconoscere nel caso in esame l’“offerta al pubblico di prodotti finanziari” descritta dall’art.1, lett. t) e u), d.lvo n. 58/1998, ovvero i “servizi e attività di investimento” in “valori mobiliari” ex art.1 bis, comma primo, lett. c) e d), nonché comma quinto, lett. a), d.lvo n.58/1998, avendosi riguardo a negoziazione per conto proprio di “qualsiasi altro titolo normalmente negoziato che permette di acquistare o di vendere i valori mobiliari indicati alle precedenti lettere” (ossia azioni e altri titoli equivalenti di società etc.) ovvero, ed è qui il punto nodale, di “qualsiasi altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento ai valori mobiliari indicati alle precedenti lettere, a valute, a tassi di interesse, a rendimenti, a merci, a indici o a misure”, e quindi anche alla prospettata facoltà di successiva conversione dei Bit Coin in valuta reale.
Ebbene, constatata l’assenza di qualsivoglia contratto redatto in forma scritta, per ciò solo, affermava il Giudice, si sarebbe potuto rilevare la nullità delle operazioni tra le parti ai sensi dell’art. 23 TUF, da cui l’obbligo per la società di cambio di restituire il capitale in Euro investito dagli attori.