Il C.C.N.L. autonomie locali del 31.03.1999 (nuovo ordinamento professionale), ha dettato le regole per l'istituzione dell'area delle posizioni organizzative ed ha previsto che negli enti privi di dirigenza (piccoli Comuni) essa coincide con le strutture organizzative apicali: resta, in ogni caso  ferma l'autonomia organizzativa dell'ente circa la decisione di istituire l'area delle posizioni organizzative.

Rientrano nell'area delle posizioni organizzative, secondo l'art. 8 del C.C.N.L. 31.03.1999, quelle posizioni che richiedono l'assunzione di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, quali la direzione di unità organizzative di particolare complessità o lo svolgimento di attività ad alto contenuto professionale, correlate con il conseguimento di laurea, specializzazione o iscrizione ad albi professionali o le attività di staff e/o studio ricerca, ispettive, di vigilanza e di controllo, caratterizzate da elevata autonomia ed esperienza.

Gli incarichi de quibus vengono conferiti dai dirigenti o, nei Comuni di piccole dimensioni in cui non è prevista la figura dirigenziale dal Sindaco, e nel comparto enti locali esclusivamente al personale della categoria D "con atto scritto e motivato" (art. 8 CNNL 1999), tenuto conto "della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale e esperienza acquisiti dal personale".

L'A.N.C.I. (con parere del 26.01.2006) ha precisato, in proposito, che se presso l'ente sono presenti in dotazione organica profili di accesso D3 (vecchia ottava qualifica funzionale), l'assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative deve prioritariamente spettare al personale inquadrato in posizione D3, sul presupposto che tale inquadramento risulti superiore a quello in D1(vecchia settima qualifica funzionale).

Al titolare di una posizione organizzativa è corrisposto un trattamento economico accessorio costituito per una parte, più consistente, dalla retribuzione di posizione (da un minimo di euro 5.164,57 ad un massimo di euro 12.911,42 annui lordi per tredici mensilità) e per un'altra parte dalla retribuzione di risultato (stabilita in percentuale di quella di posizione variabile da un minimo del 10% ad un massimo del 25% della medesima): la retribuzione di posizione presuppone che le amministrazioni abbiano definito preventivamente il valore economico di ciascuna posizione istituita entro i limiti minimo e massimo stabiliti dal contratto, mentre la retribuzione di risultato è in dipendenza della valutazione positiva dei risultati dell'attività svolta ed è quindi eventuale e corrisposta annualmente a consuntivo.

Le posizioni organizzative costituiscono, infatti, uno strumento volto a potenziare, nel sistema di classificazione del personale non dirigenziale, un modello organizzativo flessibile teso al recupero della meritocrazia ed orientato al decentramento delle attività e al conseguimento dei risultati. Con l’ovvia conseguenza che il mancato rispetto del principio della meritocrazia in subiecta materia mina il grado motivazionale dei singoli individui e dell’intera organizzazione, sviluppando una cultura non aziendale; la finalità delle posizioni organizzative è, infatti, proprio quella di far emergere la peculiarità di determinate posizioni di lavoro.

Per espressa previsione, le funzioni per le quali è possibile attribuire gli incarichi di posizione organizzativa presuppongono una grande competenza e preparazione professionale, un elevato grado di conoscenza nonché lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione. Ciò in quanto con le posizioni organizzative si è tentato di rafforzare, nel sistema di organizzazione e gestione delle risorse umane, la cultura del lavoro per obbiettivi e progetti.

Come anzi esposto la decisione di istituire l'area delle posizioni organizzative viene demandata all'autonomia organizzativa dell'ente.

La Giurisprudenza ha, tuttavia, chiarito che in ogni caso la discrezionalità di cui si avvale in subiecta materia la P.A. non può essere, di certo, il mezzo per vanificare o contraddire la normativa di settore.

Conseguentemente in ipotesi di applicazione scorretta e parziale del processo di conferimento delle posizioni organizzative sono stati individuati in Giurisprudenza profili risarcitori conseguenti alla mancata assegnazione della posizione organizzativa.

Tali danni vanno senz’altro individuati nella misura  del 100% della retribuzione di posizione e di risultato  secondo la c.d. pesatura individuata dall’Amm.ne comunale con le inevitabili refluenze sul trattamento pensionistico.

