DECADENZE E PRESCRIZIONI NEL CONTRATTO DI AGENZIA
LA DISCIPLINA CONTENUTA NEGLI AEC ED IL CONTRASTO CON L’ART. 1751 C.C. 
a cura dell' avv. Enrica Caon dello Studio Vis- Legis
 
Per non incorrere in decadenza e prescrizione, l’agente che voglia richiedere l’indennità di fine rapporto dovrà fare valere il proprio diritto alla percezione dell’indennità entro un anno dallo scioglimento del rapporto (intendendosi per tale il momento di cessazione effettiva dello stesso, scaduto anche l’eventuale termine di preavviso) mediante l’invio di una comunicazione scritta al preponente – a mezzo raccomanda o pec – specificatamente determinata.
Ai sensi dell’art. 2948, c. 5, c.c., dalla data di invio di tale comunicazione, l’agente avrà tempo cinque anni per far valere in giudizio le proprie pretese senza incorrere in prescrizione.
 
LA DISCIPLINA CONTENUTA NEGLI AEC ED IL CONTRASTO CON L’ART. 1751 C.C. 
Gli Accordi Economici Collettivi (A.E.C.) configurano fonti integrative del contratto di agenzia ed operano soltanto laddove siano contemplati nel contratto individuale o da questo richiamate.
Per quanto concerne l’indennità di fine rapporto, gli AEC prevedono un’indennità completamente diversa, nei presupposti e nelle modalità di calcolo, da quella sopra analizzata e prevista dall’art. 1751 c.c.
Per le norme collettive, infatti, rilevano solo le provvigioni percepite dall’agente nel corso del rapporto e la sua durata: i vantaggi che il preponente riceverà nel periodo successivo alla cessazione del rapporto – che costituiscono uno dei presupposti dell’art. 1751 – sono invece del tutto irrilevanti.
L’AEC Industria del 30 luglio 2014 prevede all’art. 10 un’indennità distinta in tre voci:
  • Indennità di risoluzione del rapporto (F.I.R.R.), riconosciuta all’agente «anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro di affari»;
  • Indennità suppletiva di clientela, riconosciuta all’agente «in assenza di un incremento della clientela e/o del giro d’affari» ed è connessa esclusivamente all’ammontare delle provvigioni percepite nel corso del rapporto;
  • Indennità meritocratica, inserita nell’attuale testo dell’AEC e collegata all’incremento della clientela e/o del giro di affari e ai vantaggi in capo al preponente dopo la cessazione del rapporto e determinata sulla base di un sistema di calcolo definito ai sensi del successivo art. 11 che peraltro tiene ancora conto dell’ammontare delle provvigioni e della durata del contratto.
Medesimo impianto, con minime varianti, ha l’AEC Commercio del 16 febbraio 2009.
 
LA VALIDITÀ DEGLI AEC SECONDO LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA
A causa dell’evidente contrasto normativo esistente tra la legislazione collettiva (AEC) e l’art. 1751 c.c. (recepito dalla normativa Europea innanzi richiamata), la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 23 marzo 2006 C-465/04 Honyvem c. De Zotti ha ritenuto invalide le clausole dell’AEC relative alle indennità, poiché incompatibili con il sistema previsto dalla Direttiva.
 
