La disciplina vigente in materia di contratti di affitto di fondi agricoli è frutto di una lenta evoluzione iniziata nel primo dopoguerra.

Subito dopo il termine del secondo conflitto mondiale tornavano alla ribalta rivendicazioni che richiedevano l’introduzione in una nuova legge di principi che assicurassero al lavoro agricolo stabilità sull’azienda ed una equa remunerazione del lavoro nell’impresa.

In un primo tempo i primi governi repubblicani emanarono una serie di leggi annuali e provvisorie nelle quali, comunque, emergevano principi che sarebbero stati recepiti nelle legislazione definitiva.

In particolare iniziarono a consolidarsi i principi della stabilità dei contratti di affitto agrari, una diversa ripartizione dei prodotti nei rapporti associativi come la mezzadria a favore dei coltivatori e una determinazione legislativa del canone nei contratti di affitto di fondi rustici.

Con la legge 12 giugno 1962 n°567 l’istituto dell’equo canone diventava elemento definitivo dell’ordinamento giuridico italiano nell’ambito del contratto di affitto agricolo.

Come è ovvio questa legge, che toccava importanti interessi della parte proprietaria, fu oggetto di numerosissime censure ed interventi giurisdizionali, sia in relazione a pretese illegittimità di talune tabelle di equo canone, sia in relazione a questioni di legittimità costituzionale che, tuttavia, la Corte Costituzionale dichiarò infondate.

Il legislatore intervenne nuovamente con la legge 11 febbraio 1971 n°11 che rese obbligatoria la corresponsione del canone di affitto in denaro con riferimento al reddito dominicale dei fondi oggetto del contratto e conseguente calcolo automatico del canone; la stessa legge introduceva coefficienti di moltiplicazione dei redditi dominicali che avrebbero dovuto, nell’intenzione del legislatore, consentire l’aggiornamento della rendita fondiaria a favore dei proprietari di fondi rustici.

Altro elemento caratterizzante della legislazione del 1971 era quello concernente la disciplina del potere imprenditoriale e del regime dei miglioramenti fondiari.

Il percorso della legge si dimostrò subito assai accidentato e la legge venne impugnata nuovamente per incostituzionalità; per ovviare ad eventuali pronunce della Corte il Parlamento emanò una legge correttiva nel 1973 contenente modifiche alla normativa del 1971.

La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi su entrambe le disposizioni, interveniva con la sentenza 153 del 1977; la decisione dichiarava infondate le questioni di legittimità relative al potere dell’affittuario di effettuare miglioramenti, previo, peraltro, provvedimento autorizzativo da parte dell’Ispettorato agrario o da organo corrispondente. Per quanto concerne il meccanismo di calcolo dei canoni di affitto la Suprema Corte sanzionava parzialmente di illegittimità alcuni criteri.

In una situazione normativa di tale tipo, con una conflittualità assai elevata tra proprietari e conduttori, da più parti si sentiva l’esigenza di un intervento normativo definitivo che concludesse definitivamente la travagliata vicenda della riforma dei contratti agrari e portasse la cessazione del regime della proroga legale dei contratti di affitto.

La legge n°203 del 3 maggio 1982, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 5 maggio 1982, ha definito, quindi, in maniera organica tutta la legislazione riguardante i contratti agrari, prendendo atto della necessità di superare il regime di proroga legale dei rapporti di affitto.

La vigente legislazione tende a privilegiare come rapporto base nell’ambito dei rapporti agrari il contratto di affitto a scapito di altri istituti normativi, quali il contratto di mezzadria, ancora molto diffuso nel primo dopoguerra.

La normativa ha infatti vietato la stipula di nuovi contratti di mezzadria e ha stabilizzato i rapporti in essere attraverso la loro conversione in contratti di affitto agrari.

La legge, all’art.40, ha sancito espressamente la cessazione del regime di proroga legale ed è intervenuta con l’articolo 1 sancendo la durata minima dei contratti di affitto di fondi rustici a coltivatori diretti in 15 anni,; uguale durata è prevista dall’art.22 per l’affitto a conduttore non coltivatore diretto.

Una durata inferiore, differenziata nella scadenza, è prevista dall’art.2 della legge 203/1982 per i contratti di affitto in corso alla sua entrata in vigore o in regime di proroga.

Gli ultimi contratti con tali scadenze sono terminati alla data dell’11 novembre 1997.

La legge ha anche individuato un altro tipo di contratti, detti contratti di affitto particellare, all’articolo 3, per i quali la durata contrattuale è ridotta a sei anni.

Si tratta di realtà economicamente poco rilevanti riferite ad appezzamenti di terreno non costituenti una unità produttiva efficiente e quindi di dimensioni assai limitate.

La legislazione, tuttora vigente, ha sostanzialmente affermato la tendenza, già sviluppatasi nella normazione antecedente, a stabilire una durata del rapporto di affitto sufficiente per impostare una razionale utilizzazione del fondo e garantire, allo stesso tempo, una stabilità di impresa.

Sono state tenute in debito conto le esigenze sociali della continuità del rapporto di affitto, tutelandosi non soltanto le necessità organizzative dell’impresa, ma anche quelle del lavoro secondo la previsione costituzionale dell’art.35.

La stessa legge, peraltro, ha fatto salva la possibilità di stipulare accordi in deroga secondo quanto previsto dall’art. 45 della medesima legge e ciò al fine di tutelare esigenze di tipo diverso da quelle prima ricordate; l’esperienza degli anni successivi all’entrata in vigore della legge ha dimostrato come questa possibilità abbia fatto amplissima breccia nel regime dei contratti di affitto agrari e quella che doveva essere una eccezione alla regola sia divenuta, in realtà, la tipica regolamentazione dei contratti di affitto agrari.