Secondo i ben noti principi della Suprema Corte il risarcimento del danno dovrà, comunque, indennizzare integralmente il lavoratore.

L’Amm.ne resistente andrà, peraltro, condannata al risarcimento del danno non patrimoniale comprensivo di tutti i pregiudizi (biologico, morale ed esistenziale) subiti a seguito del mancato conferimento della posizione organizzativa illegittimamente attribuita ad altro dipendente.

E’ evidente come il mancato conferimento della posizione organizzativa possa determinare un concreto cambiamento in senso peggiorativo della qualità della vita del lavoratore coinvolgendo inevitabilmente tutti gli aspetti della quotidianità, privandolo di occasioni per la realizzazione della personalità.

L’attività lavorativa può diventare, infatti, per il lavoratore pretermesso da fonte di gratificazione a fonte di mortificazione e frustrazione; il dipendente viene a subire un importante retrocessione nella scala gerarchica dell’ambiente lavorativo con rimarchevole diminuzione del prestigio nella comunità di lavoro e più genericamente nel contesto sociale in cui vive.

E’ evidente, infatti come nell’ambiente lavorativo e anche in genere fuori dall’ambiente lavorativo la mancata assegnazione delle posizioni organizzative possa essere percepita come inidoneità e incapacità dello stesso di occuparsi, in posizione organizzativa, di tali incarichi lavorativi.

Per giurisprudenza pacifica il danno non patrimoniale alla c.d libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro e/o alla professionalità  del lavoratore va liquidato sulla base della retribuzione del lavoratore per un somma pari ad una mensilità lorda di retribuzione per ciascun mese di mancata attribuzione della posizione organizzativa (cfr. in termini Cass. 5/10/2006 n. 21406; Trib. Varese 31.5.2006).

Ai fini risarcitori andrà, inoltre, considerata la frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale.

E’ evidente, infatti, che per le future successive assegnazioni di posizioni organizzative od eventuali ulteriori progressioni nell’ambito della medesima P.A. di appartenenza, il dipendente si vedrà penalizzato dalla mancata assegnazione.

Come chiarito da costante e pacifica  Giurisprudenza, (cfr. da ult. Consiglio di Stato, sez. VI, 19 aprile 2011, 2427), il danno da perdita di chance viene in rilievo nell’ambito dei procedimenti caratterizzati dalla partecipazione di più soggetti interessati ad ottenere il medesimo risultato, come nei concorsi pubblici o nelle gare d’appalto, in cui risulta particolarmente gravoso per il soggetto escluso dalla procedura selettiva dimostrare che, ove l’Amministrazione si fosse comportata legittimamente, egli avrebbe ottenuto il bene a cui aspirava.

L’elaborazione giurisprudenziale del danno da perdita di chance è, dunque, finalizzata ad evitare all’eventuale ricorrente oneri probatori particolarmente onerosi sotto il profilo del collegamento eziologico, ossia della dimostrazione del nesso causale tra il comportamento illegittimo della P.A. e il danno subito, nell’ipotesi in cui il dipendente intenda contestare in giudizio la determinazione amministrativa di estrometterlo dalla selezione pubblica o di non aggiudicargli il bene finale cui la medesima era diretta. La chance, infatti, è da intendersi come “consistente possibilità di successo” e la risarcibilità della perdita di chance presuppone, secondo unanime giurisprudenza, l’indimostrabilità della futura realizzazione della medesima.

Da tutta la situazione come anzi descritta notevole è, pertanto, l’ansia, la sofferenza, la reazione emotiva che sono derivati al dipendente pretermesso al quale compete, altresì, il danno morale che, alla luce del recente orientamento giurisprudenziale (costituito da Cassazione nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e da Corte Costituzionale n. 233/2003), nell’attuale sistema normativo caratterizzato da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., prescinde dalla sussistenza di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente ricollegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti (Trib. Bergamo 20/6/2005, Giud. Bertoncini, in Lav. e prev. oggi 2005, 1826).

Orbene, secondo la richiamata giurisprudenza della Suprema Corte, la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. n. 8827/2003).