Per giungere a tale conclusione, la Corte di Giustizia ha osservato, in primo luogo, che il sistema dell’indennità, contenuto negli artt. 17-19 della Direttiva, ha carattere imperativo e le eventuali deroghe vanno interpretate in senso restrittivo, secondo quanto affermato più volte dalla giurisprudenza comunitaria.
Sulla base di tali premesse e posto che il regime indennitario istituito dalla Direttiva può essere derogato solo a condizione che la deroga sia migliorativa per l’agente e sia pattuita «prima della scadenza del contratto», la Corte di Giustizia ha affermato che la valutazione della natura (in melius o in pejus) della predetta deroga debba essere effettuata ex ante, ossia al momento della sottoscrizione del contratto e non dopo la cessazione del rapporto.
In altri termini, la deroga può essere ammessa solo se, nel contratto sottoscritto tra le parti risulti, con certezza, che, alla cessazione del contratto, l’agente percepisca un’indennità pari o superiore al massimo previsto.
Alla luce di tali principi, la Corte di Giustizia conclude che, non rientrando gli AEC nella predetta ipotesi, non possono validamente derogare il sistema imperativo previsto dalla Direttiva e, sono quindi nulli per violazione di una norma inderogabile di legge.
Difatti, precisa la Corte, che il solo fatto che gli AEC garantiscano un’indennità anche qualora l’agente non ne abbia diritto in base ai criteri della Direttiva, non può condurre alla conclusione che essi costituiscano una deroga in melius del sistema indennitario previsto dalla Direttiva.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Giustizia conclude affermando che «l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, della direttiva non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata secondo criteri diversi da quelli fissati da quest’ultima disposizione a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione».
Con tale sentenza, dunque, la Corte di Giustizia ha fissato i seguenti principi necessari per interpretare ed applicare l’art. 1751 c.c.:
  • la disciplina indennitaria prevista dall’art. 1751 c.c., così come quella dell’art. 17 della Direttiva, ha natura meritocratica;
  • la disciplina indennitaria prevista dalla Direttiva ha carattere imperativo, così come le norme nazionali che vi danno attuazione;
  • la deroga a tale disciplina può essere ammessa solo se sia possibile verificare ex ante che essa risulti più favorevole all’agente, alla cessazione del contratto;
  • gli accordi economici collettivi del 1992 (ma lo stesso principio può estendersi anche agli AEC attualmente in vigore) non possono derogare il sistema indennitario previsto dalla Direttiva, e quindi dall’art. 1751 c.c., in quanto prevedono dei criteri diversi da quelli fissati dalla Direttiva e non costituiscono, in base ad una valutazione ex ante, una deroga in melius per l’agente.
  • Le norme degli AEC relative all’indennità sono nulle per contrasto con una norma imperativa ex art. 1418 e devono intendersi sostituite di diritto ex art. 1419, comma 2, dalla norma legale imperativa.
Per le stesse ragioni, anche il sistema di calcolo dell’indennità fissato dalla direttiva non può essere derogato dagli Stati membri; l’unica possibilità di deroga accordata agli Stati dalla Corte di Giustizia è inerente il criterio dell’equità sul quale, secondo quanto precisato dalla Corte nei rilievi conclusivi della pronuncia in commento “gli Stati membri godono di un potere discrezionale che essi sono liberi di esercitare”.
 
L’ORIENTAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE SUCCESSIVO ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL 2006
Contrariamente al chiaro insegnamento della Corte di Giustizia che impone che il confronto per determinare la maggiore “favorevolezza” del trattamento pattizio rispetto a quello legale vada effettuato ex ante, cioè al momento della sottoscrizione del contratto e non alla sua cessazione, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’operazione di confronto tra l’indennità ex art. 1751 c.c. e le disposizioni degli AEC vada effettuata a posteriori.
In particolare, osserva la Corte di Cassazione 06/21301 che “l’art. 1751, comma 6, si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive” (nello stesso senso, C. Cass. 09/16325; C. Cass. 09/3614; C. Cass. 08/687; C. Cass. 07/16347; C. Cass. 07/9538; C. Cass. 07/5690; C. Cass. 07/21088; C. Cass. 08/687; C. Cass. 08/ 13363; C. Cass. 08/23966; C. Cass. 09/3614).
La giurisprudenza più recente (successiva al 2008) ha leggermente ridotto il ruolo della contrattazione collettiva, pur non arrivando a stabilirne la nullità; tale orientamento è stato apertamente criticato in dottrina.
Si tratta, infatti, di una posizione inconciliabile con quanto affermato dalla Corte di Giustizia e quindi in aperta violazione del principio, pur ribadito nella sentenza stessa, secondo cui i giudici nazionali sono tenuti ad interpretare le norme che attuano le direttive europee in conformità delle stesse (v. Bortolotti-Bondanini, Il contratto di agenzia commerciale, Padova 2003 p. 36; F. Toffoletto, op. cit., p. 284; Basenghi, Il contratto di agenzia, p. 288; Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, Milano 2015 p. 438 ss.).
 
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